venerdì 19 agosto 2016

Alla ricerca di Dory

Dory, pesciolina chirurgo che soffre di gravi perdite di memoria a breve termine, conduce un'esistenza tranquilla assieme a Marlin e a Nemo, perduto e ritrovato l'anno precedente. Dopo avere ascoltato una lezione di Mr.Ray sulla migrazione, riappare d'improvviso nella sua mente il ricordo di un'infanzia e di una famiglia d'origine, abitante in California dalle parti di Morro Bay. Decisa a riappropriarsi del proprio passato, Dory infila la corrente coi suoi due fedeli amici e si mette in caccia dei genitori. Inseparabili e solidali, i tre attraversano l'oceano e giungono, infine, alla meta. Ma, all'arrivo, le cose assumono una piega imprevista: Dory finisce in quarantena all'istituto oceanografico dove incontra Hank, un octopus mimetico che detesta i bimbi e cerca un passaggio per Cleveland; Marlin e Nemo precipitano, invece, in un secchiello trasportato da Becky, una gavia spennata che li adotta e 'cova' come fossero uccelli. Dopo non poche peripezie, i nostri raggiungeranno il loro obiettivo in compagnia d'uno squalo balena miope e di un beluga convinto del malfunzionamento del suo ecolocalizzatore.


Dopo i 936 milioni incassati nel 2003 da "Alla ricerca di Nemo", ecco finalmente il sequel, uno tra i più attesi. Tutti gli spettatori si ricordano, sicuramente, di Dory, la pesciolina amnesica che, da "comedy sidekick" nel film precedente, qui si guadagna la parte della protagonista, in virtù della propria irresistibile simpatia. A diriger il tutto riappare Andrew Stanton, già regista dell'originale, reduce da uno dei più costosi flop degli ultimi anni: quello di "John Carter", prima sua pellicola non d'animazione, con costi totali di 350 milioni dollari a fronte di un incasso finale di soli 284. Di nuovo alla Pixar, ecco ch'egli si riappropria del campo sul quale si muove a meraviglia ("non vorrei, però, si ritenesse si sia trattata di una decisione di ripiego, tipo tornare a casa a leccarmi le ferite. Un giorno, riguardando 'Alla ricerca di Nemo', mi resi conto che alla fine del film il personaggio di Dory rimaneva irrisolto e, più come scrittore che come regista, mi suonò insopportabile").



Fonte meravigliosa di gag nel capolavoro del 2003, l'amnesia di Dory diviene il centro di una fiaba sulla disabilità e sui modi di convivere coi limiti che impone. Questo seguito riprende lo spirito picaresco che era già nell'originale, introducendo dei personaggi nuovi e irresistibili - un beluga afflitto da una specie di blocco psicosomatico, uno squalo balena affetto da miopia e un uccello di mare un poco tonto - che mettono le proprie risorse, all'insegna dello spirito di reciprocità, a disposizione della piccola comunità di "pesci diversi". Nel viaggio che la divide dall'agognato ricongiungimento, Dory affronta il rischio non solo di non trovare quanto cerca ma, addirittura, di perdersi. L'andirivieni di ricordi nella sua mente, la sua memoria instabile, intermittente innescan situazioni a volte amene, altre quasi tragiche: tra le cose che la piccola protagonista, alla fine, acquisterà, c'è pure la cognizione del dolore.



Stiamo parlando, si sarà capito, d'una pellicola d'animazione assai prossima al capolavoro: non lontana da "Inside Out" nella sua dimensione di tragitto che si svolge, simbolicamente, nella mente di Dory. Qui c'è meno audacia, forse, manca l'azzardo dell'astrazione proprio del film che l'ha preceduto: ma in ogni caso, il titolo va ad inscriversi tra quelli che potremmo definire i Pixar "concettuali". Lo spettatore viene chiamato a condividere un'esperienza unica, ad attraversare quello che assomiglia non poco al parco d'attrazione emozionale di Riley nel già citato "Inside Out". Nell'andirivieni di flashback che illustrano i ricordi di Dory in versione infantile, si può misurare la differenza tra l'indifesa creatura di un tempo e la  lottatrice che individua le modalità per aggirare il proprio handicap e nuotare negli imprevisti della vita. Il valore più importante risulta la solidarietà: che, unito alla consapevolezza dei propri mezzi e al cuore come radar per scansare gli ostacoli, consente di esser felici. Ciascuno a modo proprio, com'è giusto - e bello - che sia.                                                                                                                                      Francesco Troiano



ALLA RICERCA DI DORY. REGIA: ANDREW STANTON, ANGUS MaCLANE. DISTRIBUZIONE: DISNEY. DURATA: 105 MINUTI.

giovedì 18 agosto 2016

L'effetto acquatico

Un gruista quarantenne di Montreuil, Samir, s'innamora perdutamente di Agathe, ruvida istruttrice della piscina municipale del quartiere. Desiderando un pretesto per avvicinarla, egli decide di prender lezioni di nuoto da lei, malgrado nulla abbia da imparare. Le cose sembrano procedere nella giusta direzione, ma la sua bugia non va oltre la terza lezione, dato che un imprevisto lo costringe a svelare di esser un provetto nuotatore. Furente per l'inganno, Nathalie - scelta per rappresentare la Seine-Saint-Denis al 10° Congresso Internazionale dei maestri di nuoto - prende un aereo per l'Islanda.  Samir, però, non si dà per vinto e le va dietro, spacciandosi per un improbabile conferenziere israeliano: improvvisando un discorso, addirittura, si conquista la stima e la simpatia degli altri delegati. Nathalie continua ad essere irritata con lui, si mostra contraria, ma - complice un'amica comune - non può che esservi un lieto fine.


