lunedì 26 dicembre 2016

Il GGG - Il Grande Gigante Gentile


A Londra, Il Grande Gigante Gentile, unico vegetariano della sua specie, rapisce l'orfanella Sophia e la conduce nella propria caverna, nella terra dei giganti. Inizialmente spaventata dal misterioso essere, la piccola ben presto comprende che si tratta, in realtà, di una creatura buona ed amichevole, capace di insegnarle cose incredibili. Il GGG, infatti, la porta nel Paese dei Sogni, ove cattura i sogni da mandare di notte ai bambini: così trascorre tutto il proprio tempo, impedendo pure che gli altri giganti - più grandi di lui - divorino gli esseri umani. Quando, però, costoro sono pronti ad una strage, Sophia ed il GGG si recano a Buckingham Palace, per avvertire la regina d'Inghilterra dell'imminente pericolo... 

"Il GGG" di Roald Dahl esce nel 1982, lo stesso anno in cui "E.T." giunge nelle sale cinematografiche: una coincidenza, forse, oppure il segno che Steven Spielberg doveva, presto o tardi, incontrare nella sua filmografia lo scrittore anglo-norvegese, e adattare la di lui storia. In primo luogo, perché - assieme a "Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato" (1964) ed a "Matilda" (1988) - è il romanzo più noto del suo autore ed uno fra i maggiormente amati della letteratura per l'infanzia di ogni epoca; poi, in ragione del fatto che nell'opera di Dahl compaiono diversi elementi che non potevano non suscitare l'interesse del cineasta dell'Ohio. Ad accomunare il lavoro dei due artisti è il tema della diversità, un filo rosso che in questa versione per il grande schermo è evidentissima; inoltre, vi è la maniera similare in cui ambedue mai celano la cognizione del dolore nell'infanzia, accompagnandola però sempre ad uno scioglimento lieto. 

Ultimo film adattato per lo schermo da Melissa Mathison (collaboratrice storica del nostro, scomparsa nel 2015, e sceneggiatrice, tra l'altro, proprio di "E.T."), il film è costato ben 140 milioni di dollari, con esiti al botteghino niente affatto soddisfacenti (nel weekend d'apertura negli Usa, soltanto 19 milioni di dollari). Gli è, probabilmente, che non risulta per nulla facile trasferire lo spirito della pagina di Dahl in celluloide: in particolar modo pensando ad un pubblico americano, abituato ad associare ai piccoli il mondo quale luogo protetto ed infantilizzato. Si diceva, poc'anzi, del dolore; e l'argomento è trattato, per immagini, con delicatezza, laddove il GGG mostra a Sophia il suo peggior incubo dentro ad un vaso, contenente i rimorsi e la pena per un errore che non si può più correggere. Spielberg non pigia il pedale su detto versante, e - soprattutto nella seconda parte - cerca il divertimento finanche in maniera greve (le variazioni petofone del gigante, che nella concretezza della visione hanno una sguaiataggine non trasmessa, invece, dalla lettura). Ciononostante, l'equilibrio è raggiunto (con l'ausilio di notevoli effetti speciali): la piccola Sophia (l'esordiente inglese Ruby Barnhill), che legge il "Nicholas Nickleby" di Dickens e ha coraggio inversamente proporzionale alla sua età, è destinata a restare nella memoria; ed il gigante - Mark Rylance, vincitore dell'Oscar come miglior attore non protagonista per "Il ponte delle spie" - è figura non dimenticabile, nelle sue intenerenti stramberie. 
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL GGG - IL GRANDE GIGANTE GENTILE. REGIA: STEVEN SPIELBERG. INTERPRETI: MARK RYLANCE, RUBY BARNHILL. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DURATA: 120 MINUTI.

martedì 20 dicembre 2016

Paterson


Paterson è un guidatore di autobus che vive con la moglie Laura e il cane Marvin, in una cittadina del New Jersey che porta il suo stesso nome. Ogni sera, dopo aver percorso le strade del posto per il suo lavoro, torna a casa, porta a spasso il cane e beve una birra nel pub del quartiere. La consorte ha una passione per il decoro ed insegue l'ambizione di diventare una cantante. Paterson, di contro, trascorre la pausa pranzo scrivendo poesie su di un taccuino segreto, che mai abbandona. Nei suoi versi v'è traccia evidente della  passione per William Carlos Williams, poeta nativo del luogo, suggestioni provenienti da Allen Ginsberg e Frank O'Hara, assieme ad esperienze ricavate dall'orizzonte quotidiano. Ed è il proprio dono - la capacità della scrittura -  a sottrarlo ad una routine di luoghi ed azioni sempre uguali e, potenzialmente, alienanti.

"Ho visitato Paterson per la prima volta venticinque anni fa: un piccolo posto dimenticato e, tuttavia, interessante, prima città industriale statunitense, oramai impoverita dalla corruzione dei governanti e dal degrado. Da allora ci sono tornato spesso e vent'anni fa avevo già scritto un piccolo trattamento su un guidatore di bus. Ma probabilmente i cittadini di Paterson neanche vedranno il film". Così parlò Jim Jarmusch, da tre decenni e oltre tra i cineasti più peculiari ed inventivi del cinema indie americano, abile a connotare i propri lavori in modo unico, pur per il tramite di un linguaggio in ininterrotta evoluzione. Nella fattispecie, qui l'idea è quella di un'opera che parli di poesia e, al tempo medesimo, di essa faccia la propria sostanza: impresa difficile, nella quale ben pochi prima di lui si sono cimentati.

Presentato con successo all'ultima edizione del film di Cannes, "Paterson" è una sorta di itinerario nei meccanismi medesimi della scrittura poetica, ed un'indagine nei rapporti che esistono fra la parola e l'immagine. L'iniziale richiamo ai fiammiferi ci porta subito in tema, complice il richiamo al Prévert della più nota lirica: la voce over che ripete i versi - un espediente che poteva risultare stucchevole - si fa via via indispensabile elemento per mettere in rilievo la figura dell'anafora (presente, pure, nel ripetersi di situazioni e comportamenti), che presiede alla narrazione. Come Dante, non casualmente evocato, il protagonista descrive quanto lo circonda, ascolta conversazioni riguardanti degli argomenti atipici (su Gaetano Bresci, ad esempio: "un omaggio dovuto - spiega Jarmusch - dato che a Paterson, alla fine dell'800, ci fu un importante sciopero che bloccò la produzione tessile e fu proprio l'italiano a ispirare quella rivolta"), annota e trasfigura con puntualità e metodo. La poesia di una ragazzina incontrata per combinazione è bella quasi come quelle del Nostro (a proposito, i versi scritti in realtà son quelli di Ron Padgett): perché ad essere importante è lo sguardo, capace di dare un significato speciale alle cose più semplici.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

PATERSON. REGIA: JIM JARMUSCH. INTERPRETI: ADAM DRIVER, GOLSHIFTEH FARAHANI. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 117 MINUTI. 

giovedì 15 dicembre 2016

Aquarius


Clara è una giornalista e critico musicale in pensione, che sta da sola dopo la morte del marito; è, pure, l'unica rimasta a vivere nel complesso sul mare “Aquarius”, costruito negli anni '40 per l'alta borghesia di Recife. La società immobiliare nuova proprietaria - che adesso possiede l'intero stabile - è riuscita a convincere gli altri abitanti del condominio a cedere alle proprie offerte, con l'eccezione dell'interno di Clara. Tra lei e Diego, fascinoso nipote dell'imprenditore, gentile ed educato ma spietato, comincia una guerra di logoramento, che sospinge la donna a ripercorrere il proprio passato, contemporaneamente dando uno sguardo al futuro che l'attende. 

Presentato con successo all'ultima edizione del festival di Cannes, "Aquarius" inizia coi festeggiamenti per il compleanno dell'anziana zia della protagonista, femmina libera e spregiudicata in epoca in cui non era facile esserlo. Al tempo medesimo, si celebra la rinascita della giovane Clara, fresca reduce da un'operazione al seno che le ha evitato la morte. Stacco, e dagli '80 in pieno regime militare passiamo all'oggi. Clara trascorre le ore prediligendo andamento lento ed abitudini antiche: la nuotata quotidiana, un flirt platonico con il bagnino, l'ascolto dei suoi amati vinili - predilezione per la samba ed i Queen - e le visite dei nipoti che i suoi tre figli le hanno dato.

