mercoledì 31 ottobre 2012

Argo

Teheran, 4 novembre 1979. Mentre la rivoluzione iraniana è al culmine, alcuni militanti irrompono nell'ambasciata statunitense, prendendo 52 ostaggi. Nella confusione generale, però, sei funzionari riescono a fuggire e si nascondono in casa dell'ambasciatore del Canada. Certi che, presto o tardi, essi saranno individuati e con ogni probabilità uccisi, il governo americano ed il canadese chiedono alla Cia d'intervenire in maniera rapida ed efficace, per riportarli in patria. L'Agenzia si mette, allora, nelle mani del proprio migliore specialista in fatto d'infiltrazioni, Tony Mendez. E costui s'inventa un piano assai azzardoso: far passare i rifugiati per membri d'una troupe canadese impegnata a preparare una pellicola di fantascienza, "Argo". A tal scopo, Mendez prende contatto con il truccatore John Chambers ed il produttore Lester Siegel, perché il tutto abbia un aspetto assolutamente professionale e credibile...

Ispirato al libro omonimo di Antonio Mendez "The Master Of Disguise" e ad un articolo di "Wired", "Argo" prende le mosse da una storia vera, l'operazione CIA nota come Canadian Caper: nella realtà, vi furono coinvolti Roger Zelazny, collaboratore di Philip K.Dick, e uno dei massimi disegnatori di fumetti, Jack Kirby (quello di Hulk, Thor e gli X-Men, per capirci). Quanto al finto film, esso venne pubblicizzato con gran risalto su "Variety" e "Hollywood Reporter": insomma, ogni cosa fu curata nei minimi dettagli. La vicenda rimase segreta per volere della Cia fino al 1997; il presidente Jimmy Carter, all'epoca, non se ne potè servire durante la campagna elettorale, che si concluse con la propria non rielezione.

Alla terza regia, dopo due prove sorprendenti quali "Gone, Baby, Gone" (2007) e "The Town" (2010), Ben Affleck si conferma cineasta fra i più interessanti della sua generazione, nella scia d'una tradizione di attori/registi che trova in Robert Redford il suo riferimento più plausibile: entrambi sono liberal e appassionati d'un cinema classico, ben fatto, basato su solidi script ed eccellenti cast. Inoltre, in "Argo" spira un'aria seventies - lo stesso Affleck ha dichiarato di aver voluto fare il suo "Tutto gli uomini del presidente" - che lo rende piacevolmente rétro, tra l'acconciatura alla Bee Gees del protagonista e le canzoni che scorrono (si va da "Sultans Of Swing" dei Dire Straits a "Little T&A" dei Rolling Stones, passando per "When The Levee Breaks" dei Led Zeppelin). Prodotto da George Clooney (e si sente, ché il ruolo americano nel sostenere i crimini dello Scià persiano vi è descritto senza infingimenti), il film è un adrenalinico thriller a sfondo politico non privo di pungente ironia (John Goodman e Alan Arkin, rispettivamente nei panni di John Chambers e di Lester Siegel, sono impagabili).

Insomma, siamo di fronte ad uno di quei non frequenti casi in cui le ragioni dello spettacolo e dell'arte risultano perfettamente armonizzate: il cinema di genere incontra quello d'impegno civile (come anche in Italia capitava sovente nel corso degli anni Settanta, ed ora purtroppo non più), dando vita ad un appassionante spettacolo. Ben Affleck è abile nel conferire al suo Mendez la necessaria incoscienza, sempre però corretta da un profondo rispetto per le vite che sono nelle sue mani; e merita una nota di plauso Bryan Cranston che, dopo una carriera da caratterista, sta ora imponendosi all'attenzione generale con una serie d'interpretazioni - qui, quella del grintoso Jack O'Donnell - davvero di vaglia.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ARGO. REGIA: BEN AFFLECK. INTERPRETI: BEN AFFLECK, BRYAN CRANSTON, ALAN ARKIN, JOHN GOODMAN. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 120 MINUTI.