Storia d'amore peculiare e spiazzante, "L'effetto acquatico" è un feel-good movie in bilico tra due patrie, l'Islanda natìa di Sólveig Anspach e la banlieue parigina ove l'autrice viveva sino ad un anno fa, prima che un tumore se la portasse via. Film postumo, quindi, e in certo modo testamentario: celebrando la gioia di una novella esistenza, la Anspach ci porta a passeggio fra le sue opere, e ripercorre i luoghi della sua vita. Come in "Back Soon" o "Queen of Montreuil", tutto è chiaramente questione di dosaggio, per adoprare le sue parole: se dentro l'acqua le forme si scompongono, i suoni si smorzano, le luci si offuscano, c'è il caso che le emozioni sgorghino libere, prive di barriere e di lacciuoli. Collocata tra una piscina comunale a Montreuil ed una sorgente d'acqua calda in Islanda, la commedia romantica fa  incrociare un gruista lunare e una sirena irascibile, la più intrattabile fra tutte. La grinta di Agathe, che allontana senza indulgenza chiunque voglia approcciarla, va a scontrarsi con la resilienza di Samir. Imperturbabile, fallito il primo tentativo di arrivare alla meta, egli si sottopone ad una odissea - che lo porta addirittura a perdere la memoria, in seguito ad una scossa elettrica per preparare il caffè... - stressante e perigliosa: ma non si scompone, avendo sempre ben presente quale sia il suo obiettivo.


Irresistibile mix di delicatezza ed umorismo, "L'effetto acquatico" immerge nel liquido e nel cloro le peripezie dei due protagonisti, dando una sorta di corrispettivo fisico alla fluidità delle loro emozioni: quelle di Samir lo sono già dal principio, laddove Samanthe deve staccarsi dal regno minerale nel quale vuole immaginarsi per sempre confinata, al fine d'evitare i rischi che ogni relazione amorosa inevitabilmente comporta. Il supplemento d'anima che le difettava sale in superficie lento, come i vapori dall'acqua calda: è, pure, un percorso di consapevolezza, che l'ambiente favorisce e la perseveranza di Samir propizia. Samir Guesmi e Florence Loiret Caille si modellano sulle intenzioni della regista con una naturalezza che incanta: giusto come quest'opera singolare, inclassificabile, inno alla smarrimento amoroso quale lievito della felicità.
                                                                                                                                    Francesco Troiano


L'EFFETTO ACQUATICO. REGIA: SOLVEIG ANSPACH. INTERRPRETI: SAMIR GUESMI, FLORENCE LOIRET CAILLE, PHILIPPE REBBOT, MICHAEL BENSOUSSAN. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 85 MINUTI.




mercoledì 17 agosto 2016

Un padre, una figlia

Romeo Aldea è un medico cinquantenne, che svolge la propria attività nell'ospedale di una cittadina della Romania. Uomo di saldi principi morali, adora la figlia Eliza, per la quale farebbe qualsiasi cosa. E' solo per non ferirla che lui e la moglie tengono in vita, senza quasi parlarsi, un matrimonio oramai svuotato di senso. Arrivata alla soglia del diploma, per Eliza si apre la prospettiva di andare a vivere a continuare gli studi in Inghilterra: una borsa di studio sarà il salvacondotto per un futuro migliore. Passare gli esami - e ottenere la media necessaria - non dovrebbe costituire problema per un'alunna modello come lei: ma, giusto alla vigilia della prova scritta, la ragazza viene aggredita brutalmente,  restando scossa nel profondo. Al fine di non farle perdere un'occasione irripetibile, Romeo mette in discussione tutto ciò in cui ha sempre creduto, e ha insegnato ad Eliza: chiede una raccomandazione, offrendo a sua volta un favore professionale...

Il protagonista di "Un padre, una figlia" appartiene ad una generazione che ha veduto il sogno di un cambiamento dissolversi sotto i propri occhi: egli, in prima persona, ha sperimentato a suo tempo la delusione di tornare nel proprio paese per cercar di cambiare le cose, di sostituire al solito andazzo una prospettiva di rinnovamento, su tutto morale. Non è stato possibile, ed altro non gli è restato da fare che conservare la propria integrità, mentre intorno a lui la realtà seguiva altri percorsi. Ma - pare dirci Cristian Mungiu, premiato a Cannes con la Palma per la miglior regia - l'innocenza completa è impossibile: non a caso, l'aggressione avviene proprio la mattina in cui Romeo non ha accompagnato la figlia davanti alla scuola bensì nelle vicinanze, per la fretta di raggiungere la propria amante.


Non tutto può essere controllato, insomma: l'esistenza segue le proprie strade, e produce per chiunque possibilità di sbagliare. Allora, sino a che punto è giusto sceglier per i figli, quando neppure si riesce a controllare in pieno la propria vita? E la dirittura morale può essere un elastico, che s'allunga quando ci appare necessario per una buona causa? Come in "Oltre le colline", il cineasta rumeno squaderna il problema delle conseguenze di una scelta: stavolta, però, esse toccano nell'immediato gli interessati, il confronto tra l'idea che si ha di se stessi e ciò che realmente si è non permette sconti, non lascia alcun margine di dubbio. Il dottor Aldea si muove in un certo modo, perché ritiene di agire per il bene di Eliza, ciò che dovrebbe giustificare l'infrazione al codice che egli stesso si è dato: in realtà, alla fine, egli si troverà con amarezza a comprendere che il compromesso non solo non è possibile, ma - per ironia della sorte - a volte, addirittura, non sarebbe necessario. Ad Eliza si apre un varco per essere, infine, padrona del proprio destino; ed è a lei, alla sua freschezza, a quella di tanti altri giovani connazionali, che Mungiu affida le speranze di mutamenti per il destino collettivo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