"Non accettando di vendere la casa dove vive ed è stata felice con il suo uomo, Clara combatte non inconsapevolmente contro quell'idea di 'crescita' che ha portato il mondo all'attuale rovina o quasi", ha dichiarato il regista brasiliano Kleber Mendonça Filho (appena proclamato vincitore del premio Fénix per il cinema iberoamericano). Si sottolinea apertamente, dunque, il carattere "politico" della pellicola: la resilienza sembra essere l'unico rimedio per contrastare l'avidità di un capitalismo da rapina, che non si premura più che tanto di celare i propri metodi scorretti, se non criminali, quando vuole ottenere uno scopo. Resistere non serve a niente, recitava il titolo di un bel romanzo di Walter Siti; non la pensa così Clara, che non si lascia tentare da lusinghe, intimorire da velate minacce, spaventare da imprevisti eventi. Come l'orgia che una notte si svolge nell'appartamento sopra il suo: la visione di quei corpi nudi allacciati, invece di sgomentarla, la eccita: fino al punto da farle invitare in casa un gigolò, consigliatole dalle amiche parecchio disinvolte. 

E quando la proprietà sferra l'assalto finale (con metodi selvaggi, che qui non vi riveleremo), la risposta di Clara è all'altezza della sfida: con l'aiuto di una sua amica avvocato e di uno tra i figli, scoperchia il verminaio che cresceva a sua insaputa nel palazzo e smaschera i mandanti in un finale rude e secco, metafora feroce della rottamazione. Nelle sue due ore e venti di durata, che scorrono con la meraviglia che dà la lettura di un grande romanzo, "Aquarius" riluce della matura grazia di Sonia Braga: esplosa in tutta la sua carica di sensualità quarant'anni fa con "Donna Flor e i suoi due mariti" di Bruno Barreto (il più bell'adattamento mai realizzato della pagina di Jorge Amado), questa attrice fiera e bellissima ha attraversato la vicenda del cinema sudamericano con una classe, un talento, un carisma inimitabili. Si può ben dire che questo film sia la celebrazione di una carriera che non ha uguali, e di una invincibile guerriera dell'esistere.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

AQUARIUS. REGIA: KLEBER MENDONCA FILHO. INTERPRETI: SONIA BRAGA, MAEVE JINKINGS, IRANDHIR SANTOS, HUMBERTO CARRAO. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 140 MINUTI.    



martedì 6 dicembre 2016

E' solo la fine del mondo

Dopo un'assenza durata dodici anni Louis, giovane e affermato drammaturgo, torna nella casa natale per informare i propri familiari d'essere afflitto da un male incurabile. S'imbarca sul primo aereo, rientra in seno alla comunità dalla quale era fuggito, che lo attende tra premurosità e isteria. C'è Suzanne, la sorella minore, che egli non ha mai veduto crescere; Antoine, il fratello più grande, collerico per il non previsto evento e aggressivo perché si sente in qualche modo minacciato da questo ritorno; la madre di tutt'e tre, ingombrante e premurosa, del tutto inadeguata ad affrontare un figlio che, peraltro, mai era riuscita a capire. Infine Catherine, la cognata ignota, che s'esprime con timidezza, ma è l'unica a comprendere, alla fine, le ragioni dell'imprevista visita. Insieme a loro, Louis va in cerca di brandelli di verità, ma - proprio come avveniva in passato - le voci si sovrappongono, il bisogno di urlare prende il sopravvento; nevrosi e rancori, rabbie e paure si ripresentano puntuali, confinando la speranza a mero rumore di fondo.

Tratto da un testo teatrale scritto nel 1990 dal francese Jean-Luc Lagarce (morto nel 1995, a causa di complicanze subentrate al virus Hiv), "E' solo la fine del mondo" - premio della giuria a Cannes, giusto il festival che ha accolto il nostro da quando aveva vent'anni - è un kammerspiel teso, potente, violento di quella violenza che solamente l'abuso di parole e di emozioni riesce a creare. Da "J'ai tué ma mère" a "Mommy", è la sensazione della vergogna, la vergogna di sé a tener separati i membri delle famiglie di Dolan, perduti in querelle interminabili. Con "E' solo la fine del mondo", la separazione è condotta al calor bianco e profusa dentro un'emorragia verbale devastata e devastante. Congedo privo di appelli, nel quale la crudeltà ha la meglio su ogni possibile tenerezza e la vis drammaturgica ripropone quella della pièce teatrale, il film inscena un'impossibile riconciliazione e salda, presumibilmente, i conti con l'argomento, evocandolo un'ultima volta in interni e calandolo nel caos più assoluto.

Contestato da alcuni critici per l'aria di palcoscenico che vi circola e per la chiusura, fino al tanfo, in una messa in scena claustrofobica, "E' solo la fine del mondo" appare, forse, meno originale ed azzardoso degli altri titoli del nostro, ma per certo è il più sentito e vigoroso. Il 27enne regista canadese continua la sua personale immersione nelle sgradevoli dinamiche di gruppi familiari disfunzionali, probabile frutto di ossessioni coltivate con nevrotico impegno. I termini per spiegarsi non s'individuano, ciascuno grida la propria rabbiosa insoddisfazione, solo chi ascolta (la cognata) riesce ad udire, dire qualcosa (il protagonista) si rivela anelito a un traguardo irraggiungibile, condanna ad una solità fattasi gravame insopportabile. Privilegiando primissimi piani, adoprando il campo-controcampo alternato a repentini scambi corali, Dolan compone una raffinata partitura per sussurri e grida (espressione, non a caso, forgiata da un critico musicale, riferendosi ad un quartetto di Mozart), che trova negli eccezionali interpreti degli esecutori ideali. La metafora finale dell'uccello a cucù che s'incarna per poi piombare al suolo è uno svolazzo magari pleonastico, ma che si perdona volentieri ad un autore fra i più necessari e peculiari del cinema contemporaneo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

E' SOLO LA FIE DEL MONDO.REGIA: XAVIER DOLAN. INTERPRETI: GASPARD ULLIEL, NATHALIE BAYE, LEA SEYDOUX, VINCENT CASSEL, MARION COTILLARD. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 95 MINUTI. 




lunedì 28 novembre 2016

Amore e inganni

Un'affascinante e giovane vedova, Lady Susan Vernon, si reca per una vacanza a Churcill, proprietà del fratello del consorte, per scoprire i più recenti pettegolezzi circolanti nella buona società: ve ne sono diversi che la riguardano. L'altro, più importante scopo è quello di assicurare a lei e alla giovane figlia Federica, ormai in età di sposarsi, dei mariti capaci d'offrire ad entrambe un'esistenza agiata: ad aiutarla nell'impresa è Alicia Johnson, migliore amica e confidente. L'arrivo al castello del fascinoso Reginald De Courcy e di Sir James Martin, un sempliciotto foderato di quattrini, paiono favorire le mire della donna: ma, ben presto, le cose si complicano. I suoi modi seduttivi finiscono per attrarre entrambi gli uomini; in particolare, le attenzioni riservate al primo privano la sorella di Mr.Manwaring, un'amabile fanciulla, dell'innamorato. Per gli stessi motivi, la moglie di Mr.Manwaring diviene gelosa ed infelice. Quando gli eventi sembra stiano precipitando, un cambio di strategia rovescerà un oroscopo fattosi infausto: tutto si sistemerà, secondo le mire della calcolatrice, quanto irresistibile, protagonista.

"Lady Susan" è stato scritto verso la conclusione del '700, quando Jane Austen aveva vent'anni ed era alle prese con la prima stesura di "Ragione e sentimento". Tuttavia, fino al 1811 nessuno fra i suoi racconti venne pubblicato e, a quel momento, è ragionevole supporre che la scrittrice fosse insoddisfatta del testo. Probabilmente, la prima cosa che non la convinceva più era la forma epistolare: assai popolare nel XVIII secolo (ella stessa l'aveva adoperata per la citata, prima stesura di "Ragione e sentimento", che portava il titolo di "Elinor e Marianne"), era poco adatta al talento della nostra, che vi rinunciò volentieri per passare alla terza persona, metodo dipoi utilizzato sempre. "Lady Susan" - titolo scelto dalla nipote della Austen, per un lavoro che ancora ne era privo - apparirà mezzo secolo dopo la morte dell'autrice, quando la famiglia concede finalmente il diritto di pubblicazione.