lunedì 29 ottobre 2012

Skyfall

Nell'anteprima per la stampa, la proiezione di "Skyfall" è preceduta da un breve filmato celebrativo, che riunisce alcuni tra i momenti più famosi d'un percorso cinematografico giunto, quest'anno, al suo cinquantenario. Scatta l'applauso, nel pur compassato pubblico specializzato, al momento in cui taluni oggetti (le supercar Aston Martin e Lotus, gli orologi subacquei Rolex ed Omega, il celebre Martini, gli avveniristici - per l'epoca - marchingegni di Q) e personaggi (su tutti le più note Bond girl, a iniziare dalla Ursula Andress di "Licenza di uccidere") compaiono: il protagonista, quanto meno sul grande schermo, è tutto ciò. Al termine del film, ci rendiamo conto che, in apertura, abbiamo assistito ad un epicedio commosso e ben dissimulato di quanto l'agente 007 è stato nel corso di questi cinque decenni: il link col passato pare, oggi, esser rimasto soltanto l'immancabile "il mio nome è Bond, James Bond".

Come per certi personaggi di fumetti ormai entrati nel mito (ad esempio, il Tex rivisto da Magnus, opera ultima di un grandissimo disegnatore), 007 è ormai un'icona che ciascuno inquadra sotto una particolare luce, che rilegge a modo proprio. Pur nell'esigenza principale di questo "Skyfall", vale a dire d'esser un  reboot che rilancia il nostro nel futuro, Sam Mendes - regista avvezzo a tutt'altre fatiche firmare, da "American Beauty" a "Revolutionary Road" - ha dato un'impronta assai peculiare al proprio episodio, che resterà certo tra i più riusciti dell'interminabile saga. Il tema della pellicola è lo scorrere del tempo, l'inevitabile invecchiamento, lo scoramento di chi comincia a non trovare più uno scopo per tanto rischioso, frenetico agitarsi: nell'incipit di prammatica Bond, colpito, precipita nell'acqua ed è dato per morto dallo M16.

Egli invece, ferito gravemente, si è poi ripreso e vegeta più o meno piacevolmente lontano dal lavoro e dal proprio paese: solo un fatto di estrema gravità - l'identità di molti suoi colleghi sotto copertura in tutto il mondo viene resa pubblica, costringendo M a cambiare la sede dell'agenzia e a difendersi dagli attacchi politici, e non solo, al lavoro che sta svolgendo - convince il disperso volontario a fare ritorno all'attività (dopo aver dovuto affrontare i test di prammatica, per verificarne l'attitudine psicofisica). Ma delle cose sono, frattanto, cambiate. Il suo capo (una sempre straordinaria Judi Dench) ha sul collo il fiato di Mallory - il nuovo direttore dell'Intelligence and Security Committee - e rischia il posto, mentre si fa avanti Silva, un sinistro nemico di cui nessuno conosce le motivazioni.

Non aggiungeremo altro: il film riserva varie sorprese, pur se gioca le carte migliori su uno script abile a fare ripartire, ogni volta, la tensione. Vi diremo però che, se ovviamente non mancano le tradizionali sequenze d'azione, "Skyfall" diviene col passar dei minuti una riflessione autunnale, immalinconita sul trascolorare delle cose, sull'inevitabilità di scontare i propri errori, sul dolore dal quale neanche il più duro carapace interiore può preservarci. Si sfiorano, addirittura, toni da tragedia shakespeariana, in uno straziato prefinale mai così cupo: dopo, repentinamente, la "nuova linea". Il cast è eccellente, da Daniel Craig - il più convincente erede di Sean Connery, l'unico ad aver azzardato un approccio tutto suo al personaggio - alla Judi Dench di cui s'è detto, da Javier Bardem - straordinario nel suo essere luciferino e suadente al tempo medesimo - a Ralph Fiennes, bravo ad inserirsi subito con autorità nella squadra. Insomma, la serie più longeva della storia del cinema pare, davvero, avviata verso un secondo mezzo secolo di mirabolante vita.
                                                                                                                                     Francesco Troiano