UN PADRE, UNA FIGLIA. REGIA: CRISTIAN MUNGIU. INTERPRETI: ADRIAN TITIENI, MARIA-VICTORIA DRAGUS, RARES ANDRICI. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 128 MINUTI.



martedì 16 agosto 2016

Escobar

Il surfista canadese Nick raggiunge il fratello in Colombia: alla ricerca dell'onda perfetta, nel sogno di vivere sulla spiaggia, in una sorta di prospettiva edenica. Lì incontra Maria, della quale s'innamora a prima vista. Due fratelli del posto, tuttavia, creano loro dei problemi, per nulla gradendo l'idea che dei canadesi s'installino nel loro bosco. E' in seguito a ciò che Nick fa la conoscenza dello zio di Maria, e lo  mette a conoscenza dell'antipatica situazione nella quale si trova: carismatico e venerato dal suo popolo, Pablo Escobar risolve i problemi del suo paese come quelli della propria famiglia. Il giorno dopo, gli aggressivi fratelli piantagrane vengono ritrovati appesi a testa in giù, carbonizzati. Sì, perché Escobar, sotto l'aria di benefattore e uomo del popolo, nasconde una natura ferocemente criminale: è così che, per Nick, il paradisiaco scenario si trasforma pian piano in quello d'uno spaventevole incubo...

"Ho costruito una carriera sulla droga. Sono stato un tossicodipendente, uno spacciatore, un agente che dava la caccia agli spacciatori. Secondo me, dipende dal taglio dei miei occhi". Scherza, Benicio Del Toro sul fatto che, appena in un film c'è di mezzo il narcotraffico, Hollywood lo chiami. Così, non deve essersi meravigliato quando Andrea Di Stefano - attore italiano dalla carriera internazionale,  al suo debutto dietro la macchina da presa - gli ha proposto la parte di Pablo Escobar, potentissimo trafficante colombiano fondatore del cartello di Medellin, che nel 1982 controllava il 90% del mercato della droga e negli anni '90 - morì nel '93 - vantava un patrimonio di 30 miliardi di dollari. Pur essendo uno spietato gangster, Escobar - egolatra e paranoide al massimo grado - desiderava essere amato dalle folle, che sapeva manipolare e illudere come pochi con promesse di benessere. Una personalità complessa, che il neoregista nostrano non ha voluto mettere al centro di un classico biopic. 

Ispirata alla storia vera di un ragazzo bolognese finito alla corte dell'intrigante personaggio, la vicenda è narrata con intuizioni notevoli e finezza di annotazioni psicologiche. Non ci riferiamo tanto al rapporto con Dio del protagonista (nel cinema noir, i grandi malavitosi che ordiscono massacri e bacian la croce sono molti); piuttosto, a tratti gentili del suo animo, dal cantar struggenti canzoni d'amore alla consorte fino al leggere le fiabe ai figlioli. Una figura tanto articolata non avrebbe potuto viver sullo schermo senza la impressionante mediazione di Benicio Del Toro. Calandosi, questa volta, nei panni di un individuo diametralmente opposto al Che Guevara già reso con maestria, l'attore colpisce per le sue capacità d'immedesimazione, soprattutto laddove sembra suggerire che Escobar sia ingannatore finanche di se stesso. Eroe negativo nel senso shakespeariano del termine (di quelli che tanto interessavano ad Orson Welles), il nostro è comunque ritratto senza indugiare all'eventuale fascino del male. Qui siamo lontani, per intenderci, dal barocco e tonitruante "Scarface" di De Palma; ed il colloquio con un prete, prima di avviarsi in prigione, squaderna solo lo stato mentale alterato di un uomo sprezzante di ogni regola. 
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ESCOBAR. REGIA: ANDREA DI STEFANO. INTERPRETI: BENICIO DEL TORO, JOSH HUTCHERSON. DISTRIBUZIONE: GOOD FILMS. DURATA: 120 MINUTI. 

lunedì 15 agosto 2016

Jason Bourne

Mentre Jason Bourne tira avanti usando le sue straordinarie doti fisiche per combattimenti clandestini in Grecia, l'ex-agente della CIA Nicky Hopkins s'infiltra in un ritrovo di hacker a Reykjavik, acquisendo così dei file compromettenti dai server dell'intelligence statunitense. L'operazione la porta a imbattersi in notizie che, forse, costituiscono il pezzo mancante di quel puzzle ch'è la ricostruzione delle origini di Bourne. Contattato non senza difficoltà quest'ultimo, i due s'incontrano e finiscono da subito nel mirino dei vertici di Langley, decisi ad eliminare entrambi: il più determinato è il direttore dell'Agenzia, il quale - con l'aiuto d'una esperta d'informatica, che tuttavia finirà per aiutar la preda - vuol fare uccidere Bourne da un killer che è guidato pure da motivazioni personali...


60 milioni d'incasso nel solo primo week-end americano: la scommessa di Matt Damon e del regista Paul Greengrass, ridare vita ad una franchise che pareva ormai spenta (dopo un capitolo, "The Bourne Legacy", in cui l'idea di sostituire il protagonista con Jeremy Renner s'era rivelata poco felice), appare vincente oltre ogni previsione. Certo, il ritorno di Damon nei panni dell'agente senza memoria ha avuto grande peso; ma, a nostro avviso, è soprattutto la riproposizione di temi, situazioni e personaggi delle puntate precedenti l'atout del film. Inoltre, se nel terzo - e più riuscito - tra gli episodi, "The Bourne Ultimatum" (2007), venivano inseriti contenuti civili e accuse all'America di Bush, qui si cala la caccia all'uomo con decisione nel cuore dell'attualità.



