lunedì 26 dicembre 2016

Il GGG - Il Grande Gigante Gentile


A Londra, Il Grande Gigante Gentile, unico vegetariano della sua specie, rapisce l'orfanella Sophia e la conduce nella propria caverna, nella terra dei giganti. Inizialmente spaventata dal misterioso essere, la piccola ben presto comprende che si tratta, in realtà, di una creatura buona ed amichevole, capace di insegnarle cose incredibili. Il GGG, infatti, la porta nel Paese dei Sogni, ove cattura i sogni da mandare di notte ai bambini: così trascorre tutto il proprio tempo, impedendo pure che gli altri giganti - più grandi di lui - divorino gli esseri umani. Quando, però, costoro sono pronti ad una strage, Sophia ed il GGG si recano a Buckingham Palace, per avvertire la regina d'Inghilterra dell'imminente pericolo... 

"Il GGG" di Roald Dahl esce nel 1982, lo stesso anno in cui "E.T." giunge nelle sale cinematografiche: una coincidenza, forse, oppure il segno che Steven Spielberg doveva, presto o tardi, incontrare nella sua filmografia lo scrittore anglo-norvegese, e adattare la di lui storia. In primo luogo, perché - assieme a "Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato" (1964) ed a "Matilda" (1988) - è il romanzo più noto del suo autore ed uno fra i maggiormente amati della letteratura per l'infanzia di ogni epoca; poi, in ragione del fatto che nell'opera di Dahl compaiono diversi elementi che non potevano non suscitare l'interesse del cineasta dell'Ohio. Ad accomunare il lavoro dei due artisti è il tema della diversità, un filo rosso che in questa versione per il grande schermo è evidentissima; inoltre, vi è la maniera similare in cui ambedue mai celano la cognizione del dolore nell'infanzia, accompagnandola però sempre ad uno scioglimento lieto. 

Ultimo film adattato per lo schermo da Melissa Mathison (collaboratrice storica del nostro, scomparsa nel 2015, e sceneggiatrice, tra l'altro, proprio di "E.T."), il film è costato ben 140 milioni di dollari, con esiti al botteghino niente affatto soddisfacenti (nel weekend d'apertura negli Usa, soltanto 19 milioni di dollari). Gli è, probabilmente, che non risulta per nulla facile trasferire lo spirito della pagina di Dahl in celluloide: in particolar modo pensando ad un pubblico americano, abituato ad associare ai piccoli il mondo quale luogo protetto ed infantilizzato. Si diceva, poc'anzi, del dolore; e l'argomento è trattato, per immagini, con delicatezza, laddove il GGG mostra a Sophia il suo peggior incubo dentro ad un vaso, contenente i rimorsi e la pena per un errore che non si può più correggere. Spielberg non pigia il pedale su detto versante, e - soprattutto nella seconda parte - cerca il divertimento finanche in maniera greve (le variazioni petofone del gigante, che nella concretezza della visione hanno una sguaiataggine non trasmessa, invece, dalla lettura). Ciononostante, l'equilibrio è raggiunto (con l'ausilio di notevoli effetti speciali): la piccola Sophia (l'esordiente inglese Ruby Barnhill), che legge il "Nicholas Nickleby" di Dickens e ha coraggio inversamente proporzionale alla sua età, è destinata a restare nella memoria; ed il gigante - Mark Rylance, vincitore dell'Oscar come miglior attore non protagonista per "Il ponte delle spie" - è figura non dimenticabile, nelle sue intenerenti stramberie. 
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL GGG - IL GRANDE GIGANTE GENTILE. REGIA: STEVEN SPIELBERG. INTERPRETI: MARK RYLANCE, RUBY BARNHILL. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DURATA: 120 MINUTI.

martedì 20 dicembre 2016

Paterson


Paterson è un guidatore di autobus che vive con la moglie Laura e il cane Marvin, in una cittadina del New Jersey che porta il suo stesso nome. Ogni sera, dopo aver percorso le strade del posto per il suo lavoro, torna a casa, porta a spasso il cane e beve una birra nel pub del quartiere. La consorte ha una passione per il decoro ed insegue l'ambizione di diventare una cantante. Paterson, di contro, trascorre la pausa pranzo scrivendo poesie su di un taccuino segreto, che mai abbandona. Nei suoi versi v'è traccia evidente della  passione per William Carlos Williams, poeta nativo del luogo, suggestioni provenienti da Allen Ginsberg e Frank O'Hara, assieme ad esperienze ricavate dall'orizzonte quotidiano. Ed è il proprio dono - la capacità della scrittura -  a sottrarlo ad una routine di luoghi ed azioni sempre uguali e, potenzialmente, alienanti.