mercoledì 24 ottobre 2012

Oltre le colline


Nella regione della Moldavia rumena si trova un piccolo convento ortodosso, dove si vive all'insegna della privazione: niente elettricità, niente acqua corrente, cibi poco attraenti, povertà assoluta. Un pope giovane e barbuto governa su un gruppetto di suorine anch'esse giovani, che hanno trovato nell'obbedienza e nella ripetizione di gesti sempre eguali - acqua da prendere al pozzo, stufe da accendere, legna da tagliare - una misura per la propria esistenza. Dalla Germania, ove lavora da inserviente, fa ritorno Alina, al fine di convincere Voichita ad emigrare con lei. Cresciute assieme in orfanotrofio, prive dell'amore di chiunque, si erano strette l'una all'altra per non sentirsi sole al mondo. Ora, Voichita si è data all'amore per Dio, e non intende rinunciarvi. Alina ingaggia, così, una strenua battaglia per convincere l'amica: ma - minata, probabilmente, dalla malattia - tiene comportamenti rabbiosi e violenti che, non curati in ospedale, persuadono il pope a praticare su di lei pratiche di esorcismo... 

Alla sua terza opera, Cristian Mungiu si conferma regista di primissimo ordine. Certamente molti ricorderanno il suo precedente "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni" (2007), vincitore di una meritata Palma d'oro a Cannes: attraverso la vicenda di un aborto da praticare, dava conto dell'abbrutimento morale, dell'indifferenza etica vigente nel regime di Ceausescu, mai indulgendo al compiacimento per codesto degrado, bensì comunicandolo allo spettatore tramite dettagli o fuori campo. In "Oltre le colline", con una vicenda drammatica ricca di suspense hitchcockiana, Mungiu pare, invece, proporre in filigrana una riflessione su quanto avviene nei paesi dell'Est: orfane del comunismo, varie persone si son rifugiate nella fede che, incapace di comprendere e gestire il nuovo, si ripiega su se stessa e sui propri crismi.

Tuttavia, per ammissione dello stesso cineasta rumeno, il film è "una riflessione sulle azioni che si compiono in nome di Dio, e che spesso portano a conseguenze catastrofiche". Molti sono i titoli che hanno dissodato codesti terreni: da "I diavoli" (1972) di Ken Russell, pregno di una isteria sessuale figliata dalla repressione dei sensi, a "Magdalene" (2002) di Peter Mullan, impietosa ispezione sugli orrori figliati dalla "espiazione" dei peccati. Ma si tratta di riferimenti di comodo, l'intenzione di Mungiu è diversa: egli si prende i propri tempi - due ore e mezza - per mostrare come da un presunto luogo di preghiera e riflessione possa scaturire l'orrore. Non vi sveleremo il finale, ma riflettendo su come una tanto terribile tragedia abbia potuto aver luogo senza parere, viene spontaneo annotare che nella lista dei peccati (464) stilati dalla Chiesa Ortodossa non compare quello d'indifferenza. E quando l'ufficiale di polizia, venuto per ricostruire i fatti, si domanda quando il gelo cesserà d'imbiancare il panorama, non si può far a meno di pensare ch'egli alluda ad una nazione in ginocchio, ed auspichi che trovi al più presto la forza per rialzarsi.
                                                                                                                                 Francesco Troiano

OLTRE LE COLLINE. REGIA: CRISTIAN MUNGIU. INTEPRRETI: COSMINA STRATAN, CRISTINA FLUTUR. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 150 MINUTI.