Si veda, al riguardo, l'idea di far svolgere la prima - e più azzeccata - sequenza d'azione durante i moti di piazza Syntagma, ad Atene (il tutto, ricostruito in Spagna); o le trame della Cia per giungere ad una qualche forma di controllo di massa sulla popolazione (con Snowden citato); l'affacciarsi del terrorismo quale scaturigine dei problemi di Jason. Tuttavia, tali riferimenti restano lì, a galleggiare, senza che si senta la necessità di approfondire: alla fine appaiono un poco strumentali, in un contesto nel quale ad esser privilegiata è l'azione. Ne consegue uno script ridotto all'osso, con Damon che pronuncia di rado battute e un cattivo - Vincent Cassel, quasi caricaturale nel suo accanimento - ancor più taciturno. Se si è in cerca di una giostra scatenata, a base di botti, risse, inseguimenti, auto distrutte ed esplosioni, ci si può senz'altro ritenere soddisfatti; ma, alla fine, l'insieme risulta meccanico e caricato fino all'isteria, qualora le pretese siano diverse da quelle di un entertainment puro e semplice. La spia a tutto ciò la fanno varie cose: ad esempio, Greengrass rinuncia all'uso della steadycam, in cui era maestro, per affidarsi ad un montaggio sovreccitato e frenetico (segnatamente nella parte finale, quella ambientata a Las Vegas). Il botteghino, dicevamo in precedenza, sta premiando queste scelte: ma, a parte il ritratto a tratti efficace di un universo divenuto più infido ed oscuro, "Jason Bourne" può risultare soddisfacente appieno solo per i fan più accaniti della saga. 

                                                                                                                                    Francesco Troiano


JASON BOURNE. REGIA: PAUL GREENGRASS. INTERPRETI: MATT DAMON, TOMMY LEE JONES, JULIA STILES, VINCENT CASSEL, ALICIA VIKANDER. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 120 MINUTI.  







Jason Bourne

Mentre Jason Bourne tira avanti usando le sue straordinarie doti fisiche per combattimenti clandestini in Grecia, l'ex-agente della CIA Nicky Hopkins s'infiltra in un ritrovo di hacker a Reykjavik, acquisendo così dei file compromettenti dai server dell'intelligence statunitense. L'operazione la porta a imbattersi in notizie che, forse, costituiscono il pezzo mancante di quel puzzle ch'è la ricostruzione delle origini di  Bourne. Contattato non senza difficoltà quest'ultimo, i due s'incontrano e finiscono da subito nel mirino dei vertici di Langley, decisi ad eliminare entrambi: il più determinato è il direttore dell'Agenzia, il quale - con l'aiuto d'una esperta d'informatica, che tuttavia finirà per aiutar la preda - vuol fare uccidere Bourne da un killer che è guidato pure da motivazioni personali...


60 milioni d'incasso nel solo primo week-end americano: la scommessa di Matt Damon e del regista Paul Greengrass, ridare vita ad una franchise che pareva ormai spenta (dopo un capitolo, "The Bourne Legacy", in cui l'idea di sostituire il protagonista con Jeremy Renner s'era rivelata poco felice), appare vincente oltre ogni previsione. Certo, il ritorno di Damon nei panni dell'agente senza memoria ha avuto grande peso; ma, a nostro avviso, è soprattutto la riproposizione di temi, situazioni e personaggi delle puntate precedenti l'atout del film. Inoltre, se nel terzo - e più riuscito - tra gli episodi, "The Bourne Ultimatum" (2007), venivano inseriti contenuti civili e accuse all'America di Bush, qui si cala la caccia all'uomo con decisione nel cuore dell'attualità.



Si veda, al riguardo, l'idea di far svolgere la prima - e più azzeccata - sequenza d'azione durante i moti di piazza Syntagma, ad Atene (il tutto, ricostruito in Spagna); o le trame della Cia per giungere ad una qualche forma di controllo di massa sulla popolazione (con Snowden citato); l'affacciarsi del terrorismo quale scaturigine dei problemi di Jason. Tuttavia, tali riferimenti restano lì, a galleggiare, senza che si senta la necessità di approfondire: alla fine appaiono un poco strumentali, in un contesto nel quale ad esser privilegiata è l'azione. Ne consegue uno script ridotto all'osso, con Damon che pronuncia di rado battute e un cattivo - Vincent Cassel, quasi caricaturale nel suo accanimento - ancor più taciturno. Se si è in cerca di una giostra scatenata, a base di botti, risse, inseguimenti, auto distrutte ed esplosioni, ci si può senz'altro ritenere soddisfatti; ma, alla fine, l'insieme risulta meccanico e caricato fino all'isteria, se le pretese sono diverse da quelle di un entertainment puro e semplice. La spia a tutto ciò la fanno varie cose: ad esempio, Greengrass rinuncia all'uso della steadycam, in cui era maestro, per affidarsi ad un montaggio sovreccitato e frenetico (segnatamente nella parte finale, quella ambientata a Las Vegas). Il botteghino, dicevamo in precedenza, sta premiando queste scelte: ma, a parte il ritratto a tratti efficace di un universo divenuto più infido ed oscuro, "Jason Bourne" può risultare soddisfacente appieno solo per i fan più accaniti della saga. 

