martedì 29 dicembre 2015

Little sister

Nella cittadina di Kamakura vivono le tre sorelle Sachi, Yoshino e Chika: il padre, tre lustri prima, le ha lasciate per cominciare una nuova convivenza. In occasione del suo funerale, al quale le ragazze si recano esclusivamente per dovere, conoscono la sorellastra adolescente Suzu e decidono d'invitarla ad andare a vivere con loro. La giovinetta accetta volentieri e, qualche giorno dopo, si reca in quella che sarà la sua nuova casa. Per tutte e quattro sarà il principio d'una convivenza gioiosa e "nutriente", dalla quale ciascuna sorella apprenderà molto su di sé grazie alla presenza delle altre.

Tratto dalla graphic novel "Umimachi's Diary" (di cui ha conservato la struttura di fondo, però - con il consenso dell'autore Yoshida Akimi - godendo di variazioni rilevanti), "Little sister" è uno dei film più belli di Hirokazu Kore-eda: membro di una nuova generazione di registi nipponici (con Naomi Kawase, Kiyoshi Kurosawa ed altri), mostra qui di non aver dimenticato la lezione dei maestri del passato, in particolare quella di Ozu. Focalizzando il racconto non solo sulla giovanissima Suzu ma anche sulla più adulta delle sorelle, Sachi, egli ha messo a confronto le origini campestri ed antiche della prima con la maggior disinvoltura di chi è cresciuto in città, senza tuttavia creare - come avveniva, sovente, in Ozu - una contrapposizione tra tradizione e modernità. Pur se Sachi ha una relazione con un uomo sposato, infatti, diviene con successo una sorta di madre sostitutiva per Suzu, come lo era già per le altre.

Contraddistinto da un costante sottotono, fatto di piccoli gesti, di sguardi e di silenzi apparentemente poco significativi, ma resi tali dalla macchina da presa, il film vive della grazia con cui le bravissime attrici rendono i rispettivi personaggi: sotto l'esibito sorriso di Suzu, ad esempio, stanno acquattati risentimenti e dolori che solo un'occasionale ubriacatura rende manifesti; laddove l'apparente rigidità di Sachi trova la propria scaturigine sì nell'abbandono paterno, ma pure nel conflitto irrisolto con la figura materna, verso la quale prova un senso di rifiuto. Il suo scopo, nel proprio lavoro d'infermiera, è di non farsi coinvolgere in eccesso dalle morti dei pazienti, pur senza accettarle come routine professionale; nel privato, diversamente, ella tenta di proteggere le sorelle - e se medesima - dai sentimenti, percepiti alla stregua d'un pericolo in quanto possibile cagione di  instabilità. All'insegna della bellezza dei ciliegi in fiore, il cineasta tesse con maestria il filo di una tenerezza mai celata eppur pudica (si veda la scena del kimono d'estate dato in dono alla sorella acquisita). Tra cinepanettoni e kolossal hollywoodiani, il botteghino non premierà questa deliziosa operina passata in concorso a Cannes: ma è bello sperare che anch'essa trovi un suo pubblico, che i gusti pedestri delle masse consentano ancora l'esistenza di isole di spettatori sensibili e curiosi.

LITTLE SISTER. REGIA: HIROKAZU KORE-EDA. INTERPRETI: HARUHA AYASE, MASAMI NAGASAWA, KAHO SUZU HIROSE, RYO KASE. DISTRIBUZIONE. BIM. DURATA:128 MIN.

mercoledì 9 dicembre 2015

Il ponte delle spie

Brooklyn, 1957. Rudolf Abel, pittore di ritratti e di paesaggi, viene arrestato dall'Fbi, che lo accusa di essere una spia al servizio del KGB. I rituali della democrazia impongono che egli venga processato; della sua difesa, viene incaricato l'avvocato James B.Donovan, specializzato in assicurazioni. Dovrà trattarsi di un processo breve, ma il legale prende assai sul serio il proprio incarico; e, contro tutte le previsioni, riesce a evitare la sedia elettrica al proprio assistito, condannato a trenta anni di prigione. Circondato dall'incomprensione, se non dal disprezzo, dell'opinione pubblica intera e finanche di sua moglie, Donovan mostra di esser stato lungimirante allorquando un aereo U-2 americano è abbattuto su territorio sovietico e il pilota Francis Gary Powers viene incarcerato in Russia. Si profila uno scambio tra i due prigionieri, che proprio il nostro vien chiamato a gestire: dovrà, però, agire da privato cittadino, in quanto il governo statunitense non vuole ufficialmente essere implicato. Tutto sembra andare per il verso giusto, ma le cose si complicano quando l'atipico mediatore apprende che c'è pure uno studente americano, Frederic Pryor, recluso nella zona di Berlino appartenente alla Germania Est. Contro il parere della Cia, che teme venga compromesso il rilascio di Powers, Donovan si batte strenuamente perché anche il giovane compatriota venga rimesso in libertà...

Tre anni dopo "Lincoln", Spielberg torna a firmare una pellicola con questo "Il ponte delle spie", basato in larga misura su dei fatti realmente accaduti: lo scambio di prigionieri di cui sopra (uno tra i più famosi nella politica internazionale del ventesimo secolo), s'è svolto effettivamente presso il ponte di Glienicke, a Potsdam. Appassionato di Storia (basti pensare a "War Horse", o al già citato "Lincoln"), il cineasta dell'Ohio è attento a fornire una ricostruzione attendibile dei fatti, a ricreare l'atmosfera del tempo sin nei più piccoli dettagli (l'isteria da guerra fredda, per dirne una, è resa quasi palpabile). Ma, come di consueto, gli interessa soprattutto il disegno delle psicologie: in particolare, Donovan e Abel vengono presentati come figure speculari ("uomini tutti d'un pezzo", direbbe quest'ultimo), fedeli a se stessi ancor prima che al proprio paese. Si crea stima, rispetto, tra due persone che pure stanno su sponde avverse: e la bellissima sequenza finale, ricca di suspense ed emozioni, lo esplicita con un'evidenza 
e, assieme, un pudore, esemplari.

Se è vero che da "The Terminal" (2004) Spielberg non affronta più la contemporaneità, risulta pure indiscutibile che, in questa sua ultima fatica, i riferimenti all'attualità sono d'evidenza palmare: non ci riferiamo soltanto - o tanto - alle tensioni fra Usa e Russia sulla politica estera, bensì al dibattito tra i sostenitori della sicurezza e i difensori delle libertà civili. Per non parlar del tema, appena accennato, delle torture quale mezzo per ottenere confessioni, che allude con evidenza alla recrudescenza dei fenomeni terroristici. Ciò detto, "Il ponte delle spie" si rifà alla migliore tradizione democratica della cinematografia a stelle e strisce: si pensa al cinema di Stanley Kramer, per fare un nome, a quegli onesti artigiani che avevano, però, idee ben chiare sui principi costituzionali, difesi da onesti liberal. Solido, sobrio, serio, il film non aggiunge magari molto alla filmografia dell'autore: avercene, però, di pellicole così, in un panorama sempre più affollato di sequel, remake, reboot, destinati a platee di teen-ager...
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL PONTE DELLE SPIE. REGIA: STEVEN SPIELBERG. INTERPRETI: TOM HANKS, MARK RYLANCE, AMY RYAN, ALAN ALDA. DISTRIBUZIONE: FOX. DURATA: 141 MINUTI.

mercoledì 25 novembre 2015

The Visit

La quindicenne Becca gira un video nel quale sua madre racconta come a 19 anni si sia innamorata, contro il volere dei genitori, d'un insegnante. Qualcosa di grave ha causato la rottura dei rapporti coi suoi che soltanto adesso, dopo tre lustri, l'hanno rintracciata, esprimendo il desiderio di vedere i due nipoti, Becca e il tredicenne Tyler. I ragazzi sono d'accordo e quindi la mamma, da tempo lasciata dal consorte e con un nuovo compagno, ne approfitterà per godere con lui d'una breve crociera. Prima di partire, spiega a Rebecca che si stanno recando da persone gentili ed apprezzate: fanno, finanche, volontariato in un ospedale. La ragazzina inizia così a girare un documentario amatoriale sulla visita ai nonni, che non ha mai visto. Vorrebbe sapere perché la mamma non si è mai riconciliata con loro, ma lei tace: saranno questi ultimi a dirlo, se credono. Giunti col treno a Masonville, Pennsylvania, all'arrivo vengono accolti dai nonni presso i quali si fermeranno per una settimana. I vecchi si rivelano gentili e li conducono nella loro grande casa, tra i boschi e la neve: per i ragazzi, si tratta di un mondo ignoto e fascinoso, tutto da scoprire. Sanno che possono fare quanto vogliono, ma c'è una regola che non può esser infranta: non possono uscire dalla loro stanza dopo le 21.30, per alcun motivo. La loro curiosità, tuttavia, prende ben presto il sopravvento e ai due adolescenti non resta che registrare come, nelle ore della notte, qualcosa di strano ed inquietante avviene...