lunedì 22 ottobre 2012

Amour

Georges e Anne sono due anziani professori di musica oramai in pensione. Anche la loro figlia, Eva, è una musicista: si è sposata, e vive all'estero con la propria famiglia. La vita dei due ottantenni è serena, tenuta assieme da un legame forte e vitale. Un mattino, Georges si accorge con spavento che Anne è vittima di una prolungata assenza, non riuscendo ella più a sentirlo, neppure a percepirne la presenza. Spaventato, egli la costringe a fare degli accertamenti: l'intervento al quale la donna viene rapidamente sottoposta non dà, purtroppo, l'esito sperato. Lentamente, Anne perde l'uso dei movimenti, della parola, della capacità di comprendere. E' l'inizio di un lungo, penoso periodo nel quale Georges - liquidata un'infermiera che gli pare troppo brutale - finisce per occuparsi da solo della sua sventurata compagna. Alla fine, una scelta difficile quanto dolorosa porrà fine al tormento di ambedue.

Amour, recita il titolo. E' così: questo bellissimo film di Haneke sembra inverare, per vie ben diverse, il Bataille che rivendicava "l'appropriazione dell'amore fino alla morte". Raramente, ci sembra, con tanta intensità è stato coniugato l'amore, rivendicato proprio allorquando più difficile si fa l'affermazione del sentimento: fino al momento in cui la pietas s'incarica d'interrompere quel che è divenuto un "in limine mortis" interminabile, inutilmente straziante. Qui, però, c'interessa sottolineare quanto "Amour" - pur in apparenza diverso dalle precedenti opere di Haneke - s'inserisca invece in modo armonioso nella filmografia del regista di Monaco.

Pochi ricordano, probabilmente, che George e Anna si chiamavano pure i protagonisti del primo lungometraggio per il cinema del nostro, "Der siebente Kontinent" (1989): avevano, i due, finanche una figlia chiamata Eva. Ebbene, ivi marito e moglie si chiudevano in casa assieme alla figliola, demolivano l'alloggio, distruggevano il denaro e infine si suicidavano. Le lunghe inquadrature sugli sguardi apatici dei protagonisti, su oggetti d'arredamento, sul televisore acceso anche dopo che la famiglia s'è spenta, sono momenti d'una radicalità quasi insostenibile. Non ci sembra azzardato immaginare "Amour" come una variante sul tema: quasi Haneke avesse voluto immaginare per i suoi personaggi quale avrebbe potuto essere la vita, se non avessero compiuto scelte tanto radicali.

Una cosa, in ogni caso, accomuna le due pellicole e, in generale, l'opera tutta di Haneke: la morte e la sua presenza. "Medea non muoia in scena" ammonivano gli antichi, e sapevano quel che dicevano: la dipartita è momento sacrale e tragico, è "la fine" e la sua rappresentazione l'insostenibile confronto con essa. In contrasto con quanto si è vieppiù venuto con il tempo affermandosi, vale a dire l'agonia come spettacolo e metafora d'una civiltà degenerata, Haneke restituisce al momento estremo la propria dignità, a partire dalla pacata ma ferma constatazione che esso è laddove la vita - pur nell'esistenza dei segni biologici - non si dà più. Dalle stragi "fuori campo" di "Funny Games" (1997) alla comminata interruzione d'una sofferenza priva di significazione, corre il filo rosso d'uno sguardo etico prima ancora che registico, nel solco d'una tradizione che ha un solo, illustre precedente: Robert Bresson. Non credo si possa far ad Haneke complimento migliore dell'affermare ch'egli è pienamente all'altezza del maestro, né a Riva e a Trintignant del definire questa loro la migliore interpretazione nella carriera di entrambi.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

AMOUR. REGIA: MICHAEL HANEKE. INTERPRETI: JEAN-LOUIS TRINTIGNANT, EMMANUELLE RIVA, ISABELLE HUPPERT. DISTRIBUZIONE: TEODORA FILM. DURATA: 127 MINUTI.


giovedì 18 ottobre 2012

Io e te

Quattordicenne e introverso, Lorenzo si trova a disagio con i propri coetanei. Approfittando della settimana bianca a scuola, egli si chiude in cantina per una sorta di vacanza forzata. Approvvigionatosi di generi commestibili e di libri horror, s'appresta a vivere in completo isolamento, quando non annunciata si presenta - in cerca di oggetti che le appartengono - la sorellastra Olivia. E', costei, una ragazza di 25 anni inquieta e problematica, con ambizioni artistiche e una dipendenza dall'eroina che la rende fragile. La convivenza in uno spazio così angusto si fa da subito assai difficile: ma, alla fine, i due scoprono le proprie affinità e, su tutto, trovano l'uno nell'altra lo stimolo a crescere e il motivo per farlo.

