lunedì 20 aprile 2015

Samba

Samba è un immigrato senegalese che vive e lavora da due lustri in Francia, adattandosi a piccole occupazioni d'ogni genere al fine di combattere l'inesausta battaglia per un permesso di soggiorno. Alice è una manager che, a seguito d'un tracollo psico-fisico, compie un percorso di ricostruzione e  riappropriazione di se stessa, che include il volontariato in un'associazione. L'incontro tra il variopinto universo suburbano dell'ironico clandestino e la solitudine della borghese parigina in crisi produce un'attrazione, un affetto che divengono via via più intensi e costituiscono, in qualche modo, una strada per uscire dalle proprie difficoltà: se non, addirittura, un antidoto contro l'emarginazione sociale...

"Le parole non sono servite a difenderlo, magari però daranno un senso alla sua storia": è così che Delphine Coulin, autrice del romanzo "Samba pour la France" (da noi, edito da Rizzoli), riassume il senso della lunga odissea di Samba Cissé, immigrato illegale proveniente dal Mali. Le vicissitudini del protagonista sono in gran parte drammatiche, le stesse che deve percorrere ciascuna persona nel suo stato: razzismo, lavoro nero, mortificazioni e, sopra tutto, la paura d'incappare nelle maglie della rigida struttura amministrativa francese, per la quale valgono le regole e non gli esseri umani ai quali esse vanno applicate. Solo in chi è alle prese coi medesimi problemi, o con gli assistenti, il nostro trova un poco di luce, di spensieratezza: grazie a Wilson, il colombiano che ha come lui l'incarico di pulire i vetri dei grattacieli; o Joseph, il compagno di viaggio che lo invita a mai rinunciare alla dignità, qualsiasi cosa avvenga. Se il tono della narrazione sfiora, a tratti, il picaresco, la lotta per la sopravvivenza conduce, inevitabilmente, ad un lento quanto doloroso naufragio. 

Cosa è rimasto, nel film di Eric Toledano e Olivier Nakache (il duo che aveva firmato "Quasi amici", tra i più clamorosi successi di pubblico in Francia), della pagina scritta? Nel complesso abbastanza, anche se la coppia di cineasti è, evidentemente, preoccupata di smussare gli angoli della vicenda quanto più possibile, in modo che il prodotto non perda di commestibilità per le grandi platee. Diciamo che tutto quel che riguarda il "pedinamento" del clandestino, la sua quotidianità tra il periglioso e l'azzardato, è realizzato con cura, finezza, sensibilità. Più difficile, invece, trovare la quadra per la parte sentimentale: il rapporto fra il sans-papier in cerca d'integrazione e la dirigente d'azienda tentata dal suicidio risulta raramente credibile e proietta la storia - magari senza volerlo - in una dimensione fiabesca che stride non poco con la misura di verità della parte sociale. Ne risulta un ibrido che al botteghino non ha fatto gli sfracelli del suo predecessore, ma al quale è impossibile non guardare con simpatia: fosse soltanto per l'irresistibile Omar Sy, giusto come nel libro "ostinato, vivo, umano"; o per la superba naturalezza con la quale Charlotte Gainsbourg disegna un personaggio improbabile, il cui smarrimento finisce però per creare identificazione in chiunque - magari soltanto per un attimo - abbia avuto in sorte di provarlo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SAMBA. REGIA: OLIVIER NAKACHE, ERIC TOLEDANO. INTERPRETI: OMAR SY, CHARLOTTE GAINSBOURG, TAHAR RAHIM, IZIA HIGELIN. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 118 MINUTI.

martedì 14 aprile 2015

Mia madre

Margherita sta girando un film sulla crisi economica italiana, in cui si narra dello scontro tra gli operai  d'una fabbrica e la nuova proprietà Usa, probabilmente foriera di tagli e licenziamenti. La complessità propria d'un lavoro corale di tale argomento, è aumentata dalle bizzarrie della star italo-americana che ha scelto per interpretare la parte del neo-padrone statunitense: un attore in crisi, ostacolato dalla sua fama di divo, particolarmente avvertita dal provincialismo della cinematografia nostrana. Margherita è inoltre separata, ha una figlia adolescente che frequenta di malavoglia il liceo classico (quasi imposto da una tradizione familiare che trova la sua scaturigine nella nonna, insegnante di latino e greco), ha appena lasciato il proprio compagno, impegnato nelle riprese, conduce una vita confusa e sfinente. Le  istanze del privato, poi, pesano non poco. L'imminente morte della madre Ada, ricoverata in ospedale e afflitta da una sofferenza cardiaca giunta all'ultimo stadio, la porta a un confronto difficile e doloroso: in primo luogo con se medesima e col fratello Giovanni, ingegnere che s'è preso un lungo periodo di aspettativa dal lavoro, per accudire la genitrice amatissima e dai giorni contati...