Il regista americano di origine indiana M.Night Shyamalan ha conosciuto con "Il sesto senso" (1999), suo terzo lungometraggio, un grande successo, mettendo a punto una tipologia di cinema dell'orrore basata sull'angoscia e lo spaesamento in luogo dello splatter dilagante; contrassegnato, inoltre, da un rovesciamento di prospettive nel corso della narrazione ch'è un po' divenuto il suo marchio di fabbrica. Abbandonato, con le sue opere seguenti, dal favore del pubblico, egli ha finito per divenire ingiusto bersaglio pure degli strali della critica: se è vero che la fatiche sue successive non sempre son risultate soddisfacenti, perse tra temi altisonanti e toni misticheggianti, è altrettanto innegabile che, in qualche caso, egli abbia centrato in pieno il bersaglio. Ad esempio in "The Village" (2004), basato anch'esso sul contrasto tra vecchi e ragazzi ed abitato da "creature innominabili", che sorprende per la naturalezza con cui un colpo di scena davvero inaspettato trasmuta la storia da fiaba gotica a melanconica utopia sulle paure contemporanee. 

Sia come sia, il regista appare qui tornato alla sua forma migliore. Prodotto dalla Blumhouse, la casa di Jason Bloom che ha fatto fortuna con il filone figliato da "Paranormal Activity" e basato sulla tecnica del "found footage" (macchina da presa tremolante, sovente adoperata in soggettiva, e scene girate come se si trattasse d'un film dentro il film), "The Visit" supera con eleganza il problema, ponendo che Becca disponga di un'attrezzatura semi-professionale e, quindi, capace di produrre immagini di buona qualità. A parte codeste considerazioni tecniche, ciò che del film convince è il suo carattere di studio sui tempi della paura: lavorando con mezzi linguistici propri della settima arte (azioni fuori campo, sfocature della immagine in profondità, colori, colonna sonora), Shyamalan resuscita spaventi ancestrali e, soprattutto, è convincente nel collegarli alla situazione psicologica dei due piccoli protagonisti, rampolli disastrati di una famiglia altamente disfunzionale. Narrando una favola che sarebbe piaciuta al Propp di "Morfologia della fiaba" e al Bettelheim de "Il mondo incantato", Shyamalan svaria da suggestioni che vanno dallo "Unheimlich" di freudiana memoria al Grant Wood di "American Gothic". Non dimenticando, per di più, di alleggerire il tutto con qualche tocco di humour, dalla musica usata per antifrasi alle parentesi rap proposte dal simpatico Tyler. A proposito di attori, Olivia DeJonge ed Ed Oxenbould possiedono senza dubbio la sicurezza di attori consumati, malgrado la loro giovanissima età; e son diretti con maestria da un cineasta a suo agio con i piccoli, come già aveva dimostrato ne "Il sesto senso".
                                                                                                                                     Francesco Troiano

THE VISIT. REGIA: M.NIGHT SHYAMALAN. INTERPRETI: OLIVIA DEJONGE, ED OXENBOULD, DEANNA DUNAGAN, KATHRYN HAHN. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 94 MINUTI.

lunedì 23 novembre 2015

Regression

1990. In una piccola cittadina del Minnesota, il detective Bruce Kenner sta indagando sul caso di una giovane di nome Angela, che accusa il padre, John Gray, d'aver abusato sessualmente di lei. L'uomo ammette la propria colpevolezza, ma inaspettatamente sostiene di non avere memoria del fatto. Con l'aiuto del celebre psicologo dr. Raines, inizia allora una terapia regressiva durante la quale egli rivive il suo passato e coinvolge un poliziotto quale proprio partner nel crimine. Poco dopo, riaffiorano nel figlio e in altre persone i ricordi rimossi di orribili abusi. Contemporaneamente, i notiziari locali cominciano a dar conto di una setta satanica che, da anni, starebbe eseguendo dei riti con orge, assalti, uccisioni di animali e bambini. L'allarme nelle forze dell'ordine diventa massimo quando storie analoghe giungono dall'intero paese, quasi a definire i contorni di una cospirazione nazionale e, forse, soprannaturale...

"Ci furono una serie di fenomeni reali in cui le indagini della polizia, le consulenze con gli psicologi e la superstizione conversero nel tentativo di mettere insieme un puzzle strano e terrificante, rinominato poi 'Satanic Ritual Abuse'. L'onda di accuse e confessioni fu travolgente, distrusse intere famiglie, generò caos e panico nella società e in alcuni casi ci furono conseguenze molto serie a livello legale. E' stato molto interessante ripercorrere quei casi avvenuti negli anni '80 e '90 con la prospettiva del 21° secolo." Nativo di Santiago del Cile, classe 1972, Alejandro Amenabar torna con "Regression" a quel cinema del mistero cui apparteneva il suo brillante esordio nel lungometraggio, "Tesis" (1996, vincitore del premio Goya) e al quale è, successivamente, ritornato, sia con il thriller psicologico "Apri gli occhi" (1997), sia con il fortunato "The Others" (2001), horror soprannaturale arricchito da una bella prova 
di Nicole Kidman.

Ispirandosi nelle atmosfere alle più riuscite pellicole del genere degli anni '70, da "Rosemary's Baby" a "L'esorcista", Amenabar riprende di quel decennio pure il modo di raccontare, il tono lento e moderato che oggi - in epoca di MTV - può parere ai più giovani anacronistico e soporifero. In realtà, gli amanti del buon cinema apprezzeranno il modo in cui il cineasta cileno si prende il giusto tempo per definire le psicologie dei protagonisti: esemplare, in questo senso, il ritratto del detective, reduce da un divorzio e propenso a riversare la propria personalità maniacale nella frenesia lavorativa, lasciando il dubbio se si tratti di un ossessionato o di un ossesso. Lo scioglimento, che potrà forse lasciare perplessi gli amanti del brivido, è in realtà coerente con la narrazione e pone interrogativi nient'affatto secondari su ciò che serve e ciò che non serve all'individuo, oggi, per attraversare un mondo reso indecifrabile dai rumori di fondo, infettato dalla credulità. Ethan Hawke ed Emma Watson risultano credibili e sottilmente ambigui.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

REGRESSION. REGIA: ALEJANDRO AMENABAR. INTERPRETI: ETHAN HAWKE, EMMA WATSON, DAVID THEWLIS. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 106 MINUTI.

martedì 17 novembre 2015

Mr.Holmes

Nel 1947, Sherlock Holmes è ormai un anziano detective che, abbandonata la professione, s'è rifugiato  nella campagna del Sussex, dove vive con una governante e col figlioletto di lei, allevando api. Afflitto da problemi di memoria, che aumentano le difficoltà di un'esistenza senile, è perseguitato da un ricordo: quello della sua ultima indagine. Si tratta d'un caso rimasto irrisolto, per il quale aveva deciso di ritirarsi a vita privata; c'è qualcosa che deve ancora scoprire, un dettaglio nella memoria che non riesce a metter a fuoco. Rammenta un non ben chiaro viaggio in Giappone ed una misteriosa "donna del guanto", un evento che avrebbe potuto evitare, infine: mentre frammenti del passato continuano ad affiorare ed egli è costretto ad affrontare le proprie scelte di fondo (in primis, l'arido crogiolarsi nella solitudine), un disastro colpisce le api della sua coltivazione...

Il più noto detective londinese, creato dalla fantasia di Arthur Conan Doyle, ha fatto il suo esordio nel romanzo "Uno studio in rosso" (1887), al quale ne son seguiti altri tre, oltre a 56 racconti, gratificati da un successo ininterrotto. Infinite volte la sua figura, affiancata da quella del suo inseparabile sodale, il dottor Watson, è stata portata sullo schermo: si comincia con un corto del 1902 e s'arriva ai giorni nostri con la serie tv "Elementary". Nel tempo, John Barrymore, Basil Rathbone, Christopher Lee, Robert Stephens, Christopher Plummer, Roger Moore, Robert Downey jr. ne hanno indossato i panni, in tante pellicole mai rivelatesi capi d'opera: ad eccezione di quel "Vita privata di Sherlock Holmes" (1970), in cui Billy Wilder non cela gli aspetti più oscuri - la propensione alla malinconia, se non alla depressione, e l'uso della cocaina - del personaggio, ponendo l'eroe infallibile alle prese col suo primo insuccesso.