Pochi cineasti al mondo sono capaci di estrarre mirabilie dal kammerspiel quanto Bernardo Bertolucci: basti pensare allo stupendo uso degli spazi in funzione narrativa de "L'assedio" (1999), e finanche di "Ultimo tango a Parigi" (1972). Quanto agli adolescenti, egli li dirige in modo da cavarne il massimo, come "The Dreamers" (2003) s'incaricava di dimostrare senza possibilità di smentita. E' nato, quindi, sotto i migliori auspici questo ritorno all'attività registica del nostro, dopo quasi un decennio di silenzio: la scaturigine è un bel romanzo breve di Niccolò Ammaniti, rispettato nelle sue linee principali con solo una significativa divergenza nel finale, qui aperto, quasi lieto (sulle note della "Space Oddity" di Bowie, prima citata pure nella versione nostrana con testo di Mogol, "Ragazzo solo, ragazza sola").

Applauditissimo all'ultima edizione del Festival di Cannes, dove è passato fuori concorso, "Io e te" è una completa riuscita, un piccolo capolavoro e - ad avviso di chi scrive - la migliore pellicola indigena dell'annata. Il modo in cui l'ingranaggio solipsistico di Lorenzo muta pian piano in viaggio iniziatico a due è descritto da Bertolucci con finissime intuizioni psicologiche e grande delicatezza di tocco. Claustrofilo e dolcemente malinconico, "Io e te" è un poemetto sulla scoperta della necessità dell'altro, sul valore della solidarietà concessa, sulla gioia della commozione provata: novello Arthur Gordon Pym (il personaggio di Poe che s'infilava nella stiva d'una nave per trascorrervi tutto il tempo del viaggio), Lorenzo "scopre" la sorella e, attraverso di lei, si scopre.

E veniamo ad Olivia, il personaggio più bello del film (ed uno tra i femminili più intensi del cinema nostrano tout court). Questa spaventata guerriera, sospesa fra disperazione e spavalderia, rabbiosa nei confronti della seconda moglie del padre e incerta nel sentimento verso il fratellastro, evolve col dolore, in un percorso di crescita quasi impercettibile. Il luogo dell'incontro/scontro, la cantina rigurgitante di memorie e ciarabattole (neppure il passato del paese manca, si veda la testa mussoliniana di Renato Bertelli), passa anch'essa senza parere da camicia di Nesso per un duo d'inconciliabili a luogo elettivo per un affetto da scoprire - o da riscoprire. Resa lode al magistero del cineasta parmense, si dovrà dire che merito speciale va dato al brufoloso Jacopo Olmo Antinori, un Lorenzo toccante e credibile, e ancor più a Tea Leoni, superba semiesordiente che incarna Olivia diteggiando su una tastiera d'emozioni vasta quanto l'infinito.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IO E TE. REGIA: BERNARDO BERTOLUCCI. INTERPRETI: JACOPO OLMO ANTINORI, TEA FALCO, SONIA BERGAMASCO. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DURATA: 97 MINUTI.

martedì 16 ottobre 2012

Il comandante e la cicogna

Leo - idraulico con due figli da crescere, Maddalena ed Elia - svolge la propria attività con l'assistente cinese Fiorenzo e, per quel che riguarda le cose domestiche, aiutato dalla moglie Teresa, che scompare e riappare. Diana è una giovane pittrice, tanto ricca di idee e di progetti quanto squattrinata; suo padrone di casa è il signor Amanzio, che s'è ritirato dal lavoro per ritagliarsi un ruolo da moralizzatore urbano. Leo e Diana s'incontrano dall'avvocato Malaffano, un leguleio abile e truffaldino: il primo desidera far togliere dalla rete un filmato che vede la figliola, contro la di lei volontà, protagonista; l'artista, invece, si guadagna qualche soldo affrescando una parete dello studio del legale (ed assecondandone le sciagurate manie di grandezza). Il ragazzino Elia, dal canto suo, insegue il volo della cicogna Agostina, giungendo a recarsi sino in Svizzera per verificarne la ritrovata salute...