E', "Amore e inganni", il quinto lungometraggio firmato da Whit Stillman, cineasta fra i meno prolifici che la storia del cinema recente annoveri. Risale infatti al 1990 il suo esordio con "Metropolitan" - un garbato balletto sentimentale tra giovani appartenenti alla upper class newyorkese, dipinti senza cinismo o accondiscendenza - che, dopo un passaggio al Sundance Film Festival, fece incetta di premi e sembrò aprire la strada ad un nuovo, promettente talento. I successivi "Barcelona" (1994) e "The Last Days of Disco" (1998), tuttavia, non mantengono in pieno le aspettative, stazionando fra manierismo e ritualità. Un poco meglio le cose andranno con "Damsels in Distress" (2011), grazie principalmente ad un cast valido e capitanato da Greta Gerwig, impagabile come d'uso. "Amore e inganni" sciorina direttamente i numi tutelari dell'intera filmografia stillmaniana: Jane Austen che, per tematiche e sensibilità, può dirsi da sempre presente nelle pellicole di lui; e Woody Allen, del quale condivide la propensione per la dimensione affabulatoria e la predilezione per personaggi calati in complesse vicende romantiche. La forma scelta, questa volta, è quella della commedia classica: il ritmo vi appare sostenuto, il rimpallo delle battute impeccabile, la complicità coi personaggi convincente. Kate Beckinsale fornisce una prova maiuscola, dando alla narrazione qualcosa che rende il risultato specialmente gradevole.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

AMORE E INGANNI. REGIA. WHIT STILLMAN. INTERPRETI: KATE BECKINSALE, CLOE SEVIGNY. DISTRIBUZIONE: ACADEMY TWO. DURATA: 92 MINUTI. 

lunedì 21 novembre 2016

Il cliente

Emad e Rana sono due coniugi obbligati a lasciare il proprio appartamento, in seguito ad un grave danno nel condominio in cui vivono. Si trovano, così, a dover trasferirsi in una nuova casa: nella bisogna, sono aiutati da un collega della compagnia teatrale dove i due recitano da protagonisti, nella “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. La nuova abitazione, però, ospitava in precedenza una prostituta, situazione che a loro non è stata fatta presente: così che un giorno, a Rana, capita d'aprire la porta - certa che si tratti del marito - a uno dei clienti della donna, il quale la aggredisce. Dopo il trauma, mentre ella è afflitta da paure, Emad si mette in cerca dell’uomo meditando una vendetta privata, nella quale non vuole coinvolgere la consorte e, ovviamente, la polizia...

Dopo la parentesi francese de "Il passato" (2013), Asghar Farhadi ritorna a proporci una vicenda iraniana, ambientata a Teheran. La trovata di far procedere azione teatrale e storia dei personaggi, creando una sorta di specularità gravida di significati, è probabilmente la meno azzeccata del film: nelle parti "di palcoscenico" (nell'incipit, dipoi nel sottofinale), si esprime un'idea dell'individuo solo sulla quinta del mondo che risulta già evidente - e assai più pregante - in quanto egli racconta con le immagini. Avendo inoltre presente che il testo di Arthur Miller mette in scena un tempo di mutazione nella dimensione sociale degli Usa, pel tramite delle vicende familiari del suo protagonista, non è difficile intuire che il nostro allude all'attuale fase storica dell’Iran, alle prese con un cambiamento tanto repentino dal finir col disorientare chi non sia pronto ad adattarvisi.

Se la sospensione fra cinema e teatro pare forzosa, nel narrare la disavventura che tocca in sorte ai protagonisti Farhadi ritrova la propria maestria registica e la sua sensibilità di artista. Qui, alla lettura sociologica si sostituisce la capacità di star sui fatti attraverso una camera che segue i personaggi senza braccarli, li fa vivere senz'ombra di artificio, scava nelle loro reazioni con un'intensità dostoevskiana. Come d'abitudine, il cineasta iraniano tiene fuori campo quello che è comunque comprensibile: la violenza può essere espressa da una stanza vuota, dai suoni di dolore, dalle grida smorzate, o dai tonfi innaturali che si odono. In ciò lontano dalle modalità occidentali, Farhadi lavora, invece, per sottrazione: il suo interesse va tutto alle reazioni di Emad e Rana, la rabbia di lui che si fa via via più scomposta, lo stress di lei che pur non rimuovendo sa che nulla può più essere cambiato. Sino ad un intenso finale, nel quale il carico delle responsabilità si dimostra meno facile  del previsto da suddividere e la pietà fa capolino, pur senza che una seconda tragedia sia evitata. Magari con una minore intensità che nel capolavoro "Una separazione" (2011), la poetica dello spaesamento di Farhadi viene tuttavia enunciata con nitore e potenza, grazie pure ad una coppia di interpreti straordinari (Shahab Hosseini è stato premiato a Cannes, ma uguale riconoscimento avrebbe meritato Taraneh Alidoosti). 
                                                                                                       Francesco Troiano

IL CLIENTE. REGIA: ASGHAR FARHADI. INTERPRETI: SHAHAB HOSSEINI, TARANEH ALIDOOSTI, BABAK KARIMI. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 125 MINUTI.


mercoledì 16 novembre 2016

Animali notturni

Susan Morrow, proprietaria di una prestigiosa galleria d'arte di Los Angeles, conduce una vita agiata ma algida col ricco secondo marito Hutton Mortow, che la tradisce sulla East Coast. Il primo, Edward Sheffield, l'ha lasciato in modo assai crudele 19 anni prima: lo riteneva un debole ed un velleitario, con le sue ambizioni da scrittore. Ora, dopo lungo silenzio, lui si fa vivo inviandole il manoscritto del primo romanzo, "Nocturnal Animals", dedicato giusto a lei. Insieme al libro, vi è un biglietto che la esorta a leggerlo, e a chiamarlo durante il suo soggiorno in città. Incuriosita (e, pure, per riempire il vuoto di un lungo week-end da sola),  Helen si cala nella storia di Tony Hastings, bonario pater familias in viaggio per una vacanza nel Texas, assieme alla moglie Laura e alla figlia India. Si parte a tarda ora, in omaggio ai desiderata di quest'ultima (che, per le sue preferenze, viene definita "un animale notturno"). In quelle strade, però, si muovono pure balordi pronti a sconfinare nella provocazione e nella violenza: l'incontro con Ray Marcus e la sua combriccola è destinato a mutare la vita del piccolo nucleo familiare. E anche quella di Susan...

Secondo film da regista dello stilista Tom Ford (dopo "A Single Man", interessante adattamento del bel romanzo omonimo di Christopher Isherwood), "Animali notturni" ha una scena incipitaria che davvero non ci si attenderebbe da un noto esteta: la danza, sfrenata e al ralenti, d'un gruppo di donne obese e per intiero nude (stivali e cappellino da majorettes a parte), in un turbinio di carne molliccia e di sguardi più che ammiccanti. Si tratta, in realtà, di una tra le videoinstallazioni della galleria di Amy: ma è, al tempo stesso, un'indicazione, un presagio sui temi del film, dalla ingannevolezza dello sguardo allo sgomento della scoperta. Adattamento di un noir postmoderno di Austin Wright ("Tony&Susan", da noi uscito per Adelphi), la pellicola si muove fra due piani temporali e fra realtà e visualizzazione delle pagine di Edward: sicché la prospettiva metacinematografica si fa metalinguistica, in una vertigine che avvolge lo spettatore già dal citato, ipnotico inizio.

"Animali notturni" è la notomizzazione feroce d'un matrimonio fondato sulle apparenze, una riflessione aguzza e penetrante sul rapporto fra arte e vita, un'indagine sulla ferita sempre purulenta del rimosso. In questa difficile operazione, Ford si muove con l'eleganza di un couturier e la lucidità d'un intellettuale: il passaggio fra tempi, luoghi, azioni differenti è ottenuto con straordinaria fluidità, pel tramite d'immagini indelebili - l'apparizione repentina di un'inquietante figura dallo schermo di un phablet, il ritrovamento di due cadaveri femminili nudi sopra un divano rosso in mezzo al nulla - e d'una sceneggiatura - firmata da Ford medesimo - lavorata finemente di bulino. Con un senso della struttura e della suspense che sarebbe piaciuto a Hitchcock, attraverso la sapiente costruzione di atmosfere lynchiane, il film mette in scena l'unheimlich freudiano con chirurgica precisione e un'esattezza che si ferma sull'orlo della pietas. "Non ci sono secondi tempi nelle vite americane", ammoniva Scott Fitzgerald: ne pare consapevole, la protagonista (una superba Amy Adams, alla quale Jake Gyllenhaal dà la replica con autorevolezza), quando nel finale si trova, da sola, ad aspettare un incontro che smentisca l'oroscopo. In un ristorante di lusso, fra camerieri compitissimi ed atmosfera elegante: la fotografia della vita che ha scelto. E che non si lascia abbandonare.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ANIMALI NOTTURNI. REGIA: TOM FORD. INTERPRETI: JAKE GYLLENHAAL, AMY ADAMS. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 117 MINUTI.



mercoledì 9 novembre 2016

Fai bei sogni

Dopo un'infanzia solitaria e un'adolescenza difficile, Massimo è divenuto un giornalista di successo ma, ancora, incapace di elaborare, di convivere con un ricordo lacerante: la perdita della madre in tenera età. Dolce, giovane e bella, sovente però afflitta da repentina malinconia, da improvvise assenze, ella usciva di scena in modo inatteso, la mattina del 31 dicembre 1969. Un attacco cardiaco fulminante, la versione ufficiale per il bambino di 9 anni: figlio unico di colpo piombato in uno stato d'orfanità dolorosa, poco o nulla aiutato da un padre annichilito emotivamente e imprigionato nel proprio ruolo. Ciò porta Massimo ad idealizzare la genitrice, di lei facendo la figura più importante della propria vita, sino al punto da non riuscire a stabilire delle relazioni sentimentali solide una volta adulto. Il disagio interiore, per anni tenuto sotto controllo, si manifesta durante una trasferta professionale nella forma d'un attacco di panico: inizia così un viaggio a ritroso, ove egli si trova a confrontarsi coi fantasmi del passato e d'una verità che forse  ha voluto celare a se medesimo...