In "Patrimonio", lo splendido libro in cui Philip Roth racconta la morte del padre, lo scrittore galiziano adopera, per il suo personaggio, il proprio nome e cognome, in luogo di Nathan Zuckerman o David Kepesh. In "Mia madre", Moretti per sé usa il nome di Giovanni e per quello della Buy, Margherita. Ci sembra, questa, una ulteriore sottolineatura di quanto di privato ci sia in questa pellicola complessa e stratificata, forse non tra la sue di vertice, ma in ogni caso la più sentita emotivamente dai tempi di "Caro diario" (1993). Con questo, non stiamo dicendo che l'opera sia strettamente autobiografica: certo, egli ha iniziato a scriverla quando erano appena avvenute le cose poi divenute tema della storia. Ciò non ci sembra abbia influito più di tanto sulla qualità narrativa, però ha avuto delle conseguenze.

In primo luogo, il tema centrale del film - che è lo spaesamento che si prova di fronte alla perdita di una persona cara - procede, quasi a non troppo imporsi, parallelamente ad almeno altri due: il bilancio esistenziale di una donna che si sta avvicinando alla mezza età e il proprio rapporto con il presente (di lei e dell'artista, intendiamo). Il modo in cui Moretti ha pensato la storia di Margherita ricorda da vicino uno dei capolavori di Woody Allen, "Un'altra donna" (1988): ma, mentre Allen trovava una miracolosa leggerezza nell'impaginare il percorso di Gena Rowlands, il nostro sciorina come di consueto una serie di parentesi tese a far ridere, affidandole all'istrionismo di John Turturro. Il risultato è una mescolanza non sempre riuscita con i momenti più toccanti, si tratti di una ricognizione nella memoria (la sequenza davanti al cinema Capranichetta del passato, con una lunga fila di persone che attende di assistere a "Il cielo sopra Berlino") o di situazioni che stridono con lo stato d'animo del personaggio (il momento in cui un rappresentante le propone di cambiare gestione elettrica ed ella si smarrisce nella ricerca d'una bolletta, chiara metafora di un'assenza inaccettabile). Quanto ai rapporti con il presente, con l'attuale situazione di conflitto sociale, ci pare che il regista si limiti a sfiorarli senza convinzione: ed è, forse, proprio questo sentimento di inadeguatezza, finanche d'inutilità di ogni cosa, il più forte che promana dalla visione. La messa in scena d'una sconfitta, senza alibi od infingimenti.

Le note più vere, quelle che fanno di "Mia madre" un qualcosa destinato a restare in ogni caso nella memoria, riguardano la messa in scena cinematografica della scomparsa della mamma. Il trapasso commuove per la mirabile economia dei mezzi: l'esazione della lacrima è evitata con un'accuratezza che non significa, per nulla, perdere in intensità. I momenti in cui Margherita cerca di aiutare Ada, goffamente, con le lacrime in anticamera ed il cuore in patimento, sono magnifici e fanno pensare a "Dove lei non è", quello straziante diario del lutto che Roland Barthes ebbe a vergare durante la malattia materna. Ed è assai brava, la Buy, a render nei movimenti la propria difficoltà, quasi non le riuscisse più di collocare il proprio corpo nello spazio. Le dà la replica con autorevolezza una Giulia Lazzarini che - forte della sua esperienza teatrale - trova con naturalezza una misura d'ossimoro, tra straziante e rasserenante, perfetta. Detto che Moretti si ritaglia, per pudore, un ruolo di raccordo, laterale, rispetto a una vicenda che gli brucia fra le mani, di certo nell'ultima parte, da cineasta, egli dà il meglio: chiudendo con uno scambio di battute fra madre e figlia, che evoca il domani natura delle cose, necessità, scorrere del tempo. Anche se le braccia che ci hanno da sempre accolti, in quel futuro, non ci saranno più.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

MIA MADRE. REGIA: NANNI MORETTI. INTERPRETI: MARGHERITA BUY, JOHN TURTURRO, GIULIA LAZZARINI, NANNI MORETTI, BEATRICE MANCINI. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 106 MINUTI

sabato 11 aprile 2015

Sarà il mio tipo?