Due sono le corna dell'arte di Silvio Soldini, com'è noto; da un lato, una robusta vena di facitore di film drammatici a sfondo sociale (da "L'aria serena dell'Ovest" a "Cosa voglio di più"); d'altro canto, una parallela di cesellatore di commedie dal tono aggraziato e un poco surreale ("Pane e tulipani", "Agata e la tempesta"). E' a quest'ultima che "Il comandante e la cicogna" è riconducibile, con una differenza: al contrario delle altre due sue opere similari, qui si è assai legati al momento storico che stiamo vivendo, alla realtà contemporanea. Procedendo in detta direzione, il nostro s'è inventato l'espediente - ispirato a un vecchio film di Alain Tanner, "Jonas che avrà vent'anni nel 2000" - di far parlare delle statue di italiani famosi (da Garibaldi a Verdi, da Leonardo a Leopardi) per far loro dire cosa di questo paese potrebbero pensare, oggi...

Ma veniamo al dunque. L'idea è quella di seguire le varie vicende facendo incrociare, man mano che ci s'avvicina alla conclusione, i personaggi. Fin qui tutto bene, gli snodi sono fluidi, lo scorrere degli avvenimenti è in qualche modo credibile, i personaggi paiono strambi ma suonano veri. Tuttavia, il risultato finale è inferiore alla somma delle parti. Innanzitutto, il discorso sull'orribilità di un presente fangoso, soffocante, volgare è troppo diretto, quasi declamatorio. Inoltre, tale specificità mal si lega a figure aeree e vagamente magiche, in qualche modo autoreferenziali (e, purtroppo, a volte costrette nel letto di Procuste della macchietta). A ciò s'aggiunga che qui latita la malinconica dolcezza di "Pane e tulipani", e s'avrà il ritratto d'una pellicola apprezzabile per il suo garbo, per la sua levità, ma priva di  altri meriti. Tra gli attori, il migliore è Giuseppe Battiston, capace di conferire al suo Amanzio una ruvida bonomia che lo rende irresistibilmente simpatico.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL COMANDANTE E LA CICOGNA. REGIA: SILVIO SOLDINI. INTERPRETI: VALERIO MASTANDREA, ALBA ROHRWACHER, GIUSEPPE BATTISTON, CLAUDIA GERINI, MARIA PAIATO, LUCA ZINGARETTI. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 108 MIN.

giovedì 11 ottobre 2012

Tutti i santi giorni


Dalle acciaierie di Piombino de "La bella vita" alla provincia pisana di Casale Marittimo in "Baci e abbracci", il cinema di Paolo Virzì s'è mostrato ogni volta attento - attraverso storie e personaggi differenti - a comporre un puzzle dell'Italia contemporanea, a tracciar il profilo di un paese sempre uguale e sempre diverso. In "Tutti i santi giorni" (stavolta siamo ad Acilia, ai margini di Roma), al centro della narrazione troviamo una coppia dai caratteri all'apparenza incompatibili e dai ritmi di vita difficilmente conciliabili: Antonio, timido e colto, fa il portiere di notte in un albergo di prima categoria; Antonia, inquieta ed irritabile, lavora di giorno in un autonoleggio e di sera s'esibisce in un locale come cantante. Il desiderio di avere un bambino - da orologio biologico per lei, più razionale e meditato in lui - li porta a far l'amore senza esito tutti i santi giorni e a trasmutare, pian piano, la loro esistenza in un vero e proprio incubo...