In questo "Mr.Holmes", la tendenza demistificatoria trova ampio spazio: come egli stesso ci spiega, è stato Watson ad attribuirgli il berretto da cacciatore - mai indossato - e la pipa, alla quale preferisce il sigaro. Ed è magistrale la sequenza in cui il vecchio investigatore si reca al cinema per assistere ad un film con il suo alter ego di celluloide, provando imbarazzo per le pose ridicole che quest'ultimo assume. Godibile pure come mera vicenda di detection, "Mr.Holmes" risulta tuttavia più intrigante laddove, fra le pieghe dell'enigma, lo spettatore riesca a rintracciare una riflessione sul rapporto tra il vero, il falso e la rappresentazione. Nello scioglimento, ogni domanda troverà risposta e le tessere del puzzle andranno al loro posto: ma, a sancire che la soluzione non è il parametro adottato per conferire significato al plot, c'è una assolutamente imprevista battuta del nostro, "non tutto si può spiegare". Il regista Bill Condon ha scelto per interpretare il personaggio Ian McKellen, che già aveva adoperato per James Whale in "Demoni e dei" (una parte per la quale venne candidato ad un Oscar che avrebbe assolutamente meritato). Il magnifico attore inglese è all'altezza della sua fama e trova, nell'undicenne Milo Parker, un partner adeguato alla bisogna.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

MR.HOLMES. REGIA: BILL CONDON. INTERPRETI: IAN McKELLEN, LAURA LINNEY, MILO PARKER, HATTIE MORAHAN. DISTRIBUZIONE: VIDEA. DURATA: 104 MINUTI.


martedì 10 novembre 2015

Gli ultimi saranno ultimi

Luciana vive ad Anguillara, lavora in fabbrica ed è sposata a Stefano, simpatico cialtrone disoccupato da sempre e in caccia perenne d'idee per guadagnare senza fatica. Nella medesima località (il litorale romano, dove la cosa più avventurosa che ti possa capitare è di pranzar al ristorante "Cacio e pesce"), giunge un poliziotto veneto caduto in disgrazia per non avere salvato il partner in servizio. Allorquando Luciana, che da tempo desidera un figlio inutilmente, vede avverarsi il proprio sogno, il datore di lavoro non le rinnova quel contratto "a tempo determinato", che è l'unica fonte di reddito per la sua famiglia. In un paese nel quale la voce di Radio Maria esce finanche dai water, per entrambi è l'inizio d'un calvario: Luciana sprofonda in difficoltà economiche via via più stringenti, mentre l'agente è messo alla berlina, ancor più quando fa amicizia - senza accorgersene - con un transessuale. Le tensioni salgono ed uno sbocco tragico matura, quasi inevitabilmente...

Massimiliano Bruno ha esordito nella regia cinematografica con "Nessuno mi può giudicare" (2011), commedia sentimentale di modesto spessore ma grande successo, che lo ha convinto a proseguire sulla medesima strada. Il passo successivo, "Viva l'Italia" (2012), pur avendo intenti vetrioleggianti e azzardando osservazioni di costume, risultava peggiore quanto a volgarità e sciatteria di scrittura. "Confusi e felici" (2014) cercava di aggiustare il tiro, suscitando il sorriso con metodi più eleganti, ma senza migliorare sostanzialmente gli esiti. Va detto, comunque, che il favore del pubblico non è mai mancato, sicché il nostro ha, stavolta, deciso di aumentare le ambizioni: adattare pel grande schermo un suo lavoro teatrale costruito in forma di monologo, affidato ad una Paola Cortellesi capace di dare vita a diversi personaggi con maestria.

Il primo problema postosi è quale formula narrativa scegliere per il passaggio in celluloide. La strada più semplice era quella della commedia corale, e così è stato: il personaggio del poliziotto in disgrazia, ad esempio, è stato inventato di sana pianta ed affidato ad un Fabrizio Bentivoglio valido come d'uso, tuttavia impossibilitato a fare miracoli con un carattere mal concepito e poco attendibile. Lo stuolo di figurette che si muovono intorno a volte soddisfano, altre no: è deliziosa, ad esempio, Maria De Biase nei panni di una poliziotta sovrappeso (e la cena di Capodanno con Bentivoglio è un piccolo pezzo di bravura di entrambi, con le emozioni che, finalmente, arrivano). A funzionar davvero bene, sono i due protagonisti: Alessandro Gassmann, approdato ad una piena maturità, disegna con leggerezza il suo Stefano, coniugando tenerezza e infingardaggine con sottile perspicacia; quanto alla Cortellesi, reduce dal lungo rodaggio teatrale, fornisce la miglior prova della sua carriera, rendendo a perfezione l'infinita complessità di una donna semplice. Nel drammatico scioglimento, è addirittura strepitosa: è un peccato che l'accenno di lieto fine, in coda, comprometta il delicato equilibrio del tutto. In ogni caso il miglior film di Bruno, che si è preso finalmente qualche rischio, e ha quasi vinto la scommessa.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

GLI ULTIMI SARANNO ULTIMI. REGIA: MASSIMILIANO BRUNO. INTERPRETI: PAOLA CORTELLESI, ALESSANDRO GASSMANN, FABRIZIO BENTIVOGLIO. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 103 MINUTI. 

 


mercoledì 4 novembre 2015

Alaska

Sulla terrazza d'un albergo parigino di lusso, s'incrociano i destini di Fausto, cameriere italiano sfrontato e impulsivo, e di Nadine, in tacchi a spillo, mutandine, giacca a vento: sta partecipando a una selezione per modelle, senza troppa convinzione. I due si guardano, si punzecchiano, si riconoscono. Il bel gesto di far visitare a Nadine la suite più prestigiosa dell'hotel (500 metri quadri e 15.000 euro a notte) viene pagato a caro prezzo da Fausto: denunciato dal cliente - che ha pure colpito per difendere la ragazza - è condannato a due anni di prigione. Nel corso della reclusione, non riceve visite da Nadine, che però si fa trovare alla scarcerazione. E' riuscita ad emergere nel mondo della moda ed ora vive a Milano: dopo una scaramuccia, la passione scoppia travolgente fra i due, che scelgono di vivere insieme. Ma Fausto non accetta di adattarsi ai lavori umili che vengono offerti ad un ex-pregiudicato: lui pensa in grande e, quando si presenta l'occasione d'aprire una discoteca (l'Alaska del titolo) in società con Sandro, curioso tipo di irregolare in cerca d'affetto, s'appropria dei risparmi della ragazza per far decollare l'impresa. E' l'inizio d'una lunga odissea che vedrà le loro vite scorrer in parallelo, mosse dall'ambizione e disponibili a giocarsi tutto, pur di emergere...

Al suo terzo lungometraggio, Claudio Cupellini (reduce dall'aver diretto, per la televisione, il fortunato "Gomorra - La serie") sceglie di dedicarsi ad un mélo classico, sulla scorta di Truffaut (lui dice d'essersi ispirato a "La mia droga si chiama Julie") e più probabilmente di Jacques Audiard. Riferimenti letterari, pure, dato che il nostro cita addirittura "Il grande Gatsby"e - singolare paragone - una canzone di Bob Dylan, "Tangled up in Blue". In realtà, al cinefilo viene in mente subito "Paris s'eveille" (1991), dove Olivier Assayas indagava da par suo - nella storia di due giovanissimi fatalmente attratti l'uno dall'altra - il tipico conflitto di quella stagione dell'esistenza, tra rabbia ed integrazione.

Come si vede, i modelli sono di prim'ordine e le ambizioni del regista di "Una vita tranquilla" elevate. I suoi personaggi, che all'inizio hanno niente ed alla fine avranno conquistato e perso più o meno tutto, danno un'impressione di vero e di credibile, resa ancor più intensa dalle ottime prove di Elio Germano,  una certezza, e di Astrid Bergès-Frisbey, una scoperta. La struttura all'americana, tesa e concentrata sui fatti, giova alla narrazione, che infila scene madri ed eventi tragici senza, tuttavia, scivolare nel ridicolo. Se un rimprovero si può fare al nostro è che, dopo una prima parte intensa e sostenuta, nella seconda a Milano s'affastellano un eccesso di personaggi non sempre plausibili (l'ingenua ragazza ricca Francesca, per dirne uno) e la materia si sfilaccia, mostrando un'anima da serie televisiva che fa calare l'interesse. Al tirar delle somme, tuttavia, l'esperimento si rivela interessante e degno di nota; e segno certo, inoltre, della maturazione d'un cineasta sul quale, nel futuro, si potrà fare ampio affidamento.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ALASKA. REGIA: CLAUDIO CUPELLINI. INTERPRETI: ELIO GERMANO, ASTRID BERGES-FRISBEY, VALERIO BINASCO, ELENA RADONICH. DISTRIBUZIONE: 01.
DURATA: 125 MINUTI.

venerdì 30 ottobre 2015

45 anni

Kate e Geoff Mercer conducono una vita tranquilla nella campagna inglese: sabato, festeggeranno il loro 45° anniversario di nozze. I preparativi fervono, Kate è occupata in città a organizzare il rinfresco. A casa, frattanto, Geoff riceve una notizia inattesa: è stato ritrovato, in un ghiacciaio, il corpo intatto di Katya, la sua prima fidanzata finita dispersa durante un'escursione sulle Alpi svizzere, negli anni '60. L'uomo tenta di non far trapelare il turbamento che lo agita, rassicura Kate sul proprio stato d'animo e prova a minimizzare. Ma quest'ultima, profondamente scossa, comincia a scavare nel passato: fino a quando uno sconcertante segreto riemerge, compromettendo la loro serenità lungamente coltivata...