                                                                                                                                    Francesco Troiano


JASON BOURNE. REGIA: PAUL GREENGRASS. INTERPRETI: MATT DAMON, TOMMY LEE JONES, JULIA STILES, VINCENT CASSEL, ALICIA VIKANDER. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 120 MINUTI.  







domenica 14 agosto 2016

La famiglia Fang


Pur vivendo, negli Stati Uniti, agli antipodi, Annie e suo fratello Baxter conducono vite parallele e sconnesse. La prima è un'attrice apparsa, nell'ultimo periodo, più sui rotocalchi che sul grande schermo; Baxter, invece, è uno scrittore in crisi creativa, finito in ospedale per un trauma cranico mentre era alle prese con un improbabile lavoro. A causa di quest'incidente, i due sono costretti a tornare a casa dai loro eccentrici genitori, Caleb e Camille Fang, per un periodo di convalescenza e riconciliazione. Assai stimati nel mondo dell'arte contemporanea, i Fang sono performer radicali e aggressivi dalle creazioni sorprendenti, inquietanti: i figli, sin dalla prima infanzia, hanno avuto un ruolo importante nelle opere provocatorie del babbo e della mamma. Cresciuti, così, con una grande quantità di stimoli, ma con un deficit di attenzione, sono divenuti adulti carenti di stabilità, in buona misura impreparati ad affrontare l'esistenza nel mondo reale. Giunti a casa, le cose si complicano ulteriormente: Caleb e Camille sono scomparsi, varie prove indicano che siano stati vittime d'un crimine, la polizia teme il peggio. Seppur convinta che si tratti dell'ennesima bizzarra "opera d'arte" creata dai parenti, Annie assieme al fratello comincia una ricerca che li porterà a scomode verità e, forse, anche a trovare una misura per se stessi.

Partendo dal romanzo di Kevin Wilson, adattato per il cinema dallo sceneggiatore David Lindsay-Abair, Jason Bateman ha firmato con "La famiglia Fang" una pellicola dalle molte suggestioni, di sicuro atipica per gli attuali canoni hollywoodiani. Il tono del libro era più ironico e leggero, un po' come nei romanzi di Daniel Handler e del suo alterego Lemony Snicket; Lindsay-Abaire, dovendo sfoltire gli eventi della narrazione, ha lasciato gli eventi principali incluse alcune performance dei Fang (la prima, però, è apocrifa), alterando in qualche modo l'equilibrio della pagina scritta, con un prevalere dei toni malinconici. Alla fine, il film è la descrizione del lungo, travagliato ed a volte peculiare percorso che tutti dobbiamo attraversare per mettere a fuoco la nostra identità.

Al suo secondo lavoro registico (l'esordio, due anni fa, fu il politicamente scorretto "Bad Words"), Bateman dà vita ad un'opera visivamente elegante, la cui suggestione è sottolineata da una bella colonna sonora - si va dal Beethoven meno inflazionato ai Beastie Boys, gli Yes e i Belle and Sebastien - e da un efficace montaggio. Alle prese con una famiglia disfunzionale, tra mancanze e affetti (tutti temi propri d'alcuni tra i cineasti indie più celebrati di oggi, da Wes Anderson a Noah Baumbach), egli se la cava egregiamente, conferendo al tutto un sapore di verità (gli avrà giovato il suo passato d'attore bambino, gestito dai genitori: probabilmente, avrà attinto ad alcuni ricordi per manifestare l’affetto ma, pure, lo smarrimento e l’insicurezza nei confronti dei loro equivalenti cinematografici). Nicole Kidman, che molto ha voluto questo progetto, non delude, ma non giova alla sua prova qualche rigidezza da star (il rifiuto di apparire nuda in una sequenza fondamentale per definire il suo personaggio, ad esempio); meglio Bateman, che però - come si diceva - era in qualche modo facilitato dall'esperienza personale. Strepitosi, infine, sia Christopher Walken sia Maryann Plunkett nelle vesti dei Fang senior. In particolare, Walken mescola cinismo ed egolatria - una persona naturale e strafottente, l'avrebbe definita Patroni Griffi - con uno charme e uno stile incomparabili. La sua tesi finale - che il compito di tutti i genitori è soltanto quello di danneggiare i propri rampolli - è un pugno nello stomaco; la risposta di questi ultimi, pacatamente, è che solo la morte (metaforica) di chi ci ha messo al mondo può farci camminare spediti, liberi. Rasserenati.
                                                                                                                            Francesco Troiano

LA FAMIGLIA FANG. REGIA: JASON BATEMAN. INTERPRETI: NICOLE KIDMAN, JASON BATEMAN, CHRISTOPHER WALKEN, MARYANN PLUNKETT. DISTRIBUZIONE: ADLER. DURATA: 107 MINUTI.