"Ho visitato Paterson per la prima volta venticinque anni fa: un piccolo posto dimenticato e, tuttavia, interessante, prima città industriale statunitense, oramai impoverita dalla corruzione dei governanti e dal degrado. Da allora ci sono tornato spesso e vent'anni fa avevo già scritto un piccolo trattamento su un guidatore di bus. Ma probabilmente i cittadini di Paterson neanche vedranno il film". Così parlò Jim Jarmusch, da tre decenni e oltre tra i cineasti più peculiari ed inventivi del cinema indie americano, abile a connotare i propri lavori in modo unico, pur per il tramite di un linguaggio in ininterrotta evoluzione. Nella fattispecie, qui l'idea è quella di un'opera che parli di poesia e, al tempo medesimo, di essa faccia la propria sostanza: impresa difficile, nella quale ben pochi prima di lui si sono cimentati.

Presentato con successo all'ultima edizione del film di Cannes, "Paterson" è una sorta di itinerario nei meccanismi medesimi della scrittura poetica, ed un'indagine nei rapporti che esistono fra la parola e l'immagine. L'iniziale richiamo ai fiammiferi ci porta subito in tema, complice il richiamo al Prévert della più nota lirica: la voce over che ripete i versi - un espediente che poteva risultare stucchevole - si fa via via indispensabile elemento per mettere in rilievo la figura dell'anafora (presente, pure, nel ripetersi di situazioni e comportamenti), che presiede alla narrazione. Come Dante, non casualmente evocato, il protagonista descrive quanto lo circonda, ascolta conversazioni riguardanti degli argomenti atipici (su Gaetano Bresci, ad esempio: "un omaggio dovuto - spiega Jarmusch - dato che a Paterson, alla fine dell'800, ci fu un importante sciopero che bloccò la produzione tessile e fu proprio l'italiano a ispirare quella rivolta"), annota e trasfigura con puntualità e metodo. La poesia di una ragazzina incontrata per combinazione è bella quasi come quelle del Nostro (a proposito, i versi scritti in realtà son quelli di Ron Padgett): perché ad essere importante è lo sguardo, capace di dare un significato speciale alle cose più semplici.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

PATERSON. REGIA: JIM JARMUSCH. INTERPRETI: ADAM DRIVER, GOLSHIFTEH FARAHANI. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 117 MINUTI. 

giovedì 15 dicembre 2016

Aquarius


Clara è una giornalista e critico musicale in pensione, che sta da sola dopo la morte del marito; è, pure, l'unica rimasta a vivere nel complesso sul mare “Aquarius”, costruito negli anni '40 per l'alta borghesia di Recife. La società immobiliare nuova proprietaria - che adesso possiede l'intero stabile - è riuscita a convincere gli altri abitanti del condominio a cedere alle proprie offerte, con l'eccezione dell'interno di Clara. Tra lei e Diego, fascinoso nipote dell'imprenditore, gentile ed educato ma spietato, comincia una guerra di logoramento, che sospinge la donna a ripercorrere il proprio passato, contemporaneamente dando uno sguardo al futuro che l'attende. 

Presentato con successo all'ultima edizione del festival di Cannes, "Aquarius" inizia coi festeggiamenti per il compleanno dell'anziana zia della protagonista, femmina libera e spregiudicata in epoca in cui non era facile esserlo. Al tempo medesimo, si celebra la rinascita della giovane Clara, fresca reduce da un'operazione al seno che le ha evitato la morte. Stacco, e dagli '80 in pieno regime militare passiamo all'oggi. Clara trascorre le ore prediligendo andamento lento ed abitudini antiche: la nuotata quotidiana, un flirt platonico con il bagnino, l'ascolto dei suoi amati vinili - predilezione per la samba ed i Queen - e le visite dei nipoti che i suoi tre figli le hanno dato.

"Non accettando di vendere la casa dove vive ed è stata felice con il suo uomo, Clara combatte non inconsapevolmente contro quell'idea di 'crescita' che ha portato il mondo all'attuale rovina o quasi", ha dichiarato il regista brasiliano Kleber Mendonça Filho (appena proclamato vincitore del premio Fénix per il cinema iberoamericano). Si sottolinea apertamente, dunque, il carattere "politico" della pellicola: la resilienza sembra essere l'unico rimedio per contrastare l'avidità di un capitalismo da rapina, che non si premura più che tanto di celare i propri metodi scorretti, se non criminali, quando vuole ottenere uno scopo. Resistere non serve a niente, recitava il titolo di un bel romanzo di Walter Siti; non la pensa così Clara, che non si lascia tentare da lusinghe, intimorire da velate minacce, spaventare da imprevisti eventi. Come l'orgia che una notte si svolge nell'appartamento sopra il suo: la visione di quei corpi nudi allacciati, invece di sgomentarla, la eccita: fino al punto da farle invitare in casa un gigolò, consigliatole dalle amiche parecchio disinvolte. 