"Le canzoni d'amore sono stupide, e più sono stupide e più sono vere", diceva Fanny Ardant a Gérard Depardieu ne "La signora della porta accanto" (1981). La citazione ci è tornata alla mente dato che è "Smoke Gets in Your Eyes" a essere fil rouge di "45 anni", il bellissimo film di Andrew Haigh presentato a Berlino. Il brano musicale, scritto da Otto Harbach, è l'idea melodica del dramma senile messo in scena dal regista di "Weekend" (2011). Pellicola, fra l'altro, che ha punti di contatto con quest'ultima: entrambe s'interessano al carattere complesso dell'intimità fra due persone; ai rischi che comporta la scelta di esporsi emotivamente con qualcun altro; alla difficoltà di essere davvero onesti sulle proprie paure. Si è detto dell'aria che costituisce l'incipit e sancisce lo scioglimento di "45 anni" (ispirato, molto liberamente, a un racconto di David Constantine, "In Another Country"), perché sta a contrassegnare l'atto conclusivo di una coppia che, nel modo della canzone, mette in dubbio il proprio amore, fino ad allora indiscusso. 

A sabotar questo sentimento all'apparenza perfetto ve n'è un altro, travolgente e inalterato, per opera del cuore e del ghiaccio: Geoff ha finto che non esistesse più per calarsi dentro una vita ordinaria, per dimenticare un passato che, però, riaffiora con la pregnanza che talvolta acquista il rimosso.  Kate non accetta quel vuoto che s'è materializzato sotto forma di un cadavere congelato, vuole a qualsiasi costo sapere: dovrà ripercorrere a ritroso il cammino della coppia altra, andare indietro nel tempo alla fatidica gita in cui il destino del suo attuale marito ha trovato una svolta, tramite la cancellazione della memoriaImpeccabilmente messo in scena, scritto ed interpretato, 45 Years poggia sopra ad una drammaturgia precisa che scandisce, lungo i giorni di una settimana, le fasi della vicenda e notomizza tutti i fattori che condurranno al dissolvimento di equilibri in apparenza consolidati, magari celandosi all'uopo dietro ad un libro di Kierkegaard o ad una fuga di Bach. Di Kate e Geoff, che non possiedono neppure una foto di una vita trascorsa in comune, Charlotte Rampling e Tom Courtenay - già insieme in "Treno di notte per Lisbona" - sono tramiti impareggiabili, capaci di rendere nei minimi dettagli ogni emozione. La loro interpretazione - giustamente premiata al festival berlinese -  trova il proprio vertice nel finale, quando al ballo celebrativo Kate ascolta davvero, per la prima volta, la loro canzone: e tira indietro, con amara malinconia, mano e cuore, consapevole che la fiamma d'amore s'è spenta, lasciando solo fumo negli occhi.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

45 ANNI. REGIA: ANDREW HAIGH. INTERPRETI: CHARLOTTE RAMPLING, TOM COURTENAY, GERALDINE JAMES, DOLLY WELLS. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 93 MINUTI. 

giovedì 29 ottobre 2015

Spectre

La Spectre è l'avversario principale di James Bond nelle sue prime avventure: si tratta di una misteriosa e ramificata organizzazione internazionale, impegnata in orrendi complotti e spaventosi piani di dominio globale. Ad esempio, nel primo episodio della serie filmica, "Agente 007 - Licenza di uccidere" (1962), essa tenta di deviare la traiettoria di un missile Mercury diretto sulla Luna; in "Thunderball - Operazione Tuono", intende rubare due bombe atomiche alla NATO per minacciare i governi americano e inglese di radere al suolo due grandi città della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, se in cambio non verrà data ad essa una cascata di diamanti (titolo, successivamente, di una delle pellicole meno riuscite della saga).

Era quasi inevitabile, quindi, che nell'operazione reboot del personaggio, iniziata quattro episodi fa con l'ottimo "Casino Royale" (ed il discusso Daniel Craig ad indossare i panni della mitica spia), tornasse il gruppo criminale che più ha caratterizzato il percorso in celluloide del nostro. Dunque, il restyling della serie si collega agli inizi, ed è proprio questo flashback il perno intorno al quale ruota la sceneggiatura. Per capirci, il film si diparte dalla vicenda lasciata in sospeso nel precedente - e superlativo - "Skyfall":
per soprammercato, l'invincibile eroe si trova a dover regolare  conti rimasti aperti con la Spectre. Tutto questo avviene giusto allorquando il MI6, cioè il servizio segreto britannico, rischia di venir smantellato da un nuovo capo che vuole rimpiazzare gli agenti con dei droni, istituendo un servizio di sorveglianza permanente.

L'azione prende il via a Città del Messico, durante la tradizionale Festa dei Morti, con uno dei prologhi più suggestivi mai veduti; prosegue a Roma, dove fa la sua comparsa Monica Bellucci nelle vesti della vedova di un potente malavitoso; dipoi ci si trasferisce in Austria, ed è la volta dell'entrata in scena per Madeleine Swann (Léa Seydoux), figlia di un antico nemico; infine, si va a Tangeri, ove s'appalesa il supernemico Franz Oberhauser (interpretato con la consueta, crudele morbidezza da Christoph Waltz). Non può mancare, pure, il mostruoso picchiatore di turno: qui si chiama Hinx ed affronta Bond in una movimentata scazzottata in treno, che rende tributo a quella di "Dalla Russia con amore"(1963).

Cos'altro? La varietà di scenari resta uno dei punti di forza del tutto, così come il budget elevato che consente sequenze quali quella iniziale già citata (uno strepitoso piano-sequenza, nel quale il titolato regista Sam Mendes ha modo di mostrare tutta la sua bravura), o l'inseguimento automobilistico tra la Aston Martin ultimo modello ed una potentissima Jaguar, destinato a concludersi con l'affossamento della prima nel Tevere. Tutto molto spettacolare, avvincente, adrenalinico. Un difetto? L'ipertrofia generale. Troppi minuti di durata (148'); troppi colpi di scena e personaggi; troppe trame e sottotrame che s'intersecano, ingenerando un qualche senso di sazietà, se non di confusione. Lo scopo, con ogni probabilità, è quello di offrire un tasso spettacolare che ponga il prodotto al di sopra dei limiti che le oggi ottime serie televisive non possono non soffrire. Ma la sensazione è che quello di 007 sia, ormai, solo un brand, e il risultato finale debba più ai vari "Mission Impossible" e "Bourne" che non all'idea primigenia. Col rischio che, negli spettatori meno giovani e negli appassionati, il ritmo rilassato, i toni ironici delle puntate con Sean Connery possano ingenerare una pungente sensazione di nostalgia.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SPECTRE. REGIA: SAM MENDES. INTERPRETI: DANIEL CRAIG, LEA SEYDOUX, CHRISTOPH WALTZ, MONICA BELLUCCI. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 148 MINUTI

mercoledì 28 ottobre 2015

La legge del mercato

Thierry è un buon marito e padre affettuoso di un figlio disabile al quale vuole dare tutte le possibilità, pure a costo di sacrifici. Dopo un quarto di secolo ha perduto il proprio lavoro, poiché la proprietà ha scelto di delocalizzare la produzione in un altro paese. Comincia, così, per lui, l'umiliante calvario dei colloqui di lavoro, dei curricula da presentare, d'esaminatori che ricorrono finanche allo streaming per evitare d'aver contatti con gli aspiranti. Alla fine, stretto dal bisogno, accetta di far il sorvegliante in un supermercato: ogni giorno gli tocca d'assistere alla pubblica umiliazione ed alle minacce di chiamare la polizia, rivolte perlopiù a gente mossa dalla necessità. Quando una cassiera viene licenziata per avere sottratto dei buoni premio, provocandone il suicidio proprio nel supermercato, egli finisce per trovarsi di fronte ad una scelta morale che non consente compromessi.

Coprodotto dal regista Stéphane Brizé, da Lindon e da Rossignon, con una rinuncia di buona parte del salario che ha consentito di pagare la troupe, "La legge del mercato" affronta di petto e con coraggio il tema della progressiva disumanizzazione in un mondo del lavoro dove la logica del profitto diviene di giorno in giorno più spietata: fino a lasciare sul campo dei cadaveri, pur con modi all'apparenza liliali. Lindon ha, inoltre, accettato di recitare in un cast composto in gran misura da non professionisti, scelti fra delle persone che nella quotidianità ricoprono le medesime mansioni che interpretano sullo schermo. Il modo in cui il film è stato realizzato, insomma, sembra volere suggerire - a principiare dalla tipologia produttiva - un modello economico che possa strutturarsi in modo differente.