Un adattamento, si sa, è sempre un tradimento e in alcuni casi può perfino migliorare la fonte. In questo caso non accade, ed è un peccato. Jason Bateman fa un egregio lavoro col suo personaggio - a cui per far prima vengono risparmiate sia le sofferenze dell’essere sfigurato dal lancio fatale sia la bella storia d’amore che vive – e al suo secondo film da regista confeziona un’opera visivamente elegante, accompagnata da una colonna sonora che presenta un Beethoven meno inflazionato e in alcuni casi più allegro, con brani degli Yes, i Beastie Boys e i Belle and Sebastien. Nonostante questo, una storia del genere avrebbe meritato più spazio alle colorite performance dei Fang, mostrate spesso solo in frammenti, e uno stile meno controllato e dimesso. Il contrasto tra il passato e il presente non è a nostro avviso sufficientemente messo in luce dalla fotografia e dai costumi, e gli attori non sono abbastanza somiglianti alle loro versioni adulte (che nel libro hanno otto/nove anni meno dei protagonisti).
Nicole Kidman ricorre a una recitazione naturalistica, dimessa e sussurrata, onesta ma non sempre convincente. Il fatto è che lei è davvero una diva e dunque nella scena più “scandalosa” che coinvolge Annie (accanto a una storia lesbica omessa completamente) non fa quello che un’attrice meno star avrebbe potuto e dovuto fare: mostrare la propria nudità come il personaggio fa in in un momento non pruriginoso e narcisistico ma importante per comprenderlo e definirlo. Bateman convince di più, soprattutto se pensiamo al suo passato di attore bambino gestito dai genitori, che gli avrà reso sicuramente più facile attingere ad alcuni ricordi per manifestare l’affetto ma anche lo smarrimento e l’insicurezza nei confronti dei loro equivalenti cinematografici. I migliori ci sono sembrati proprio loro: Christopher Walken è indiscutibilmente perfetto nel ruolo del padre, ed è molto brava Maryann Plunkett in quello della moglie devota all’arte e al marito al punto da sacrificare i propri figli.
Non è importante sapere se quello che i Fang chiamano Arte lo sia davvero o se – come dibattono i critici del documentario all'interno del film – le loro non siano altro che esibizioni clownesche. Quel che conta è la gioia e la felicità che provano nel far accadere l'imprevisto portando scompiglio e movimento nelle vite proprie e altrui e la convizione di Caleb che tutti i genitori danneggino i figli. A noi per guarire non resta che ucciderli (metaforicamente), dimostrando la bontà delle nostre scelte e cercando a nostra volta di non imporle automaticamente a chi è diverso da noi e che non ci appartiene, anche se lo abbiamo creato.









sabato 13 agosto 2016

Il clan

Buenos Aires, 1982. I Puccio sono una famiglia borghese, all'apparenza come tante, nel quartiere borghese di San Isidro. Il capofamiglia è Arquimedes che, ritrovatosi disoccupato dopo la fine della guerra nelle isole Falkland, decide di cominciare a fare sequestri di persona: attorno a lui, una moglie e cinque figli in vari modi complici o testimoni dell'attività avviata dal padre. Il maggiore dei tre maschi, Maguila, ha tentato di sottrarsi alla criminosa impresa familiare andandosene in Nuova Zelanda, ma poi è tornato. Il più piccolo, Guillermo, esce di scena a metà storia, deciso a sfuggire a tanto orrore. Infine il figliolo di mezzo, Alejandro, star del rugby e giocatore nella nazionale argentina, partecipa egli pure - con qualche riluttanza e molti tormenti interiori - alle gesta dei Puccio. Quanto alle donne, la mamma e le due figlie, fan finta di niente e ignorano le urla che giungono dal seminterrato. Talvolta, i rapiti vengono uccisi. La giustizia non interviene, essendo il regime militare connivente e anzi pronto ad assicurare protezione. Alla fine della dittatura, le cose mutano e Arquimedes - che insiste a commetter nequizie, applicando la redditizia pratica ai giovani ricchi del suo vicinato, sia per conto terzi sia per guadagno personale - è arrestato: in breve, i Puccio capitolano e si disperdono, tra carceri e latitanza. 


"Quanto potrà mai durare la democrazia in questo paese?" Al massimo un paio d'anni e si torna indietro". È questo il pensiero che circola nelle classi alte, subito dopo la caduta di una tra le più feroci dittature del dopoguerra, quella di Videla. Non è così che andrà; e su questa scommesa, "Il clan" verrà sconfitto, insieme alla parte più parassitaria e oscena del paese. Pablo Trapero, che in vari suoi lavori precedenti - da "Mondo gru" (1999) a "7 days in Havana" (2011) - era riuscito a mettere in scena il dramma abilmente evitando la retorica, pareva il regista più adeguato a mettere in scena questa vicenda cupa e sinistra, rigorosamente vera. Il nostro si è mosso concentrando l'attenzione sul capo, Arquimedes - fatto interpretare da Guillermo Francella, volto noto della tv argentina per ruoli in gran parte leggeri, quando non di comico vero e proprio - e su Alejandro, il figlio rugbista del patriarca, diviso tra obbedienza cieca e crisi di coscienza.



Vincitore del Leone d'argento all'ultima mostra di Venezia, "Il clan" non è tuttavia il film che ci si poteva aspettare. Non è necessariamente una critica, intendiamoci: Trapero adatta il proprio stile alla maniera hollywoodiana - si pensi, per fare un titolo, a "Blow" (2001) di Ted Demme -  rinunciando a certe sue caratteristiche, in primo luogo un montaggio creativo e stordente. Forse preoccupato d'incupire troppo i toni della narrazione, usa la musica come alleggerimento (la colonna sonora, a principiar da "Just a Gigolo", è strepitosa) e non lesina stereotipi da biopic. Alla fine, un prodotto impeccabile sul versante commerciale, con interpretazioni di alto livello - la palma va al già citato Francela, che riesce a creare addirittura empatia con lo spettatore grazie al proprio charme recitativo - ed una regia fluida, a tratti trascinante. La cosa migliore è l'amara ironia che impregna il tutto, e l'assenza di ambiguità nel ritrarre i personaggi. In patria, il successo è stato enorme: nella filmografia di Trapero, si tratta di un'opera di transizione, che potrebbe portarlo a un destino d'anonimato al servizio dell'industria o, viceversa, vederlo fare ritorno alla sua più autentica natura di autore.