Molto spesso, Bellocchio ha tratto ispirazione, per le proprie pellicole, da fonti letterarie: Cechov per "Il gabbiano", Pirandello per "Enrico IV" e "La balia", Kleist per "Il principe di Homburg", i primi titoli a venire alla mente. Stavolta, la scaturigine è l'esordio nel romanzo di Massimo Gramellini (giornalista de "La Stampa"): best-seller da subito, "Fai bei sogni" è narrazione dichiaratamente autobiografica, scritta in un linguaggio piano e accessibile, con una struttura da thriller dell'anima (una parola, quest'ultima, di grande importanza per l'autore; priva, invece, di cittadinanza nel laico universo del cineasta piacentino). Poco di male, direte voi: il regista probabilmente più grande della storia del cinema, Stanley Kubrick, si è sempre confrontato con narratori di statura intellettuale inferiore alla sua (tranne che in un caso, quello del Nabokov di "Lolita"), con risultati ogni volta superlativi.

Il problema è che il punto di partenza può essere ignorato sino ad una certa soglia: laddove la materia è quella che è, persino le migliori intenzioni rischiano di essere punite. E' così che "Fai bei sogni" finisce per contenere due film in uno: il primo, quello che precede l'approdo all'età adulta del protagonista, è di chiara matrice bellocchiana, con la famiglia, il disagio psichico, l'approccio alla Chiesa, i salti nel vuoto, la morte; il secondo, che si muove tra gli amori e le vicende professionali di Massimo, è prevedibile e, a tratti, goffo (si veda la scena del ballo, o quella della trasferta a Sarajevo). Qui - malgrado l'appassionata mediazione di un sempre più bravo Valerio Mastandrea - la trama perde colpi, si fa confusa e scentrata. Resta positivo, comunque, il bilancio finale: anche per merito di straordinarie caratterizzazioni (superbo Roberto Herlitzka nei panni di un ambiguo religioso, e folgorante l'apparizione di Piera Degli Esposti) e di una maestria nell'uso della macchina da presa che ha pochi uguali. Da "I pugni in tasca", sino a oggi.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

FAI BEI SOGNI. REGIA: MARCO BELLOCCHIO. INTERPRETI: VALERIO MASTANDREA, BERENICE BEJO. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 113 MINUTI.    

martedì 1 novembre 2016

La ragazza del treno

Depressa e alcolizzata, Rachel Watson non ha superato il divorzio dal marito Tom, che s'è risposato con Anna: per far trascorrere le giornate, dopo aver perduto il lavoro, prende sempre il medesimo treno da e per Manhattan, guardando fuori dal finestrino. Lo fa per rivedere la casa che, un tempo, divideva con il consorte e dove egli continua a vivere con la nuova compagna: ma si è, pure, identificata con quella che lei ritiene una sorta di coppia perfetta, composta da Scott e da Megan Hipwell, dei quali nascostamente sbircia l'esistenza. Quando Megan scompare misteriosamente, Rachel comincia una indagine personale, fingendo di essere un'amica. Ma l'alcolismo le provoca dei lunghi black out, per cui nessuno le crede; al punto che la polizia, già messa in allerta dal fatto che ella perseguita l'ex-coniuge, inizia a sospettarla. E, d'altra parte, neppure lei è tanto sicura di essere innocente...

15 milioni di copie vendute, 600mila solo in Italia. Sono i numeri de "La ragazza del treno", bestseller dell'anno firmato dall'ex-giornalista inglese Paula Hawkins, nativa dello Zimbabwe, residente a Londra: a differenza di quanto fatto da Gillian Flynn, autrice de "L'amore bugiardo" e pure della sceneggiatura del film che David Fincher ne ha tratto, la nostra ha preferito passare la mano. Dietro la macchina da presa dell'inevitabile trasposizione cinematografica troviamo stavolta Tate Taylor, reduce dal successo al botteghino di "The Help" (200 milioni di dollari): "La ragazza del treno", ha dichiarato, "sotto la superficie del thriller, è quello che in letteratura chiamiamo uno studio del carattere, perché la personalità dei personaggi è importante almeno quanto la trama. Tratta di sentimenti primari quali dolore, perdita, amore, dipendenza, manipolazione".

Spostata l'azione dalla periferia di Londra a New York, la sceneggiatura di Erin Cressida Wilson mette in scena una sorta di dramma femminista, con tre personaggi muliebri così forti da relegare gli uomini in posizioni secondarie. Il punto di riferimento che viene subito alla mente è, ovviamente, "La finestra sul cortile" di Hitchcock: tuttavia, Tate Taylor sostiene di aver avuto presente solo "Omicidio a luci rosse" di Brian De Palma, dato che il personaggio di Melanie Griffith - ragazza di provincia che lavorava da pornostar - aveva una sensibilità affine a quella di Megan, entrambe in cerca di rassicurazione tramite il sesso. Ambientato, come di rado le pellicole di suspense, di giorno, e con le scene che hanno al centro Rachel girate a mano, per sottolineare la periclitante attendibilità dei ricordi di colei che è voce narrante, "La ragazza del treno" è un prodotto che non manca d'efficacia: lo spettatore vi troverà, probabilmente, soddisfatte le proprie aspettative, nonostante la finezza e l'eleganza della pagina scritta vadano in buona misura "lost in translation". Tra gli atout, un cast di attori credibile ed efficace: lo capitana Emily Blunt, che - segnata da una truccatura au contraire, volta a sottolineare occhiaie e capillari, con tanto di protesi a gonfiare le guance - fornisce una prestazione eccellente; forse la migliore della sua carriera, a sottolinearne le qualità d'attrice di razza.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA RAGAZZA DEL TRENO. REGIA: TATE TAYLOR. INTERPRETI: EMILY BLUNT, LUKE EVANS, HALEY BENNETT, REBECCA FERGUSON, JUSTIN THEROUX. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 111 MINUTI.   


martedì 25 ottobre 2016

La ragazza senza nome

Jenny Davin è una giovane dottoressa assai considerata, tanto che un primario ospedale le ha proposto un importante incarico. Nel frattempo, gestisce il suo ambulatorio di medico condotto in cui ha accolto Julien, studente in medicina stagista. Una sera, un'ora dopo la chiusura, qualcuno suona al campanello e lei sceglie di non aprire. Il giorno seguente, scoprirà che una donna africana è stata trovata, cadavere, nelle vicinanze: è per questo che la polizia chiede di visionare la registrazione del video di sorveglianza dello studio. Si tratta proprio di colei alla quale Jenny non ha voluto rispondere. Sul corpo non v'è traccia di documenti: a questo punto, il senso di colpa conduce Jenny ad una ricerca ossessiva dell'identità della vittima...

I fratelli Dardenne concepiscono questo loro decimo lavoro - in concorso alla più recente edizione del festival di Cannes - come una specie di detection, tanto che in un primo momento s'eran risolti ad eleggere a protagonista un poliziotto. Poi la scelta s'è spostata sulla dottoressa, lungo una duplice pista: perché se è vero che ella s'ingegna a scoprire chi sia la ragazza ignota, quasi si sentisse in dovere di ripagarla pel suo disinteresse fornendole una riconoscibilità, allo stesso modo lei per lo spettatore è una sconosciuta, dato che nulla vien detto dei suoi trascorsi professionali o privati. 

Ovviamente, il personaggio di Jenny risulta, a ben guardare, apparentato ad altri dell'universo dei Dardenne, ad iniziare da quelli de "La promesse" (1996), dove pure era questione di risarcire una morte. Gli intenti dei due registi belgi restano sempre gli stessi: raccontare come la realtà sia imprevedibile, e come sempre differente sia il proprio effetto sugli esseri umani. Qui più che altrove, inoltre, la macchina da presa scruta il reale facendo scaturire il dramma e la successiva presa di coscienza attraverso i corpi, gli oggetti e le azioni delle "dramatis personae", con un rigore rosselliniano. Come in "Still Life" (2012) di Uberto Pasolini, ci troviamo davanti a una ricerca d'identità per un corpo che non trova alcuno pronto a fornirgliene una e che - per dirla con la dottoressa - "non è morto se continua ad agire nel nostro pensiero". Diversamente che in passato, i nostri affidano per la seconda volta la parte principale ad un'attrice nota in Francia: se in "Due giorni, due notti" la prescelta era Marion Cotillard, qui si ricorre ad Adèle Haenel (già vincitrice di due César). In entrambi i casi, l'intuizione s'è rivelata felice: nella fattispecie, l'interprete di "The Fighters" (2015) rende toccante l'anelito alla redenzione che guida le azioni di Jenny, facendo trepidare gli spettatori.