Alla maniera dei fratelli Dardenne, il regista segue dappresso il protagonista per mostrarci quanto resti della dignità umana in individui mortificati dalla precarietà e dalla brutalità di un sistema che non teme di mostrare il proprio volto. In termini cinematografici, ne nasce un'opera che procede con gradualità, lasciando alla platea ogni giudizio. La situazione di Thierry è quella di tanti altri che si sono ritrovati sul lastrico soltanto perché, dietro la paroletta "delocalizzazione", sta acquattata la cinica scelta padronale di trasferirsi in un altro paese, dove si possono pagare salari risibili e non offrire tutele alla manodopera. La potenza del film sta nel mai andare sopra le righe, mostrandoci di contro il percorso di un uomo onesto e dotato di etica, in una macchina che richiede ormai d'esser complici od uscire dal processo produttivo. Lo scioglimento giunge come naturale sbocco, senza forzature: ed è merito di Vincent Lindon, premiato a Cannes per la propria prova, se il ritratto di Thierry risulta tanto penetrante, sincero, coinvolgente.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA LEGGE DEL MERCATO. REGIA: STEPHANE BRIZE. INTERPRETI: VINCENT LINDON, YVES ORY, KARINE de MIRBECK. DISTRIBUZIONE: ACADEMY TWO. DURATA: 93 MINUTI.

martedì 27 ottobre 2015

Tutto può accadere a Broadway

Isabella "Izzy" Patterson, una call girl nata a Broadway che aspira a diventare un'attrice, durante una sera di lavoro al Barclay Hotel di Manhattan, conosce Arnold Albertson, affermato regista di cinema e teatro che sta per allestire un nuovo spettacolo a Broadway. Questo signore, dedito a una particolare forma di filantropia, le regala 30.000 dollari per combinare qualcosa d'importante nella vita: come le spiega, ci sono persone che vanno al parco per dare le nocciole agli scoiattoli. Ma perché, per una volta, non dare scoiattoli alle nocciole? Arnold è aduso a far cose del genere per una squillo: questa volta, però, ne scaturisce una catena di equivoci che muta l'esistenza di tutte le persone con le quali ha a che fare; a iniziar dalla moglie Delta Simmons, stella dello show, e dall'attore che deve affiancarla in scena, Seth Gilbert, che ha un'antica passione proprio per lei... 

Risale ad oltre due lustri or sono l'idea di questa screwball comedy - sceneggiata da Bogdanovich con Louise Stratten - che, in un primo momento, avrebbe dovuto intitolarsi "Squirrels to the Nuts", da una battuta di "Fra le tue braccia" di Lubitsch. Finita nel dimenticatoio per una serie di eventi, ne è sortita solo quando Wes Anderson e Noah Baumbach non si son offerti di esserne produttori, pel tramite del comune amico Owen Wilson. Peter Bogdanovich, cinefilo d'eccezione ancor prima che regista, ha così potuto tornare dietro la cinepresa per dedicarsi al suo genere preferito, quella commedia degli anni '30  di cui aveva dato un esempio pressoché perfetto già nel 1972, firmando "Ma papà ti manda sola?". Non mancano certi aggiornamenti, va precisato: come il nostro fa dire alla sua protagonista, "Memory is not a videocamera", esiste la libertà e l'errore; lo dimostra proprio Isabella, che ama non ritenersi una escort bensì una "musa", credere che andar a teatro voglia dire farsi sorprendere, e che il finale debba contenere un tocco di "rosa" (Audrey Hepburn dixit).

Se il già citato "Ma papà" partiva sulle note di "You're the Top" di Irving Berling, un classico tune di Cole Porter del 1934 ed un caldo invito a tornare indietro, nel cuore della decade che precedette la seconda guerra mondiale, per sorridere come allora, qui in chiusura c'è la "She's Funny that Way" di Daniels & Whiting (è il titolo originale), in omaggio alla deliziosa protagonista che ha dichiarato di credere "in miracles". Ma il segreto del film, più che nel blend agrodolce, sta nel ritmo senza tregua, dove situazioni alla Feydeau si susseguono scandite da battute umoristiche fulminanti: il carosello di equivoci che ne scaturisce fa pensare a talune recenti cose di Allen, a cominciare dalla struttura del racconto a flashback, ma poco importa ai fini dell'esito. La novella dea dell'amore Imogen Poots e la svitata Jennifer Aniston menano la danza all'insegna del divertimento puro: allo spettatore, non resta che deliziarsi per novanta minuti di fronte all'arte di questi superbi comedians ed al talento del loro ineguagliabile demiurgo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

TUTTO PUO' ACCADERE A BROADWAY. REGIA: PETER BOGDANOVICH. INTERPRETI: OWEN WILSON, IMOGEN POOTS, JENNIFER ANISTON. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 93 MINUTI.

mercoledì 21 ottobre 2015

The Walk

Nel 2009, sul palco del Kodak Theatre, Philippe Petit afferrò l'Oscar che aveva appena ricevuto per il documentario "Man on Wire" e se lo sistemò sul mento, tenendolo in equilibrio. Non si trattò affatto di un gesto improvvisato, bensì d'una gag accuratamente preparata, facendo a lungo esercizio con una replica del medesimo peso: 4 chili. E' la miglior presentazione possibile per un artista che ha sfidato il pericolo di morire "volando" su alcuni dei luoghi più suggestivi dell'universo: la Tour Eiffel, Notre Dame, lo Harbour Bridge di Sydney, il Plaza Mikado Building di Tokyo e la Grace Cathedral di New York. Oggi sessantaseienne, espulso da 5 scuole e arrestato 500 volte, si definisce "famoso ma povero" e non s'è mai vergognato di girare con il cappello tra gli spettatori. Ha scritto, inoltre, una decina di libri, da "Why Knot?", un elogio dei nodi, a "L'art du pickpocket", una sorta di saggio sul borseggio.

Un personaggio del genere non poteva non suscitare interesse in un regista quale Robert Zemeckis, che - a tre anni di distanza dal bellissimo "Flight", a nostro avviso la migliore prova d'attore di Denzel Washington - mette in scena con "The Walk" (presentato alla Festa del Cinema di Roma) l'impresa che il funambolo francese riteneva il suo sogno: camminare per quasi un'ora, avanti ed indietro, sopra un cavo teso tra le Twin Towers di New York, a oltre 400 metri d'altezza senza protezioni. A guardarlo, in basso, la sua compagna, gli amici che hanno dato una mano, la polizia che l'attende per incarcerarlo,  la città e, poi, il mondo. Pare impossibile, ma il 7 agosto del 1974 Petit conferisce alla freddezza delle torri gemelle il tocco geniale dell'arte, mutando lo sguardo dei newyorkesi su di esse. Sino a che, l'11 settembre del 2001, qualcuno scriverà un nuovo spartito, all'insegna del terrore, consegnando quello spazio al nulla figliato dalla distruzione. 

Strutturato su due movimenti, il film ha una prima parte ambientata a Parigi, che sembra venuta fuori da un musical alla Stanley Donen: i protagonisti della storia si muovono in una sfera semifavolistica, ove la finzione prevale sulla realtà malgrado costumi e fotografia s'adoprino per andare in direzione opposta. Dipoi le cose mutano, e passato l'oceano la prospettiva si fa diversa: qui Zemeckis, a proprio agio maggiormente ed estendendosi su una dimensione spettacolare più ricca, scandisce la vicenda come un "caper movie", i film del "colpo grosso" ritornati di moda con la serie degli "Ocean". Le fasi della minuziosa preparazione, sino alla notte in cui i componenti del gruppo salgono in cima alle torri, vengono narrate creando un'ininterrotta suspense. Infine, la passeggiata sul vuoto e il magistero del cineasta hanno modo di fondersi, di apparire fatti della medesima materia, d'esser capaci di scandire i tempi con le loro regole particolari, di rubare il respiro a chi guarda. L'unica obiezione possibile è che la materia risulta forse troppo esigua, per un lungometraggio che si estende per la durata d'oltre due ore. Ma lo spettacolo c'è, i contributi tecnici sono eccellenti e il cast funziona a meraviglia, capitanato da un Joseph Gordon-Levitt capace d'immedesimarsi nel suo atipico eroe con una leggerezza - è il caso di dirlo - aerea.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

THE WALK. REGIA: ROBERT ZEMECKIS. INTERPRETI: JOSEPH GORDON-LEVITT, BEN KINGSLEY, JAMES B. DALE, BEN SCHWARTZ, STEVE VALENTINE, CHARLOTTE LE BON. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 123 MINUTI.

domenica 11 ottobre 2015

Suburra

Siamo nella settimana compresa tra il 5 e il 12 novembre 2011: gli ultimi giorni prima della rovinosa caduta del governo Berlusconi. Attorno al progetto d'una grande speculazione edilizia, il Waterfront, nelle intenzioni destinato a trasformare il litorale romano in una novella Las Vegas, si muovono vari personaggi. Filippo Malgradi è un politico sprovvisto degli anticorpi necessari a chiunque appartenga alle alte sfere delle istituzioni per non diventare un corrotto. Sebastiano, figlio di un costruttore, ama la bella vita al punto da divenire un miserabile faccendiere che procura sia stupefacenti sia ragazze di facili costumi per individui benestanti. Samurai, l'ultimo della banda della Magliana, è un potente boss già terrorista nero che tiene le fila della malavita a Roma ed è in grado di arrivare a chiunque. Dipoi Numero 8, rampollo d'una famiglia di criminali, gestisce il territorio di Ostia e più di tutti freme per far della propria zona il centro del divertimento e del riciclaggio del denaro sporco. A completare il quadro vi sono pure Sabrina, un'avvenente escort; Viola, la ragazza tossicodipendente di Numero 8; Manfredi, capo di un pericoloso clan di zingari.