                                                                                                                                     Francesco Troiano


IL CLAN. REGIA: PABLO TRAPERO. INTERPRETI: GUILLERMO FRANCELLA, PETER LANZANI. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 110 MINUTI. 



giovedì 11 agosto 2016

Il diritto di uccidere

Dal suo bunker, Il colonnello britannico Katherine Powell, esperta di antiterrorismo, guida a distanza una squadra di militari nella cattura, in territorio kenyano, di una cittadina inglese che insegue da sei anni e  sta organizzando un attentato suicida pel fondamentalismo islamico di Al Shaabab. Aiutata da un drone  - pilotato in Nevada dal giovane ufficiale Steve Watts (un ottimo Aaron Paul) - e da minuscole telecamere a forma d'insetto, ella decide di mutare l'obiettivo dell'operazione da "catturare" ad "uccidere". Sorge, a questo punto, il dilemma degli effetti collaterali: vi sono civili che potrebbero perire nell'attacco, e c'è - in particolare - un'innocente bimba che vende pagnotte proprio all'angolo della casa bersaglio. Comincia, così, un gioco di scaricabarile, dato che nessuno, nei piani alti, vuole assumersi la responsabilità di un attacco letale e delle sue drammatiche conseguenze...



Di forte impianto teatrale, "Il diritto di uccidere" avrebbe potuto essere un film-inchiesta per la tv, tanto è con evidenza incentrato su un tema destinato a dividere a secondo dei differenti punti di vista. I tre classici poteri dello stato - il militare, il giuridico e il politico - vengono, dato che si trovano a dover necessariamente prendere una decisione dolorosa, valutando quale sia il male minore. Qualcuno incolpevole, in qualunque caso, pagherà un prezzo ingiusto e crudele. Gavin Hood dirige con coraggio e senza nulla celare, mostra salme tra le macerie senza morbosità, ma pure con l'ambizione verista di chi vuole fedelmente dar conto di una vicenda esemplare. Sulla guerra che ci si trova a vivere e sulla guerra che, principalmente, ci si troverà a vivere in futuro.


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Come in una pellicola degli anni '70, al cineasta sudafricano quel che preme è il dilemma morale. È cinema d'antan il suo, pur tra la moltiplicazione di schermi e dispositivi o marchingegni quali il drone; il nucleo ha un cuore antico, e la vicenda non perde d'interesse specialmente per merito di due attori eccezionali. Helen Mirren impersona impeccabilmente il colonnello Powell, conscia dell'inumanità di alcune scelte ma pronta a molto pur di ottenere il proprio scopo. Alan Rickman, invece, alla sua ultima prova, gioca sulle mezze tinte per dar al generale Benson sfumature d'ironia british. Insomma, siamo dalle parti di classici quali "La parola ai giurati" di Sidney Lumet o, ancor meglio, di "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick: il dibattito si configura non solo quale scontro di posizioni, ma ancora di più come disegno di caratteri, tutti resi a meraviglia da un cast sopraffino. Ed è meritorio che la scelta finale tiri in ballo lo spettatore, lo costringa a partecipare, se non proprio a schierarsi. Forse lo scioglimento poteva essere meno esplicito, didattico, però in fin dei conti l'emozione che irrompe forte non altera l'equilibrio di una vicenda narrata e recitata in maniera esemplare.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL DIRITTO DI UCCIDERE. REGIA: GAVIN HOOD. INTERPRETI: HELEN MIRREN, AARON PAUL, ALAN RICKMAN. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 102 MINUTI.
  

martedì 9 agosto 2016

Paradise Beach - Dentro l'incubo

Nancy Adams, giovane studentessa universitaria di medicina, ha scelto di recarsi per le vacanze in una suggestiva e solitaria spiaggia messicana dove la sua mamma, scomparsa da poco, era solita andare. L'amica che doveva essere con lei non ha potuto accompagnarla, per i postumi di una serata ad alto tasso alcolico; un uomo del luogo, Carlos, le dà un passaggio sin lì, di poi resta sola con la sua tavola da surf. Sul calar della sera, un paio di giovanotti che si dedicavano al suo sport se ne vanno e Nancy è da quel momento isolata. La tranquillità del luogo s'infrange allorquando al largo appare un cetaceo morto dilaniato e, di seguito, si fa vivo chi l'ha ucciso: un enorme squalo bianco. Nancy si ritrova così a combattere per la vita, pur essendo a soli 200 metri dalla riva; senza nessuno a cui domandare aiuto, dapprima trova precaria salvezza sopra il cadavere della preda e, poi, su una roccia affiorante. La lotta col gigantesco predatore prosegue, ed il trascorrere delle ore rende la situazione vieppiù drammatica...

Noi tutti conosciamo il capostipite di questo particolare sottogenere dell'horror: è "Lo squalo" (1975) di Steven Spielberg. I suoi numerosi epigoni, tuttavia, non ebbero alcuna fortuna, principalmente perché si trattava di pellicole banali e ripetitive, che si limitavano a riprendere pedissequamente le situazioni del geniale apripista. Ciò detto, qualche eccezione la si può trovare, fra opere che s'incentrano sulla durezza dello scontro fra l'essere umano e la natura (un classico già in letteratura, dal "Moby Dick" di Melville in avanti), invece di andar in cerca di brividi a buon mercato. Una è "Open Water" (2003) di Chris Kentis, disavventura di una coppia abbandonata in mare leggibile "come una discesa verso il lutto (il blu)"; in scia si pone ora "Paradise Beach. Dentro l'incubo", che sfrutta un'eguale avversità.