LA RAGAZZA SENZA NOME. REGIA: JEN-PIERRE E LUC DARDENNE. INTERPRETI: ADELE HAENEL, OLIVIER BONNAUD, JEREMIE RENIER. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 106 MINUTI.

lunedì 17 ottobre 2016

Io, Daniel Blake

Newcastle. Il cinquantanovenne Daniel Blake fa il falegname da sempre; per la prima volta, però, nella sua vita ha bisogno dello Stato, dato che è stato costretto a ritirarsi dal lavoro in seguito ad un attacco di cuore. Mentre si batte per ottenere un sussidio dopo decenni di fatiche (impresa che ha dell'impossibile, a causa delle pastoie della burocrazia inglese), conosce la ragazza madre Katie e i suoi due bambini. Per lei, l'unico modo di sfuggire a un'esistenza nella camera di un ostello londinese per i senzatetto, è quello d'accettar un appartamento in una città che non conosce, a ben 500 chilometri di distanza dalla capitale. Katie e Daniel si trovano così in una terra di nessuno, prigionieri d'un sistema che vuole la popolazione divisa in chi lavora duro e chi sfrutta i sussidi statali pur di non farlo...

Seconda Palma d'oro al festival di Cannes (la prima risale al 2006, per "Il vento che accarezza l'erba"), "Io, Daniel Blake" è un film che non si sarebbe dovuto realizzare. Eh sì, perché Ken Loach, giunto agli ottant'anni, aveva annunciato che avrebbe smesso la sua attività registica, a motivo della fatica che fare un film inevitabilmente comporta. E' stata una fortuna, che il nostro ci abbia ripensato: in primo luogo, perché egli è uno dei pochissimi cineasti che sappia rifiutar questo come il migliore dei mondi possibili; dipoi, perché è forse l'unico che abbia costantemente messo gli ultimi, i diseredati, al centro dei propri interessi; infine, perché il suo sguardo non nasconde d'essere ideologico nel miglior senso del termine, vale a dire affrontando il reale seguendo i dettami di un'etica.

"Io, Daniel Blake" è sin dal titolo - quelli col nome dentro paiono i più sentiti, dei suoi, vedi "My Name is Joe" - un lavoro appassionato ed urgente, "puro e schietto come i film di De Sica" ("Variety" dixit). L'umanità messa in scena è quella che non va sui giornali se non per categorie e statistiche; personaggi ai quali il capitalismo ripete, come un mantra, che essi non son degni di una storia - e della Storia, di cui invece sono il motore. Scritta in coppia con il sodale di sempre, Paul Laverty, l'ultima pellicola di Loach è pervasa da una disperazione che investe tutto, inclusi i partiti che hanno accettato una indecorosa resa con il sistema. La grandezza del protagonista, un working class hero anziano e malato, spicca ancor di più in un mondo senza pietà, ma nel quale egli non manca alla solidarietà verso i suoi simili (il rapporto d'affetto con Katie è fra le cose più belle che si siano viste di recente sul grande schermo). Ci sono due scene, in particolare, che sono destinate a restare: nella prima, una Katie letteralmente ridotta alla fame non resiste al desiderio di mangiare direttamente dentro lo spaccio dei poveri; l'altra, è lo scioglimento della vicenda, pregno di tristezza ma in cui risuona, forte, l'orgoglio della dignità. C'è chi, in un giornale di sinistra, ha detto che il verdetto di Cannes è stato rovinato dal massimo premio conferito a questo film. Si vergogni, costui; e si vergogni chi lo ha eletto recensore, senza il benché minimo discernimento.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IO, DANIEL BLAKE. REGIA: KEN LOACH. INTERPRETI: DAVE JOHNS, HAYLEY SQUIRES, BRIANA SHANN, DYLAN McKIERNAN. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 100 MINUTI.

lunedì 3 ottobre 2016

Quando hai 17 anni

In un aspro villaggio fra le montagne della Francia sud-occidentale, Damien e Thomas frequentano la stessa scuola. Potrebbero esser amici, ma non si sopportano: quando le parole non sono abbastanza, passano alle vie di fatto. La madre di Damien, Marianne, fa il medico; il padre, pilota militare, trascorre buona parte del suo tempo in missione. Thomas è magrebino, figlio adottivo di una coppia di contadini che vive in una remota fattoria in mezzo ai monti. Dopo molte difficoltà, la mamma adottiva di lui è, di nuovo, incinta; dal momento che la sua gravidanza si presenta complicata (nelle volte precedenti, la donna ha sempre dovuto interromperla), Marianne s'offre di aiutarla accogliendo Thomas in casa propria per il tempo necessario. I due ragazzi si trovano, quindi, sotto lo stesso tetto; e, pure a causa della forzata convivenza, il loro rapporto comincia a mutar segno...

André Téchiné ha già narrato nel suo film più bello, "L'età acerba" (1994), la genesi di un sentimento controverso e di un desiderio che nasce su spinta incoercibile della natura; tuttavia, sarebbe sbagliato ridurre "Quando hai 17 anni" alla mera descrizione di una passione adolescenziale. L'istintualità della età ingrata è certo il punto di partenza, ma il regista francese lo adopera per scandagliare una serie di tematiche: la virilità, la filiazione e quanto funge da matrice per i singoli. La sua macchina da presa si muove stando addosso ai personaggi, quasi mimandone nei movimenti l'inquietudine di fondo: però, mai si dimentica di inserirli con cura nel contesto sociale e familiare entro il quale si trovano ad agire.


Se "L'età acerba" era ambientato nella Francia del conflitto algerino, "Quando hai 17 anni" sceglie la contemporaneità e la provincia. Tra le montagne dell'Ariege, egli dipinge una comunità piccola e solidale, in cui la collaborazione ed il mutuo soccorso sono abituali e sentiti. Paiono lontani, se non addirittura inimmaginabili, i conflitti di classe: nel modo in cui Damien e Tom si cercano come se si  annusassero, si affrontano, si picchiano nel contesto di una natura selvaggia, sta piuttosto la ricerca di personali soluzioni; laddove la "confidenza" nella vita - lo dice Marianne al figlio, in una delle scene più belle del film - è la sola cosa da avere, la bussola sulla quale contare, finanche quando l'amore sembra far saltare tutti gli schemi, creando una sorta di ansia. La sceneggiatura di Céline Sciamma è efficace nella raffigurazione del difficile relazionarsi fra i protagonisti; tra loro si accomoda, quasi ad arbitrare gli scontri, la madre soccorrente e rigenerativa di Sandrine Kiberlain, strepitosa in un ruolo che si basa su sfumature e mezzetinte. Insomma, dopo qualche prova deludente, in sospetto di cedimento a logiche commerciali, Téchiné ritrova la forma delle opere migliori; e, a 73 anni, si confronta con l'età verde in maniera straordinaria. Auscultando i primi battiti dell'amore; rendendoli in immagini dolci, vitali, calde.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

QUANDO HAI 17 ANNI. REGIA: ANDRE TECHINE'. INTERPRETI: SANDRINE KIBERLAIN, KACEY MOTTET KLEIN, CORENTIN FILA, ALEXIS LORET. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 114 MIN. 

mercoledì 28 settembre 2016

Café Society

New York, anni Trenta. Bobby Dorfman lascia la bottega paterna d'orefice per andarsene in California, dove lo zio gestisce un'agenzia artistica che ha sotto contratto parecchi divi hollywoodiani. Infastidito dall'arrivo del nipote e persuaso della sua incapacità, dopo averlo a lungo fatto attendere, lo riceve e lo assume come fattorino. Bobby, smarrito a Beverly Hills e con la mente a New York, ritrova interesse davanti agli occhi incantevoli di Vonnie, segretaria - e, in segreto, amante - del dovizioso parente. Per lui è amore a prima vista, per lei no: ma le circostanze giocano a favore del sentimento di Bobby, che le propone di sposarlo e trasferirsi con lui nel Village newyorkese. Inaspettatamente, le cose mutano di nuovo, e Vonnie decide in un altro modo. Rientrato nell'unica città dove riesce ad immaginarsi, Bobby dirige con un talento indiscutibile il "Café Society", night club sofisticato che in breve tempo diventa un luogo alla moda, un posto in cui s'incontrano i rappresentanti del bel mondo. Coniugato e papà, oltre che uomo di successo, anni più tardi vede ricomparire, a sorpresa, la mai obliata Vonnie. Complice lo champagne, Bobby scopre che l'attrazione per l'antico amore è ancora forte ed impetuosa...