Realizzato con una certa disponibilità di mezzi, a iniziare da un cast di prim'ordine, "Suburra" prende spunto dal romanzo omonimo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo (edito da Einaudi), per narrare una Roma criminale da basso Impero, in cui una fetta di politica, gang di fuorilegge e il lato in ombra del Vaticano procedono di pari passo, creando un viluppo inestricabile. Dovendo fare delle scelte, il regista Stefano Sollima - assieme agli sceneggiatori Stefano Rulli, Sandro Petraglia e Giancarlo De Cataldo - ha soppresso la figura del carabiniere Marco Malatesta, estremista di destra prima di passare a servire lo Stato, che indaga sul dilagare della corruzione e sulla violenza ormai endemica nella Capitale. In assenza di un epicentro attorno al quale far ruotare le diverse storie, essi hanno preferito restituire la materia quasi in presa diretta, optando per una struttura fortemente corale.

Il risultato è un film accattivante, a tratti travolgente, dove la concatenazione degli eventi porta a un ritmo forsennato e tiene lo spettatore continuamente con il fiato sospeso. Sotto quest'aspetto, chi da "Suburra" si attendeva un grande spettacolo, non potrà non ritenersi soddisfatto. Tuttavia, tanta enfasi comporta anche degli effetti negativi: malgrado le oltre due ore di proiezione, molti nessi sfuggono, le ellissi risultano acrobatiche e le motivazioni dei personaggi appaiono evidenti solo riferendosi ai loro cliché. Quello che delude davvero, in ogni caso, è la totale assenza di collegamenti tra quel momento storico ed il presente: una opzione singolare, dato che le cronache degli ultimi tempi avrebbero fornito materia e ragioni per una scelta differente. In definitiva, la pellicola s'inserisce con dignità nel filone del noir nostrano (però, facendo rimpiangere non poco la secchezza d'un Fernando Di Leo), scansando il cinema d'impegno civile od una qualunque lettura "impegnata". Un peccato, perché Sollima aveva già dimostrato con il precedente "ACAB" di avere una personalità d'autore non riconducibile a canoni del passato, e di essere in grado d'osare di più. Tra gli attori, in un gruppo affiatato di professionisti, piace segnalare le prove dell'ottimo Alessandro Borghi (visto di recente, in un ruolo similare, nel bellissimo "Non essere cattivo") e di Greta Scarano, capace di lasciare il segno finanche con poche, intense scene.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SUBURRA. REGIA: STEFANO SOLLIMA. INTERPRETI: PIERFRANCESCO FAVINO, ELIO GERMANO, CLAUDIO AMENDOLA, ALESSANDRO BORGHI, GRETA SCARANO. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 130 MINUTI.

lunedì 5 ottobre 2015

Much Loved

Noha, Soukaina e Randa sono tre donne marocchine (dipoi si unirà a loro Harama, una ragazza arrivata dalla campagna dopo essersi accorta d'attendere un bimbo dal fidanzato che l'ha lasciata): per campare -e per essere libere - vendono i loro corpi. Non è facile sopravvivere nei cupi mercati della carne, corrotti e pericolosi, di Marrakech: le quattro si sostengono vicendevolmente nella loro lotta quotidiana. La loro vita professionale comincia la notte, quando escono di casa per andar a dei party organizzati perlopiù da nababbi sauditi dove, dopo aver bevuto, danzato e fumato hashish, soddisfano i capricci dei loro clienti,  talvolta subendo gravose umiliazioni (i viziosi signorotti, ad esempio, gettano per terra i bigliettoni del compenso col solo gusto di vederle strisciare per raccoglierli). Il giorno trascorre spento ed assopito, in comodi pigiami, con il rumore di sottofondo della tv costantemente accesa e qualche scaramuccia che non manca d'accendersi nell'atipico gineceo...

Oggetto di una stizzita polemica in patria, per le esplicite scene erotiche e per il linguaggio d'estrema crudezza, "Much Loved" è stato subito messo al bando, prima ancora di venire visionato dall'apposita commissione preposta ad autorizzare l'uscita dei film: la proiezione è stata vietata in quanto ritenuta "un grave oltraggio ai valori morali e alla donna marocchina", nonché "all'immagine del paese". Vi sono state, addirittura, da parte dell'opinione pubblica, richieste di pena di morte per il regista Nabil Ayouch, mentre Loubna Avidar - l'attrice che interpreta Noha - ha ricevuto delle intollerabili minacce. "E' stata soprattutto la violenza verbale che provocato la censura" ha detto Noureddine Sail, direttore del Centro cinematografico marocchino. Eppure il Marocco ha fama di essere un paese liberale, quanto meno nei confronti dei diritti femminili; addirittura all'avanguardia quando si parla di sesso, amore e matrimonio. Il sospetto è che di miseria, non si possa parlare: basti pensare che un capolavoro della letteratura locale, "Il pane nudo" di Mohamed Choukri, è stato proibito fino al 2000 per aver raccontato la paura, il quasi obbligato comportamento brutale dei poveri e la violenza poliziesca.

Sotto la scorza audace e le spinte ribellistiche, "Much Loved" è una pellicola che tratta della mancanza di amore: nelle vite delle protagoniste non v'è, non vi sarà mai spazio per un sentimento, sognato nelle telenovelas televisive o immaginato nel desiderio di qualcuno che si prenda cura di loro in quanto esseri umani. Pur se con l'ingrato lavoro che fanno, danno da mangiare alle loro famiglie, non sono da esse amate perché il loro è un denaro haram, impuro, con tutti i conseguenti sensi di colpa che le tormentano. Nell'orchestrare un coro a più voci e dipingere un "ritratto di signora" atipico ed affettuoso, Ayouch dà spazio alle sue attrici che incarnano personaggi memorabili: nel cinema non mancano figure di meretrici dal gran carattere (basti pensare alla Melina Mercouri di "Mai di domenica" di Jules Dassin), tuttavia il coraggio con cui queste interpreti si lasciano ritrarre sorprende e commuove; a cominciare dalla superba Louna Abidar, sospesa mirabilmente tra la forzosa gioia orgiastica richiesta dal proprio mestiere ed una malinconia che non è affatto - come sosteneva, carico d'ottimismo, Victor Hugo - la felicità d'esser tristi.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

MUCH LOVED. INTERPRETI: LOUBNA ABIDAR, ASMAA LAZRAK, ALIMA KARAOUANE, SARA ELMHAMDI ELALAOUI, ABDELLAH DIDANE. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 103 MINUTI.

martedì 29 settembre 2015

Io e lei

Federica e Marina, entrambe sulla cinquantina, vivono assieme da diversi anni. Provengono da percorsi differenti, hanno caratteri e modi di vita diversi, si amano e discutono come avviene in qualsiasi coppia. La prima è architetta, la seconda ha un passato d'attrice di cui non va specialmente fiera e gestisce ora con successo un'attività di catering. La prima è di scaturigine borghese, la seconda ha radici popolari. La prima è stata sposata e ha un figlio di ventiquattro anni, la seconda non ha avuto identità sessuale che non sia l'attuale. Federica tiene alla riservatezza rispetto al loro rapporto, Marina ne soffre perché pensa che un poco se ne vergogni. Le tensioni sotterranee si manifestano all'improvviso, allorquando quest'ultima accetta di tornare sul set, pur per una parte di non protagonista, e la compagna cade fra le braccia di un'antica fiamma maschile, rimettendo in discussione le proprie scelte...