Parlando del bell'esordio nel romanzo di Simone Lenzi (Dalai editore), da cui Virzì ha liberamente tratto il proprio film, il sottoscritto scriveva sul quotidiano "La Stampa" (28/4/2012): "sullo sfondo, come in dissolvenza, si scorge il tema della ricerca di un'impossibile felicità". Ecco, il problema di questa trasposizione sta proprio nell'opzione del cineasta livornese: limitandosi a prender dal libro
lo spunto e poco d'altro, egli ha scelto la rassicurante via d'una commedia a lieto fine. Naturalmente,
i riferimenti alla tradizione filmica indigena ci sono, eccome (ad esempio, troviamo pure qui "le copule compulsive, a orari prefissati" ch'erano il refrain in "Alfredo Alfredo" di Germi): manca però, di contro,
il ritratto di "una realtà puntuta e sgradevole" che emergeva invece, con puntualità, dalla pagina scritta. Insomma, da materia simile Marco Ferreri avrebbe cavato una variazione sui temi de "L'ape regina"; Virzì pare preferire, al contrario, il terreno di talune fiction televisive.

E' un peccato, perché la prima parte della pellicola, sostenuta da un gran ritmo e da interpreti adeguati - Luca Marinelli conferma la buona impressione suscitata dalla sua prova ne "La solitudine dei numeri primi", la cantautrice siciliana Thony fa un convincente debutto come attrice - promette molto; poi, la storia perde d'interesse e si disperde in mille rivoli (la visita dei genitori di lei, francamente pleonastica) pure disomogenei sotto il profilo stilistico (si veda la parte in ospedale, con toni quasi slapstick che stridono con tutto il resto). Insomma, esiti diseguali che lasciano alquanto interdetti, conoscendo l'indubbio talento del nostro. Oppure, chissà, Virzì è soltanto il Monicelli che si meritano la società capitalistica odierna e i mezzi di comunicazione di massa: per adeguarsi ai parametri obbligati del successo e del consumo, mortifica la propria vena più autentica, smorza i cattivi pensieri
e simula di credere che omnia vincit amor.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

TUTTI I SANTI GIORNI. REGIA: PAOLO VIRZI'. INTERPRETI: LUCA MARINELLI, THONY, MICOL AZZURRO. DISTRIBUZIONE. 01. DURATA: 102 MINUTI.



lunedì 8 ottobre 2012

Le belve

Laguna Beach, California del Sud. Gli amici per la pelle Ben e Chon, reduce dall'Afghanistan il primo, intellettuale pacifista il secondo, si dividono tutto, nella vita. Innanzitutto, il commercio di marijuana, la migliore qualità disponibile sul mercato; inoltre la fidanzata O, abbreviativo di Ophelia, oltre che di orgasmo. Ma in un sistema di capitalismo avanzato, ovviamente, una simile attività economica non può restare a lungo in sordina. La loro celebrata erba finisce per attirar l'attenzione del Cartello dei trafficanti messicani di Bahia, capeggiato dalla spietata Elena "La Reyna": per costringere il duo a lavorare per lei, la donna fa rapire O e lascia briglia sciolta al più sadico dei suoi scagnozzi, Lado. E' l'inizio di una guerra senza esclusione di colpi, proprio sotto gli occhi dell'ambiguo agente dell'antidroga Dennis...

Girato in economia per i canoni hollywoodiani (solo 40 milioni di dollari), "Le belve" prende le mosse dall'iperviolento - Stone ha dovuto comprarne i diritti in prima persona, poiché gli studios lo ritenevano  troppo sanguinario - romanzo omonimo dell'ex detective Don Winslow (da noi lo pubblica Einaudi). Siamo dalle parti, lo si sarà capito, dell'universo letterario d'un James Ellroy, pane per i denti del regista di "Assassini nati" (1994) e "UTurn - Inversione di marcia" (1997): e difatti, anche stilisticamente, i vezzi del nostro - alterazioni di colore, saturazioni, passaggi al bianco e nero, immagini da webcam e cellulari - ci sono tutti.