All'apparenza, Clément e Jennifer non hanno alcunché in comune. Lui è un giovane, fascinoso docente di filosofia di Parigi, autore del libro "Dell'amore e del caso", trasferito per un anno ad Arras, tranquilla cittadina nel nord della Francia dove, metropolitano, scalpita; lei è un'attraente, esuberante parrucchiera, fiera del posto nel quale vive, madre separata che si divide tra il lavoro nel salone, la cura del figliolo e le serate al karaoke, in cui si esibisce assieme alle colleghe di lavoro. Lei si prova a leggere Kant, lui a ballare. Dopo i primi appuntamenti, prende vita una relazione intensa e ricolma di passione: neppure le barriere culturali fra i due sembrano ostacolare il loro rapporto. Ma Clément, che non crede alla coppia "perché l'amore non deve diventare una prigione", fatica assai ad abbandonarsi del tutto, pur essendo nel suo sentimento sincero giorno per giorno; quanto a Jennifer, ella desidera calarsi fino in fondo nel presente, per immaginare un futuro insieme.

Il precipuo cambiamento avvenuto dalla narrativa ottocentesca ad oggi consiste, fondamentalmente, nel fatto che allora si raccontavano, punto per punto, le peripezie che due persone dovevano affrontare per poter raggiungere l'agognata meta - previo matrimonio, naturalmente - dell'accoppiamento; oggidì, due giovani s'incontrano, si piacciono, vanno a letto insieme, tutto il resto poi si vedrà (o sarà il tema della storia, appunto). Queste riflessioni ci sono venute in mente vedendo "Sarà il mio tipo?", che il regista belga Lucas Belvaux ha tratto dal romanzo di Philip Vilain "Non il suo tipo" (da noi lo edita Gremese). Se il critico volesse incasellarlo in un genere, avrebbe delle difficoltà: il film ha l'incipit e un andamento da commedia, però man mano diviene un film di sentimenti (e non sentimentale), peraltro senza lieto fine. La sceneggiatura, dello stesso Belvaux, è la forza trainante della pellicola: se l'intero plot si svolge sotto l'insegna di una celebre frase di Renoir ("Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni"), i dialoghi sarebbero piaciuti al Roland Barthes di "Frammenti di un discorso amoroso", e incantano pel felice rimpallo delle battute.

"Sono così felice che vorrei morire subito, perché questo non finisca mai... E poi mi dico che non vale la pena di vivere momenti come questo perché per forza finiscono e che, in fondo, forse sarebbe meglio non viverli per non soffrire dopo. Ma sono felice comunque ed è troppo bello... Ecco, è così... ho la felicità triste". E non dirmi che anche tu, aggiunge subito dopo Jennifer: no, Clément è un filosofo, al massimo potrebbe - con Victor Hugo - affermare che "la malinconia è la felicità di essere tristi". Niente, comunque, che sia in presa diretta col cuore, impegni oltre un orizzonte quotidiano, assomigli sia pur in tralice a un progetto. Non anticiperemo lo scioglimento della storia d'amore più bella, intensa, struggente, che si sia vista al cinematografo negli ultimi decenni. Tuttavia, ciò non ci esenta dal lodare la prova di Loic Corbery, membro della Comedie Francaise, che è un convincente Clèment. Nè dal nascondere il nostro innamoramento - cinefilo, e pure di più - per Emilie Duquenne che, nei panni di Jennifer, splende e abbaglia. Ammirandola, nella distanza impostaci dal grande schermo, acclariamo cosa intendeva Fernando Pessoa chiosando: "ho nostalgia di tutto, soprattutto di quello che non ho vissuto".
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SARA' IL MIO TIPO? REGIA: LUCAS BELVAUX. INTERPRETI: EMILIE DEQUENNE, LOIC CORBERY. DISTIRBUZIONE: SATINE FILM. DURATA: 111 MINUTI.