Dopo il soddisfacente esito di "Viaggio sola",  Maria Sole Tognazzi torna a inscenare una storia tutta al femminile: "volevo fare una commedia sentimentale, raccontare una storia d'amore tra due donne dell'età delle mie splendide attrici, raccontare la normalità". Eh sì, parte del fascino di questo "Io e lei" risiede senz'altro nella scelta delle interpreti: una Margherita Buy chiamata a dar vita ad un personaggio sofisticato, supponente, inquieto come nella sua cifra professionale storica; Sabrina Ferilli, di contro, ad incarnare una popolana solare, ruspante, senza peli sulla lingua. La cosa più gustosa è che entrambe, in qualche modo, si prestano a ironizzare su se stesse ed a mettere in luce caratteristiche che finiscono per minare lo schema iniziale.

"Io e lei" è un ottimo esempio di commedia italiana, di quelle che accompagnavano l'andamento del costume senza andarvi a rimorchio, tuttavia senza anticipare di troppo. Qui, il lesbismo - grazie pure alla misurata sceneggiatura firmata da Ivan Cotroneo e Francesca Marciano assieme alla regista - è narrato con la naturalezza che si riserva alla "normalità", qualunque sia il senso che si voglia dare a questo termine versipelle. In altre parole, non ci troviamo di fronte a una pellicola di rottura qual era, ad esempio, l'intenso "La vita di Adele". V'è, invece, una riflessione tra sorriso e dramma sui mutamenti che il nostro paese sta attraversando, senza esagerare neanche sul versante del lieto fine: si opta per uno scioglimento sereno, ma che - tutto sommato - lascia parecchi nodi irrisolti. La leggerezza di tocco della Tognazzi, quasi ormai un suo marchio di fabbrica, qui si esplicita nel miglior modo possibile. Ma parte cospicua del merito va ad una Buy che è credibile, naturale in tutti i passaggi e ad una Ferilli capace di scovare una consapevolezza a tratti dolente nel dipingere il suo amore muliebre.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IO E LEI. REGIA: MARIA SOLE TOGNAZZI. INTERPRETI: MARGHERITA BUY, SABRINA FERILLI, ENNIO FANTASTICHINI, FAUSTO SCIARAPPA. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 97 MINUTI.

mercoledì 23 settembre 2015

Everest

Traendo ispirazione dal libro "Aria sottile" di Jon Krakauer (Corbaccio), Baltasar Kormakur ed i suoi sceneggiatori raccontano la disastrosa spedizione sull'Everest - realmente accaduta - che costò la vita ad alcuni scalatori. Sita al confine tra Cina e Nepal, la vetta è la meta di un gruppo eterogeneo che ha scelto di affidarsi a Rob Hall ed alla sua società, l'Adventure Consultants, per tentare l'impresa. Rob è sposato con Jan, la quale attende una bimba che egli sogna di abbracciare terminata la discesa. Ma le cose, ben presto, si fanno complicate, sia perché il campo base pullula di dilettanti, sia perché è reso sovraffollato da altre spedizioni commerciali gestite da Scott Fischer, alpinista col gravame dell'alcool. Rob e Scott trovano tuttavia opportuno e proficuo collaborare, così che il 10 maggio 1996 partono alla volta della vetta, alta 8.848 metri. La preparazione insufficiente dei clienti, accoppiata ad una gestione organizzativa all'insegna dell'approssimazione, ritarda l'ascesa dei due gruppi. Tuttavia, alcuni di loro toccheranno con mano la vetta a fianco di Rob, generoso sino alla caparbietà coi suoi clienti. Poi, una tempesta improvvisa si solleva, con conseguenze esiziali per i destini delle persone coinvolte. 

Recuperando un genere cinematografico popolare negli anni Venti e Trenta in Germania, Kormakur sottolinea come la globalizzazione del viaggio snaturi la natura ed i popoli che incontra. Se la pratica dell'alpinismo per molti aspetti si inscrive in una logica di purificazione, di dominazione del mondo che procura l'ascesi, il cineasta islandese rimpiange quell'intendimento e polemizza con quell'ascensione di massa che la logica della globalizzazione e le regole feroci del capitalismo hanno fatto sorgere. Una impresa che dovrebbe richiedere un alto livello di specializzazione, di conoscenza, coinvolge individui giunti lì per i più vari motivi: per sfidare se stessi secondo canoni criptopubblicitari, per reagire ad un momento di depressione, per provare un brivido inconsueto. L'importante è che, prima, passino alla casa per pagare i 65.000 dollari di un biglietto, che può rivelarsi un autentico passaporto per l'inferno. 

La 'democratizzazione' della montagna, contaminata da velleitarie ambizioni e da lattine sfondate, ha abbassato il livello del tutto, trasformando in passeggiata dopolavoristica una sfida che può diventare dramma ad ogni pie' sospinto. Ecco, sono queste le cose che fanno di "Everest" qualcosa di più d'una macchina da intrattenimento, di un kolossal al limite del catastrofico: c'è, in sottofondo e sin dall'inizio, il senso d'una tragedia incombente, quasi la tracotanza degli uomini dovesse per forza di cose scatenare la furia degli dei dell'altitudine. Le riprese, che tolgono il fiato, sono state realizzate in alcune zone del Nepal, ma pure in Italia - in Val Senales - e negli studi inglesi della Pinewood. Le star coinvolte hanno dovuto sottoporsi ad allenamenti devastanti e funzionano assai bene: segnatamente, Jason Clarke e Jake Gyllenhaal forniscono prove - è il caso di dirlo - all'altezza della situazione. 
                                                                                                                                     Francesco Troiano

EVEREST. REGIA: BALTASAR KORMAKUR. INTERPRETI: JASON CLARKE, JOSH BROLIN, JAKE GYLLENHAAL, KEIRA KNIGHTLEY, ROBIN WRIGHT. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 121 MINUTI.

lunedì 14 settembre 2015

Per amor vostro

Anna è stata una bambina spavalda e piena di coraggio, fino al punto che durante la tradizionale festa dell'Assunta, era stata sempre lei la prescelta per il "volo dell'angelo": sospesa tra un campanile ed un palazzo, agganciata soltanto ad una corda penzolante, non esitava a lanciarsi nel vuoto con un sorriso.  Oggi è una donna che vive nella sua Napoli e che da quattro lustri ha smesso di vedere ("per necessità e convenienza", ammette) quanto succede nella sua famiglia: gli Scattone campano di usura, mormora la gente; tuttavia, ella preferisce non prendere posizione, rimanere sospesa in un limbo. Per amore dei tre figli e della famiglia, ovviamente, ma anche perché sin da piccina - come per troppe donne accade - è stata abituata a chinare la testa, a sentirsi "una cosa da niente":  con il risultato che la sua vita si è, poco alla volta, spenta. La sua esistenza è talmente opaca da non farle più vedere i colori, sebbene sul lavoro - fa la "suggeritrice" in uno studio tv - sia assai stimata, e questo la riempia di orgoglio...

Napoletano di Pozzuoli, classe 1957, Giuseppe M.Gaudino inizia come scenografo e costumista per il teatro. Esordisce alla regia nel 1985 con "Aldis" (saggio al CSC, presentato a Venezia), che percorre con tecnica raffinata i sentieri d'una avanguardia radicale e suggestiva: la stessa rintracciabile, più tardi, nel video underground "Per il rione terra" (1990) e - nello stesso anno - in "Calcinacci", firmato a quattro mani con Isabella Sandri. "Giro di lune tra terra e mare" (1997), narrazione della deriva della famiglia Gioia di Pozzuoli che procede in parallelo allo sconquasso sismico che devasta la città, è tra le opere più significative ed originali del cinema italiano negli anni '90. Ora, a rompere un silenzio quasi ventennale (interrotto solo da due documentari: "Maquilas" nel 2004 e "Per questi stretti morire" nel 2010, entrambi diretti assieme alla Sandri), giunge "Per amor vostro", realizzato fra infinite difficoltà produttive.

Diciamo subito che si tratta del suo lavoro più ambizioso; perché la vicenda narrata pare volersi fare metafora della complessità della città nella quale si svolge. Abitata e dominata dalla criminalità, certo, ma anche depositaria di una cultura ancestrale, Napoli appare un mondo sotterraneo pieno d'ombra, ctonio, zeppo di catacombe, cimiteri, ipogei, ove sopravvivono riti ancestrali (la scena della capuzzella, il teschio del tuo morto al quale ti rivolgi a riceverne consigli e indicazioni). In sintonia con quest'anima  misteriosa, Anna percorre le strade gravata dal marciume morale che la circonda e che pure in casa sua domina, tramite la figura del marito Gigi detto 'O Milord, esattore della mafia per l'usura ed uomo violento, sprezzante, cinico. Poi c'è la prole, due ragazze e quella bella quasi infatuata del papà; infine il figliolo sordomuto, gentile ed insofferente alla crudezza paterna, tenero fino allo struggimento (i momenti in cui si esibisce in "Buanita Banana" del Quartetto Cetra, con una sorta di playback, sono deliziosi). Quando infine Anna sembra prendere coscienza e trovare il coraggio per ribellarsi, patirà la delusione di un inganno ancora più grande; pur se lo scioglimento assume i toni di favola che hanno fatto capolino, a tratti, nella vicenda (le scene a colori, a spezzare il bianco e nero della quotidianità).