Quando non è impegnato a dirigere drammi dal sapore bergmaniano ("Interiors" o "Settembre", a dirne due), oppure è alle prese con vicende estremamente complesse (un titolo per tutti: "Crimini e misfatti"), Allen mette in scena con ammirevole persistenza sempre il medesimo personaggio: uno schlemiel solo sulla carta, un antieroe che simula d'essere un loser, un individuo che nutre illusioni sapendo quante siano le possibilità che vadano deluse. Detto personaggio ha attraversato il tempo e i tempi, trovando incarnazione nella contemporaneità però pure in epoche diverse ("Amore e guerra", per citarne uno), incarnato dal nostro ma, con l'avanzare della vecchiaia, lasciando il posto ad eccellenti impersonatori. In "Café Society" - il film suo più compiuto ed affascinante degli ultimi tre lustri, assieme al memorabile "Blue Jasmine" - è un superbo Jesse Eisenberg a indossarne i panni, a essere mosso da un'ambizione che non sa assumere dei contorni precisi, e a diventare solo "un cervo abbagliato dai fari" in presenza dell'innamoramento. Collocato nella seconda metà dei '30, con l'autore che si riserva di raccontare gli eventi con una mai invadente voce over, il film parte in guisa di una commedia scoppiettante e procede così a lungo, con uno splendore figurativo e un'eleganza di composizione che ricordano il Lubitsch dei vertici. Il rimpallo delle battute è formidabile, il sottotesto comico trascinante: la felicità dei protagonisti è, poi, contagiosa, giunge in platea suscitando sorrisi e, via via, commozione.



Al momento della svolta narrativa, la love story mancata sembra lentamente rifluire e scomparire, per poi riapparire in scena senza preavviso. E i cuori della giovane coppia riprendono a battere all'unisono, in un breve incontro che lo skyline di Manhattan s'incarica di sottolinear, con incanto immarcescibile. Tornano in mente Alvy e Annie, di cui Bobby e Vonnie paiono a tratti progenitori: lo spleen agrodolce è lo stesso, e il clima di struggimento in cui si lasciano ci lascia interdetti ed immalinconiti, giusto com'era lì. Tuttavia, invecchiato bene, Allen sa che nel futuro lontano l'unico possibile antidoto alla vecchiezza amara sarà il ricordo. L'impossibilità a essere in due, a portare a compimento il desiderio, si muta in dolce nostalgia, in eternazione della memoria del primo amore. Ciascun attimo dell'esistenza di ognuno di loro verrà vissuto con la consapevolezza che l'altro condivide quella passione, quell'abbandono che avevano da essere eterni e tali non sono stati. E, in una sera di capodanno, il sembiante tra dolente e trasognato dei due testimonia d'una fiamma che non si spegne, d'un segreto che sarà custodito gelosamente da entrambi. Nel cuore. Per sempre.

                                                                                                                                     Francesco Troiano


CAFE' SOCIETY. REGIA: WOODY ALLEN. INTERPRETI: KRISTEN STEWART, JESSE EISENBERG, STEVE CARELL, BLAKE LIVELY. DISTRIUZIONE: WARNER BROS. DURATA: 96 MINUTI.

                                                                            

martedì 20 settembre 2016

La vita possibile

In fuga da un marito violento, che le denunce e le diffide non sono riuscite a tenere a bada, Anna lascia la sua casa a Roma, insieme al figlio tredicenne Valerio. La donna si reca a Torino, dove viene accolta da Carla, attrice di teatro oltre che amica di vecchia data. Preso alloggio nel minuscolo appartamento con soppalco di quest'ultima, felice tanto da accogliere a braccia aperte l'antica sodale ora in difficoltà, Anna si mette in cerca di un lavoro per dare sicurezza a se stessa e al figliolo: ma Valerio soffre per la lontananza dal padre e dagli amici romani; tenta di alleviare la propria difficoltà accompagnandosi ad una prostituta dell'est, che potrebbe esser sorella maggiore, e a un ristoratore francese ex-calciatore, con una pena segreta...

"La vita possibile è un film sulla speranza, sulla forza delle donne, sulla capacità di nascere e rinascere ancora". E' al suo quinto lungometraggio per il grande schermo, Ivano De Matteo: la sua filmografia di regista - è, infatti, anche (e prima) attore - comincia ad essere cospicua, e a richiedere un discorso un poco più articolato. Sin dalla pellicola d'esordio, il cinema del nostro si è caratterizzato per una palese sproporzione fra ambizioni e risultati: in "Ultimo stadio" (2002), le pretese da commedia satirica finivano annegate in caratterizzazioni grottesche, dialoghi imbarazzanti, vicende improbabili. Mutato registro, ne  "La bella gente" (2008) il bersaglio era certa borghesia progressista e ipocrita, incapace di trasformare le proprie idee in azioni: l'andamento della narrazione, però, risultava piattamente televisivo e la storia, meramente dimostrativa. Se "Gli equilibristi" (2012) prendeva di petto l'argomento delle nuove povertà, raccontando di un padre separato lentamente scivolante nella miseria, i toni eran quasi ricattatori, con in più un pietismo fastidioso. "I nostri ragazzi" (2014), pure grazie a un ottimo quartetto d'attori e ad un eccellente romanzo quale fonte d'ispirazione ("La cena" di Herman Koch), è - sino ad oggi - l'opera sua più riuscita: ciò indica che a De Matteo non difettano le capacità di metteur en scene, laddove invece latita la personalità autoriale che egli ambirebbe ad avere.

Quest'ultimo "La vita possibile" conferma, ci sembra, le nostre riflessioni. Alle prese con una famiglia devastata dalla violenza irrefrenabile d'un coniuge indegno, De Matteo sceglie di non scegliere: per tre quarti, il tono è quello del melodramma, con lo sgranarsi di un rosario di difficoltà e dispiaceri per i due fuggiaschi; nell'ultimo quarto, il riscatto ed una prospettiva ottimistica irrompono senza preparazione, quasi si trattasse di un auspicio piuttosto che l'armonico compiersi di una parabola. Il non aver voluto individuare un'opzione precisa sul tono da tenere, si riverbera sul disegno psicologico dei personaggi: su tutti quello di Valerio, la figura più complessa, che appare poco credibile e sbilanciata (un tredicenne con tanta libertà? e un tredicenne d'oggi, che non conosce la realtà del lavoro di una meretrice?). Anna pure, dapprincipio apprensiva per le sorti del ragazzino, pare poi dimenticarsene del tutto; sicché, alla fine, appare messa a fuoco soltanto Anna, sbalestrata ed umana in eguale misura. In definitiva, ancora una volta il cineasta romano non riesce ad essere all'altezza delle proprie pretese: le buone prove degli interpreti - migliore risulta la Golino, alle prese con un personaggio che le è evidentemente congeniale - non bastano a salvare il risultato, confuso e disorientante. Quello di De Matteo, al di là delle lodevoli intenzioni, rischia di essere un cinema senza pubblico e senza critica.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA VITA POSSIBILE. REGIA: IVANO DE MATTEO. INTERPRETI: MARGHERITA BUY, VALERIA GOLINO, ANDREA PITTORINO, CATERINA SHULHA, BRUNO TODESCHINI. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 107 MINUTI.

mercoledì 14 settembre 2016

Trafficanti

David Packouz sbarca il lunario come massaggiatore per uomini, ha una moglie e un figlio in arrivo. La sua idea - nella quale ha investito ogni risparmio - di vendere lenzuola di qualità agli istituti di riposo per anziani, si rivela sbagliata. E' in questo momento che dal passato spunta un suo ex-compagno di scuola, Efraim Diveroli, che lo convince a diventare suo socio. Sfruttando un'iniziativa poco nota del governo statunitense, iniziano una piccola attività relativa a contratti di fornitura per l'esercito. Poco alla volta, i frutti dei loro investimenti si fanno cospicui, tanto da farli vivere nell'agiatezza. Lo scoppio della prima guerra in Iraq fornisce ai due l'occasione d'un colossale aumento di livello: dipoi, ottenuto un contratto da 300 milioni di dollari per inviare armi ai soldati alleati in Afghanistan, si trovano in difficoltà perché l'impegno si rivela superiore alle loro possibilità. A questo punto entrano in scena personaggi misteriosi che si offrono di risolvere il problema, proponendo loro di rivendere ai committenti, come fosse nuova, una partita di vecchie armi dei paesi comunisti...