Horror di situazione, similmente ad "Open Water", il film costringe la protagonista a registrare, coi sensi dolorosamente acuiti, il passaggio dall'universo della luce a quello del buio: come ai personaggi di "Un tranquillo week-end di paura" (1972), la natura si rivela matrigna, e gli umani - qui un barbone ladro, in maniera meno crudele dei gozzuti montanari del film di Boorman -  aggiungono solo malvagi sberleffi. L'alternarsi tra tempi d'attesa e repentini scoppi di violenza è gestito in maniera sorniona, ed il racconto cinematografico non perde un colpo, sfruttando bene anche il fascinoso habitat naturale che rende la situazione tanto attanagliante quanto straniante. Pur giocato su un unico registro, "Paradise Beach" è una scommessa vinta, grazie anche allo strabiliante one-woman-show reso dall'intrepida Blake Lively ("Non sono un'atleta, ma per questo film lo sono diventata. Già essere riuscita a girarlo mi ha fatto capire che in realtà sono molto più forte di quanto io non creda"). Lo scioglimento è ben concepito, in un crescendo di suspense resa maggiormente efficace da un uso parco di effetti speciali. A dirigere, c'è lo spagnolo Jaume Collet-Serra, che già aveva dato ottima prova di sé con un potente remake de "La maschera di cera" (2005) e, ancor più, con il disturbante "Orphan" (2009). Qui c'è, inevitabilmente, meno spazio per l'originalità, ma il cineasta iberico si conferma tra i nomi sui quali poter contare per il futuro del cinema orrorifico.
                                                                                                                                     Francesco Troiano


PARADISE BEACH - DENTRO L'INCUBO. REGIA: JAUME COLLET-SERRA. INTERPRETI: BLAKE LIVELY. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 85 MINUTI. 

lunedì 8 agosto 2016

Suicide Squad

Un ente governativo segreto, chiamato Argus, opera sotto la direzione di Amanda Waller, ufficiale dell'intelligence degli Usa. Costei - pur inizialmente contrastata dai propri superiori - riesce a dare il via ad un progetto alquanto bizzarro e pericoloso: mettere insieme un'unità operativa composta da criminali estremamente pericolosi, dotarla del più fornito arsenale a disposizione del governo, infine dare ad essa l'incarico di compiere missioni ad alto rischio. Ai componenti del team, viene promessa clemenza, cioè una riduzione delle loro pene detentive. Quando, però, costoro falliscono nel loro compito e si rendono conto di non esser stati scelti per avere successo, quanto per la loro colpevolezza riconosciuta, decidono comunque di risolvere la questione rischiando la morte...

Visto lo strapotere della Marvel al cinema, la "Suicide Squad" è in qualche modo la risposta della DC Comics alla suddetta situazione: a fornir l'idea per questo film "scorretto" ed antieroico debbono essere stati, probabilmente, pure gli incassi della Fox che, con l'atipico e aggressivo "Deadpool", ha rastrellato la bellezza di 780 milioni di dollari. Molti motivi d'interesse nella composizione della squadra: quello  principale senza dubbio restando l'interpretazione sorniona ed ammiccante del Joker sciorinata da uno scintillante Jared Leto, sorprende piacevolmente anche Will Smith, che azzecca il giusto profilo per dar vita a Deadshot - il miglior cecchino del mondo, creato da Bob Kane nel 1950, e uno dei peggiori fra i nemici di Batman - e stuzzica Margot Robbie, provocante e "schizzata" nei panni d'una ex-psicologa del manicomio di Gotham City sedotta dal Joker, sul quale stava scrivendo un libro.

La figura più inquietante della pellicola, tuttavia, è quella di Amanda Waller (ottima la prova di Viola Davis), ideatrice della micidiale compagine e convinta che quanto è meglio per gli Stati Uniti è meglio per tutti; ciò la porta a uccidere a freddo, strumentalizzare gli altri senza remore, in definitiva giocare sporco coperta dall'egida patriottica. Conoscendo il punto debole dei membri della "sporca decina" (per Deadshot, ad esempio, la figlioletta, che ama sopra ogni cosa), li tiene costantemente sotto scacco, con un cinismo che fa di lei qualcosa di non dissimile dai suoi arruolati. Qui il regista David Ayer non lesina qualche puntura di spillo a certi metodi statunitensi di ottenere risultati ad ogni costo in campo politico e sociale, tuttavia mai uscendo dalle coordinate del prodotto d'intrattenimento.

Ecco, l'entertainment: "Suicide Squad" è, prevedibilmente, un film ad alto tasso di spettacolarità, con numerose sequenze d'azione e combattimenti che faranno la gioia dei fan del genere; neppure manca una buona dose d'ironia, ad alleggerire un racconto che altrimenti suonerebbe greve e troppo serioso. Quel che latita è, invece, l'approfondimento psicologico degli atipici mercenari, abbozzato soltanto e come se si dovesse adempiere a un obbligo: da David Ayer, cineasta non privo di sottigliezze, sarebbe stato lecito aspettarsi di più, su questo versante. Il divertimento per un pubblico di teen-ager, si diceva, comunque c'è, e gli incassi quasi certamente non mancheranno di sottolinearlo.
                                                                                                                                   Francesco Troiano

SUICIDE SQUAD. REGIA: DAVID AYER. INTERPRETI: WILL SMITH, JARED LETO, MARGOT ROBBIE, JOEL KINNAMAN, VIOLA DAVIS. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 130 MINUTI.