Opera ambiziosa, si diceva, e diretta in stato di grazia, ché i vari registri - dal drammatico al buffo, dal tragico al sorridente - ben si amalgamano: stride un poco, forse, il mondo della soap opera nella quale Anna svolge la sua attività e che, nel raffronto con il resto delle sue giornate, ha qualcosa di forzoso e di didascalico. Ma l'intera operazione trova un tramite formidabile in Valeria Golino, qui probabilmente alla sua miglior prova d'attrice, che si carica sulle spalle il film e dà ad ogni momento di esso un sapore di verità intenso, corposo: poche volte una Coppa Volpi è stata assegnata con maggior merito, a nostra memoria.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

PER AMOR VOSTRO. REGIA: GIUSEPPE M.GAUDINO. INTERPRETI: VALERIA GOLINO, ADRIANO GIANNINI, MASSIMILIANO GALLO. DISTRIBUZIONE: OFFICINE UBU. DURATA: 109 MINUTI.

Inside Out

Riley è una bimba di undici anni che, sradicata dalla sua vita felice nel Minnesota per seguire i genitori a San Francisco (il padre vi è stato trasferito per lavoro), inizia un difficile percorso d'adattamento. Le sue emozioni primarie, che le fanno da guida nell'esistenza quotidiana, entrano di seguito in subbuglio. Posizionate in un attrezzato quartier generale, svolgono ciascuna il proprio compito: Gioia si sforza di vedere sempre il lato positivo delle cose, Tristezza insiste nel colorare di dolore ogni cosa, Rabbia si spazientisce spesso e volentieri, Disgusto arriccia il naso di fronte a tutto, Paura tiene fede al proprio nome. Il debutto poco fortunato di Riley a scuola e il camion del trasloco perduto nel Texas complicano ulteriormente la situazione emotiva della bambina: il risultato è che il centro di controllo decisionale va in tilt, Gioia e Tristezza si trovano sbalzate fuori da esso e debbono peregrinare lungamente attraverso le varie zone del cervello di Riley. Infine riusciranno a fare ritorno, fornendole un nuovo equilibrio: sulla consolle di comando rinnovata si trova il tasto "pubertà", vale a dire l'obiettivo prossimo venturo.

Già nel 1943, Walt Disney aveva licenziato un gustoso corto dal titolo "Reason and Emotion" incentrato sul funzionamento della mente umana, nel quale minuscole creature - ritratte in veste antropomorfa - davano corpo ai sentimenti che si battono per temperare l'emotività. Il gruppo della Pixar, prendendo le mosse proprio da quel soggetto, l'ha sviluppato ed approfondito con una strepitosa messe d'intuizioni: basti vedere il personaggio di Bing Bong, l'amico immaginario che piange caramelle e sogna di portare Riley sulla luna (sarà sua la scena più struggente, che segna la fine dell'infanzia della piccina). Quello che ne scaturisce è un apologo, brillante e commovente, sul mutamento delle stagioni nell'esistenza.
 
Il segreto della Pixar non sta, come è noto, nell'abilità tecnica, sovente raggiungibile o perfezionabile, ma nella forza drammatica delle loro storie. Il fascino delle loro sceneggiature costituisce l'atout con il quale hanno licenziato infiniti capolavori: dietro a molti di questi - ad esempio, "Monsters&Co" od "Up" -    c'è la regia di Pete Docter, per certo il migliore dei cineasti del gruppo. La sua capacità di creare dei personaggi straordinari è sorprendente: qui, si veda il già citato Bing Bong, gatto, elefante e delfino insieme, rosa e soffice come lo zucchero filato, guida di Gioia e Tristezza tra i sogni e gli incubi di Riley, capace di svanire nell'oblio per consentire il passaggio della sua compagna di giochi all'adolescenza. Perseguendo lo schema della buddy comedy e correggendola con una spolverata di esistenzialismo metaforico, Docter dà vita ad uno dei più bei lungometraggi Pixar, un po' film d'avventura un po' atipica sit-com, coloratissimo e quasi psichedelico, pieno di trovate che occhieggiano al quotidiano (si pensi al tormentone del "jingle" sul chewing gum, che a tratti fa capolino). L'affermazione più significativa è che la tristezza, quando è blu e intensa come chi la rappresenta, è necessaria al superamento dell'ostacolo e alla costruzione di sé. Ma questo, come molti dei temi della pellicola, pare destinato a sollecitare delle riflessioni soprattutto in un pubblico adulto: l'eccezionalità è che un simile risultato è ottenuto nemmeno una volta a scapito della godibilità del prodotto per il suo pubblico d'elezione, il popolo dell'infanzia.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

INSIDE OUT. REGIA: PETE DOCTER. DISTRIBUZIONE: DISNEY. DURATA: 94 MINUTI.
                                                         

mercoledì 9 settembre 2015

Sangue del mio sangue

Bobbio, XVII Secolo. Benedetta, una nobile costretta a farsi suora, seduce un sacerdote, Fabrizio, che finisce per uccidersi. Federico, giovane uomo d'arme e fratello del morto, vuole riabilitarne la memoria e si presenta, perciò, al convento. Colei che, secondo l'Inquisizione, lo avrebbe amato, sedotto e condotto alla follia, viene sottoposta ad una serie di prove, tese a piegarne la volontà. Ma ella non riconosce pentimento e, ben presto, la vendetta anelata da Federico muta in desiderio: la donna è perciò condannata alla prigione perpetua, e murata viva in una cella. 
Bobbio, oggi. Federico, un presunto ispettore ministeriale, bussa al medesimo convento: assieme a lui, un miliardario russo che vorrebbe acquistare l'antico complesso. In apparenza abbandonato all'usura del tempo e all'incuria del comune, l'edificio è abitato dal misterioso conte Basta, che vive solo di notte ed attraversa il paese, interrogando gli abitanti sullo 'stato delle cose'. Le cose in mutazione sotto la spinta del 'nuovo' vengono avversate dall'enigmatico individuo, che vorrebbe conservare una sorta di status quo...

Dunque, Bellocchio ancora una volta torna a Bobbio, al paese natale teatro del suo mirabile esordio "I pugni in tasca" (1965), in epoca più recente luogo d'ambientazione per il delicato "Sorelle Mai" (2010) e che, nella vita, è diventato il posto in cui egli ha impiantato il suo laboratorio di cinema. Fatto in parte di pezzi di cose girate dai suoi allievi, quest'ultimo lungometraggio incorpora molti tra i temi da lui già affrontati in passato o provenienti dalla sua autobiografia: ad esempio, quello della strega vista quale emblema della femminilità irriducibile agli schemi del potere maschile arriva diritto da "La visione del sabba" (1988), laddove l'argomento del fratello suicida - il suo gemello, nella vita - sta al centro de "Gli occhi, la bocca" (1982). 

Quel che sorprende, davvero, è la capacità del cineasta piacentino di sperimentare e di sperimentarsi, di produrre libere variazioni, di mescolare Storia e storie con una libertà creativa davvero invidiabile, mettendosi in discussione ogni volta e, sovente, trovando una perfetta sintesi tra rigore e semplicità.
Qui, circondatosi di due famiglie - quella di sangue e quella di lavoro - produce un'opera che sfugge a ogni definizione, muovendo da un caso di stregoneria nell'Italia del '600 ad una contemporaneità vista con occhio spietato eppure ironico. Si veda il "vampirismo isolazionista" che muove il conte Basta, il dottor Quantunque e gli accoliti della setta: quasi un movimento politico, tra vecchia DC ed espedienti di più recente conio. Cos'altro? Quel finto ispettore del Ministero che pare uscito dalle pagine de "Il revisore" di Gogol fa il paio con Basta che si commuove cantando "Torna a Surriento": ma è bello che il tutto si concluda con Benedetta che - graziata trent'anni dopo da Federico, diventato cardinale - lo stende con la sua nudità non scalfita dagli anni; è la bellezza che incenerisce il male, lasciando spazio alla speranza. Tutto il resto - attori in stato di grazia (Herlitzka in testa), fotografia superba (Daniele Ciprì), montaggio perfetto (Francesca Calvelli) - soccorre, è ovvio: però, il modo migliore per affrontare "Sangue del mio sangue" è, per una volta, evitar d'analizzarlo con l'abituale strumentazione critica, bensì lasciandosi andare al flusso delle immagini, al ritmo interno della pellicola, alle intuizioni di un maestro che non conosce stanchezza.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SANGUE DEL MIO SANGUE. REGIA: MARCO BELLOCCHIO. INTERPRETI: ROBERTO HERLITZKA, PIER GIORGIO BELLOCCHIO, LIDIYA LIBERMAN, ALBA ROHRWACHER, FILIPPO TIMI. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 107 MINUTI.