La storia pare incredibile, ma è vera. E' apparsa in un articolo del giornalista investigativo Guy Lawson per "Rolling Stone", ed è stata acquistata da Todd Phillips. Eh sì, perché il cineasta di successo di "Una notte da leoni" nutriva, dapprincipio, enormi ambizioni: uscito dalla prestigiosa New York University, aveva diretto degli interessanti documentari (due musicali: "Hated: GG Allin and the Murder Junkies" e "Bittersweet Model"; e uno giovanile, "Frat House", sulle confraternite universitarie). Di seguito, Ivan Reitman produceva le prime due sue commedie, "Road Trip" e "Old School", decidendone il percorso lavorativo successivo (per intenderci, la rivista "Empire" giungeva ad eleggerlo "uomo più divertente di Hollywood"). Ma, evidentemente, il nostro si era messo soltanto in stand-by, aspettando una occasione buona: e "Trafficanti" - prodotto assieme a Bradley Cooper, che ha pure una piccola parte nel film - lo era, dato che sicuramente gli ha dato modo di mostrare delle insospettate qualità.

L'approccio fa tornare in mente quello di un altro regista, Adam McKay, dal cognome inscindibilmente legato alle pellicole interpretate da Will Ferrell: bene, dirigendo "La grande scommessa" (argomento: la crisi finanziaria del 2007-2010) si guadagnava 5 nomination e l'Oscar per la sceneggiatura. Rispetto a quell'opera, "Trafficanti" è assai più godibile: non dimenticando i suoi trascorsi nella commedia, Todd Phillips imprime alla narrazione un ritmo indiavolato, mescolando sorrisi ad azione, satira sociale ad inchiesta. Sotto una veste leggera, "Trafficanti" è una trattazione pungente sugli orrori del capitalismo, sul mito del guadagno a ogni costo, sul giro vorticoso di soldi intorno ad ogni conflitto bellico (sono anti guerra ma pro danaro, dice esplicitamente uno dei protagonisti): e, adottando i moduli del cinema "commerciale", risulta ben più efficace di circostanziate denunce ed invettive stentoree viste sul grande schermo. Il merito d'una tale riuscita va pure ai due attori principali: Jonah Hill, già visto in "The Wolf of Wall Street", è una dinamo, capace di svariare su ogni registro; quanto a Miles Teller, che gioca in souplesse, ricorda il giovane Sean Penn ed è quasi altrettanto efficace.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

TRAFFICANTI. REGIA: TODD PHILLIPS. INTERPRETI: JONAH HILL, MILES TELLER, ANA DE ARMAS, BRADLEY COOPER. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 114'.

venerdì 19 agosto 2016

Alla ricerca di Dory

Dory, pesciolina chirurgo che soffre di gravi perdite di memoria a breve termine, conduce un'esistenza tranquilla assieme a Marlin e a Nemo, perduto e ritrovato l'anno precedente. Dopo avere ascoltato una lezione di Mr.Ray sulla migrazione, riappare d'improvviso nella sua mente il ricordo di un'infanzia e di una famiglia d'origine, abitante in California dalle parti di Morro Bay. Decisa a riappropriarsi del proprio passato, Dory infila la corrente coi suoi due fedeli amici e si mette in caccia dei genitori. Inseparabili e solidali, i tre attraversano l'oceano e giungono, infine, alla meta. Ma, all'arrivo, le cose assumono una piega imprevista: Dory finisce in quarantena all'istituto oceanografico dove incontra Hank, un octopus mimetico che detesta i bimbi e cerca un passaggio per Cleveland; Marlin e Nemo precipitano, invece, in un secchiello trasportato da Becky, una gavia spennata che li adotta e 'cova' come fossero uccelli. Dopo non poche peripezie, i nostri raggiungeranno il loro obiettivo in compagnia d'uno squalo balena miope e di un beluga convinto del malfunzionamento del suo ecolocalizzatore.


Dopo i 936 milioni incassati nel 2003 da "Alla ricerca di Nemo", ecco finalmente il sequel, uno tra i più attesi. Tutti gli spettatori si ricordano, sicuramente, di Dory, la pesciolina amnesica che, da "comedy sidekick" nel film precedente, qui si guadagna la parte della protagonista, in virtù della propria irresistibile simpatia. A diriger il tutto riappare Andrew Stanton, già regista dell'originale, reduce da uno dei più costosi flop degli ultimi anni: quello di "John Carter", prima sua pellicola non d'animazione, con costi totali di 350 milioni dollari a fronte di un incasso finale di soli 284. Di nuovo alla Pixar, ecco ch'egli si riappropria del campo sul quale si muove a meraviglia ("non vorrei, però, si ritenesse si sia trattata di una decisione di ripiego, tipo tornare a casa a leccarmi le ferite. Un giorno, riguardando 'Alla ricerca di Nemo', mi resi conto che alla fine del film il personaggio di Dory rimaneva irrisolto e, più come scrittore che come regista, mi suonò insopportabile").



Fonte meravigliosa di gag nel capolavoro del 2003, l'amnesia di Dory diviene il centro di una fiaba sulla disabilità e sui modi di convivere coi limiti che impone. Questo seguito riprende lo spirito picaresco che era già nell'originale, introducendo dei personaggi nuovi e irresistibili - un beluga afflitto da una specie di blocco psicosomatico, uno squalo balena affetto da miopia e un uccello di mare un poco tonto - che mettono le proprie risorse, all'insegna dello spirito di reciprocità, a disposizione della piccola comunità di "pesci diversi". Nel viaggio che la divide dall'agognato ricongiungimento, Dory affronta il rischio non solo di non trovare quanto cerca ma, addirittura, di perdersi. L'andirivieni di ricordi nella sua mente, la sua memoria instabile, intermittente innescan situazioni a volte amene, altre quasi tragiche: tra le cose che la piccola protagonista, alla fine, acquisterà, c'è pure la cognizione del dolore.



Stiamo parlando, si sarà capito, d'una pellicola d'animazione assai prossima al capolavoro: non lontana da "Inside Out" nella sua dimensione di tragitto che si svolge, simbolicamente, nella mente di Dory. Qui c'è meno audacia, forse, manca l'azzardo dell'astrazione proprio del film che l'ha preceduto: ma in ogni caso, il titolo va ad inscriversi tra quelli che potremmo definire i Pixar "concettuali". Lo spettatore viene chiamato a condividere un'esperienza unica, ad attraversare quello che assomiglia non poco al parco d'attrazione emozionale di Riley nel già citato "Inside Out". Nell'andirivieni di flashback che illustrano i ricordi di Dory in versione infantile, si può misurare la differenza tra l'indifesa creatura di un tempo e la  lottatrice che individua le modalità per aggirare il proprio handicap e nuotare negli imprevisti della vita. Il valore più importante risulta la solidarietà: che, unito alla consapevolezza dei propri mezzi e al cuore come radar per scansare gli ostacoli, consente di esser felici. Ciascuno a modo proprio, com'è giusto - e bello - che sia.                                                                                                                                      Francesco Troiano



ALLA RICERCA DI DORY. REGIA: ANDREW STANTON, ANGUS MaCLANE. DISTRIBUZIONE: DISNEY. DURATA: 105 MINUTI.

giovedì 18 agosto 2016

L'effetto acquatico

Un gruista quarantenne di Montreuil, Samir, s'innamora perdutamente di Agathe, ruvida istruttrice della piscina municipale del quartiere. Desiderando un pretesto per avvicinarla, egli decide di prender lezioni di nuoto da lei, malgrado nulla abbia da imparare. Le cose sembrano procedere nella giusta direzione, ma la sua bugia non va oltre la terza lezione, dato che un imprevisto lo costringe a svelare di esser un provetto nuotatore. Furente per l'inganno, Nathalie - scelta per rappresentare la Seine-Saint-Denis al 10° Congresso Internazionale dei maestri di nuoto - prende un aereo per l'Islanda.  Samir, però, non si dà per vinto e le va dietro, spacciandosi per un improbabile conferenziere israeliano: improvvisando un discorso, addirittura, si conquista la stima e la simpatia degli altri delegati. Nathalie continua ad essere irritata con lui, si mostra contraria, ma - complice un'amica comune - non può che esservi un lieto fine.


Storia d'amore peculiare e spiazzante, "L'effetto acquatico" è un feel-good movie in bilico tra due patrie, l'Islanda natìa di Sólveig Anspach e la banlieue parigina ove l'autrice viveva sino ad un anno fa, prima che un tumore se la portasse via. Film postumo, quindi, e in certo modo testamentario: celebrando la gioia di una novella esistenza, la Anspach ci porta a passeggio fra le sue opere, e ripercorre i luoghi della sua vita. Come in "Back Soon" o "Queen of Montreuil", tutto è chiaramente questione di dosaggio, per adoprare le sue parole: se dentro l'acqua le forme si scompongono, i suoni si smorzano, le luci si offuscano, c'è il caso che le emozioni sgorghino libere, prive di barriere e di lacciuoli. Collocata tra una piscina comunale a Montreuil ed una sorgente d'acqua calda in Islanda, la commedia romantica fa  incrociare un gruista lunare e una sirena irascibile, la più intrattabile fra tutte. La grinta di Agathe, che allontana senza indulgenza chiunque voglia approcciarla, va a scontrarsi con la resilienza di Samir. Imperturbabile, fallito il primo tentativo di arrivare alla meta, egli si sottopone ad una odissea - che lo porta addirittura a perdere la memoria, in seguito ad una scossa elettrica per preparare il caffè... - stressante e perigliosa: ma non si scompone, avendo sempre ben presente quale sia il suo obiettivo.