E quando la proprietà sferra l'assalto finale (con metodi selvaggi, che qui non vi riveleremo), la risposta di Clara è all'altezza della sfida: con l'aiuto di una sua amica avvocato e di uno tra i figli, scoperchia il verminaio che cresceva a sua insaputa nel palazzo e smaschera i mandanti in un finale rude e secco, metafora feroce della rottamazione. Nelle sue due ore e venti di durata, che scorrono con la meraviglia che dà la lettura di un grande romanzo, "Aquarius" riluce della matura grazia di Sonia Braga: esplosa in tutta la sua carica di sensualità quarant'anni fa con "Donna Flor e i suoi due mariti" di Bruno Barreto (il più bell'adattamento mai realizzato della pagina di Jorge Amado), questa attrice fiera e bellissima ha attraversato la vicenda del cinema sudamericano con una classe, un talento, un carisma inimitabili. Si può ben dire che questo film sia la celebrazione di una carriera che non ha uguali, e di una invincibile guerriera dell'esistere.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

AQUARIUS. REGIA: KLEBER MENDONCA FILHO. INTERPRETI: SONIA BRAGA, MAEVE JINKINGS, IRANDHIR SANTOS, HUMBERTO CARRAO. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 140 MINUTI.    



martedì 6 dicembre 2016

E' solo la fine del mondo

Dopo un'assenza durata dodici anni Louis, giovane e affermato drammaturgo, torna nella casa natale per informare i propri familiari d'essere afflitto da un male incurabile. S'imbarca sul primo aereo, rientra in seno alla comunità dalla quale era fuggito, che lo attende tra premurosità e isteria. C'è Suzanne, la sorella minore, che egli non ha mai veduto crescere; Antoine, il fratello più grande, collerico per il non previsto evento e aggressivo perché si sente in qualche modo minacciato da questo ritorno; la madre di tutt'e tre, ingombrante e premurosa, del tutto inadeguata ad affrontare un figlio che, peraltro, mai era riuscita a capire. Infine Catherine, la cognata ignota, che s'esprime con timidezza, ma è l'unica a comprendere, alla fine, le ragioni dell'imprevista visita. Insieme a loro, Louis va in cerca di brandelli di verità, ma - proprio come avveniva in passato - le voci si sovrappongono, il bisogno di urlare prende il sopravvento; nevrosi e rancori, rabbie e paure si ripresentano puntuali, confinando la speranza a mero rumore di fondo.

Tratto da un testo teatrale scritto nel 1990 dal francese Jean-Luc Lagarce (morto nel 1995, a causa di complicanze subentrate al virus Hiv), "E' solo la fine del mondo" - premio della giuria a Cannes, giusto il festival che ha accolto il nostro da quando aveva vent'anni - è un kammerspiel teso, potente, violento di quella violenza che solamente l'abuso di parole e di emozioni riesce a creare. Da "J'ai tué ma mère" a "Mommy", è la sensazione della vergogna, la vergogna di sé a tener separati i membri delle famiglie di Dolan, perduti in querelle interminabili. Con "E' solo la fine del mondo", la separazione è condotta al calor bianco e profusa dentro un'emorragia verbale devastata e devastante. Congedo privo di appelli, nel quale la crudeltà ha la meglio su ogni possibile tenerezza e la vis drammaturgica ripropone quella della pièce teatrale, il film inscena un'impossibile riconciliazione e salda, presumibilmente, i conti con l'argomento, evocandolo un'ultima volta in interni e calandolo nel caos più assoluto.

Contestato da alcuni critici per l'aria di palcoscenico che vi circola e per la chiusura, fino al tanfo, in una messa in scena claustrofobica, "E' solo la fine del mondo" appare, forse, meno originale ed azzardoso degli altri titoli del nostro, ma per certo è il più sentito e vigoroso. Il 27enne regista canadese continua la sua personale immersione nelle sgradevoli dinamiche di gruppi familiari disfunzionali, probabile frutto di ossessioni coltivate con nevrotico impegno. I termini per spiegarsi non s'individuano, ciascuno grida la propria rabbiosa insoddisfazione, solo chi ascolta (la cognata) riesce ad udire, dire qualcosa (il protagonista) si rivela anelito a un traguardo irraggiungibile, condanna ad una solità fattasi gravame insopportabile. Privilegiando primissimi piani, adoprando il campo-controcampo alternato a repentini scambi corali, Dolan compone una raffinata partitura per sussurri e grida (espressione, non a caso, forgiata da un critico musicale, riferendosi ad un quartetto di Mozart), che trova negli eccezionali interpreti degli esecutori ideali. La metafora finale dell'uccello a cucù che s'incarna per poi piombare al suolo è uno svolazzo magari pleonastico, ma che si perdona volentieri ad un autore fra i più necessari e peculiari del cinema contemporaneo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

E' SOLO LA FIE DEL MONDO.REGIA: XAVIER DOLAN. INTERPRETI: GASPARD ULLIEL, NATHALIE BAYE, LEA SEYDOUX, VINCENT CASSEL, MARION COTILLARD. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 95 MINUTI.