Irresistibile mix di delicatezza ed umorismo, "L'effetto acquatico" immerge nel liquido e nel cloro le peripezie dei due protagonisti, dando una sorta di corrispettivo fisico alla fluidità delle loro emozioni: quelle di Samir lo sono già dal principio, laddove Samanthe deve staccarsi dal regno minerale nel quale vuole immaginarsi per sempre confinata, al fine d'evitare i rischi che ogni relazione amorosa inevitabilmente comporta. Il supplemento d'anima che le difettava sale in superficie lento, come i vapori dall'acqua calda: è, pure, un percorso di consapevolezza, che l'ambiente favorisce e la perseveranza di Samir propizia. Samir Guesmi e Florence Loiret Caille si modellano sulle intenzioni della regista con una naturalezza che incanta: giusto come quest'opera singolare, inclassificabile, inno alla smarrimento amoroso quale lievito della felicità.
                                                                                                                                    Francesco Troiano


L'EFFETTO ACQUATICO. REGIA: SOLVEIG ANSPACH. INTERRPRETI: SAMIR GUESMI, FLORENCE LOIRET CAILLE, PHILIPPE REBBOT, MICHAEL BENSOUSSAN. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 85 MINUTI.




mercoledì 17 agosto 2016

Un padre, una figlia

Romeo Aldea è un medico cinquantenne, che svolge la propria attività nell'ospedale di una cittadina della Romania. Uomo di saldi principi morali, adora la figlia Eliza, per la quale farebbe qualsiasi cosa. E' solo per non ferirla che lui e la moglie tengono in vita, senza quasi parlarsi, un matrimonio oramai svuotato di senso. Arrivata alla soglia del diploma, per Eliza si apre la prospettiva di andare a vivere a continuare gli studi in Inghilterra: una borsa di studio sarà il salvacondotto per un futuro migliore. Passare gli esami - e ottenere la media necessaria - non dovrebbe costituire problema per un'alunna modello come lei: ma, giusto alla vigilia della prova scritta, la ragazza viene aggredita brutalmente,  restando scossa nel profondo. Al fine di non farle perdere un'occasione irripetibile, Romeo mette in discussione tutto ciò in cui ha sempre creduto, e ha insegnato ad Eliza: chiede una raccomandazione, offrendo a sua volta un favore professionale...

Il protagonista di "Un padre, una figlia" appartiene ad una generazione che ha veduto il sogno di un cambiamento dissolversi sotto i propri occhi: egli, in prima persona, ha sperimentato a suo tempo la delusione di tornare nel proprio paese per cercar di cambiare le cose, di sostituire al solito andazzo una prospettiva di rinnovamento, su tutto morale. Non è stato possibile, ed altro non gli è restato da fare che conservare la propria integrità, mentre intorno a lui la realtà seguiva altri percorsi. Ma - pare dirci Cristian Mungiu, premiato a Cannes con la Palma per la miglior regia - l'innocenza completa è impossibile: non a caso, l'aggressione avviene proprio la mattina in cui Romeo non ha accompagnato la figlia davanti alla scuola bensì nelle vicinanze, per la fretta di raggiungere la propria amante.


Non tutto può essere controllato, insomma: l'esistenza segue le proprie strade, e produce per chiunque possibilità di sbagliare. Allora, sino a che punto è giusto sceglier per i figli, quando neppure si riesce a controllare in pieno la propria vita? E la dirittura morale può essere un elastico, che s'allunga quando ci appare necessario per una buona causa? Come in "Oltre le colline", il cineasta rumeno squaderna il problema delle conseguenze di una scelta: stavolta, però, esse toccano nell'immediato gli interessati, il confronto tra l'idea che si ha di se stessi e ciò che realmente si è non permette sconti, non lascia alcun margine di dubbio. Il dottor Aldea si muove in un certo modo, perché ritiene di agire per il bene di Eliza, ciò che dovrebbe giustificare l'infrazione al codice che egli stesso si è dato: in realtà, alla fine, egli si troverà con amarezza a comprendere che il compromesso non solo non è possibile, ma - per ironia della sorte - a volte, addirittura, non sarebbe necessario. Ad Eliza si apre un varco per essere, infine, padrona del proprio destino; ed è a lei, alla sua freschezza, a quella di tanti altri giovani connazionali, che Mungiu affida le speranze di mutamenti per il destino collettivo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

UN PADRE, UNA FIGLIA. REGIA: CRISTIAN MUNGIU. INTERPRETI: ADRIAN TITIENI, MARIA-VICTORIA DRAGUS, RARES ANDRICI. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 128 MINUTI.



martedì 16 agosto 2016

Escobar

Il surfista canadese Nick raggiunge il fratello in Colombia: alla ricerca dell'onda perfetta, nel sogno di vivere sulla spiaggia, in una sorta di prospettiva edenica. Lì incontra Maria, della quale s'innamora a prima vista. Due fratelli del posto, tuttavia, creano loro dei problemi, per nulla gradendo l'idea che dei canadesi s'installino nel loro bosco. E' in seguito a ciò che Nick fa la conoscenza dello zio di Maria, e lo  mette a conoscenza dell'antipatica situazione nella quale si trova: carismatico e venerato dal suo popolo, Pablo Escobar risolve i problemi del suo paese come quelli della propria famiglia. Il giorno dopo, gli aggressivi fratelli piantagrane vengono ritrovati appesi a testa in giù, carbonizzati. Sì, perché Escobar, sotto l'aria di benefattore e uomo del popolo, nasconde una natura ferocemente criminale: è così che, per Nick, il paradisiaco scenario si trasforma pian piano in quello d'uno spaventevole incubo...

"Ho costruito una carriera sulla droga. Sono stato un tossicodipendente, uno spacciatore, un agente che dava la caccia agli spacciatori. Secondo me, dipende dal taglio dei miei occhi". Scherza, Benicio Del Toro sul fatto che, appena in un film c'è di mezzo il narcotraffico, Hollywood lo chiami. Così, non deve essersi meravigliato quando Andrea Di Stefano - attore italiano dalla carriera internazionale,  al suo debutto dietro la macchina da presa - gli ha proposto la parte di Pablo Escobar, potentissimo trafficante colombiano fondatore del cartello di Medellin, che nel 1982 controllava il 90% del mercato della droga e negli anni '90 - morì nel '93 - vantava un patrimonio di 30 miliardi di dollari. Pur essendo uno spietato gangster, Escobar - egolatra e paranoide al massimo grado - desiderava essere amato dalle folle, che sapeva manipolare e illudere come pochi con promesse di benessere. Una personalità complessa, che il neoregista nostrano non ha voluto mettere al centro di un classico biopic. 

Ispirata alla storia vera di un ragazzo bolognese finito alla corte dell'intrigante personaggio, la vicenda è narrata con intuizioni notevoli e finezza di annotazioni psicologiche. Non ci riferiamo tanto al rapporto con Dio del protagonista (nel cinema noir, i grandi malavitosi che ordiscono massacri e bacian la croce sono molti); piuttosto, a tratti gentili del suo animo, dal cantar struggenti canzoni d'amore alla consorte fino al leggere le fiabe ai figlioli. Una figura tanto articolata non avrebbe potuto viver sullo schermo senza la impressionante mediazione di Benicio Del Toro. Calandosi, questa volta, nei panni di un individuo diametralmente opposto al Che Guevara già reso con maestria, l'attore colpisce per le sue capacità d'immedesimazione, soprattutto laddove sembra suggerire che Escobar sia ingannatore finanche di se stesso. Eroe negativo nel senso shakespeariano del termine (di quelli che tanto interessavano ad Orson Welles), il nostro è comunque ritratto senza indugiare all'eventuale fascino del male. Qui siamo lontani, per intenderci, dal barocco e tonitruante "Scarface" di De Palma; ed il colloquio con un prete, prima di avviarsi in prigione, squaderna solo lo stato mentale alterato di un uomo sprezzante di ogni regola. 
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ESCOBAR. REGIA: ANDREA DI STEFANO. INTERPRETI: BENICIO DEL TORO, JOSH HUTCHERSON. DISTRIBUZIONE: GOOD FILMS. DURATA: 120 MINUTI.