Mix parossistico di generi, noir e thriller, love story e snuff movie, "Le belve" - pur imperfetto - è l'esito migliore dello Stone più recente. Sostenitore della liberalizzazione delle droghe leggere, nostalgico dello spirito sessantottino, il cineasta newyorkese mette in scena una ballata iperbolica e lisergica punteggiata di sangue e di morti, sorta di mix fra "Bonnie and Clyde" (1967) ed "Alice's restaurant" (1969). Tutto sopra le righe, volutamente e, a tratti, gioiosamente; con pungenti caratterizzazioni dei personaggi (la palma del migliore va, a nostro avviso, all'imbolsito e tuttavia scintillante Travolta nel ruolo di Dennis), sequenze survoltate quanto imprevedibili (il rutilante scioglimento, che ammicca a "Duello al sole" prima di distendersi in un atipico happy end), un clima generale da West Coast d'antan - il rapporto che lega i protagonisti ad O pare visualizzare un classico d'epoca di David Crosby, "Triad" - che riscalda il cuore dei nostalgici, e speriamo non soltanto il loro.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LE BELVE. REGIA: OLIVER STONE. INTERPRETI: TAYLOR KITSCH, AARON TAYLOR- JOHNSON, BLAKE LIVELY, SALMA HAYEK, BENICIO DEL TORO, JOHN TRAVOLTA, EMILE HIRSCH. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 131 MINUTI.

giovedì 4 ottobre 2012

Killer Joe


Il ventiduenne Chris Smith è un piccolo spacciatore, al quale la madre ha rubato la droga andandosene con un altro uomo. I fornitori gli stanno alle calcagna e lui non saprebbe come fare fronte al debito, se non venisse a sapere che la mamma ha una polizza sulla vita da 50.000 dollari. D'accordo con il padre, la di lui nuova donna e la sorellina decidono d'ingaggiare il fascinoso sicario Killer Joe - un poliziotto che arrotonda la paga con delitti su commissione - per uccidere la genitrice ed incassare il denaro. Non potendo, però, pagare la somma di 25.000 dollari richiesti in anticipo dall'assassino su commissione, Chris accetta di dargli quale caparra la sorella minore Dottie, nell'attesa d'incassare i soldi dell’assicurazione. Joe porta a termine la missione, ma si scopre che a prendersi tutto il malloppo sarà il nuovo fidanzato della morta...

Tratto da una piéce teatrale di Tracy Letts, "Killer Joe" è una commedia pulp nera e cinica, a metà strada fra gli allegri massacri di Tarantino e l'ironia sulfurea dei fratelli Coen. Sono, questi, semplici punti di riferimento, ché il quasi ottantenne William Friedkin non ha davvero bisogno di numi tutelari: per un'intera carriera in bilico tra alto artigianato e finezze autoriali, egli è cineasta quasi cartesiano nel suo mettersi al servizio della storia e nel non lasciar tregua allo spettatore (si pensi a "Vivere e morire a Los Angeles": che è, insieme a questo, il suo risultato migliore, oltre a quello che più gli si avvicina per l'iperrealistico pessimismo).

Lo sfondo è tra i protagonisti della vicenda narrata: un Texas assolato e deprimente, abitato da redneck ottusi e sovente poveri, privi di valori che non siano la preghiera collettiva prima del desinare, di legge che non sia quella del dollaro. E' l'egoismo, la rapacità a guidarli: non esistono legami familiari che tengano, amicizie che valgano o ruoli che garantiscano. Dietro l'uomo di legge si cela il delinquente, dietro il fratello un sensale dei favori sessuali della sorella, dietro il padre uno che sacrifica il figlio per salvarsi la ghirba. Traditori di tutti, direbbe Scerbanenco, gente comune che può farti fuori da un minuto all'altro senza che tu neppure ne immagini il motivo.

In questo universo totalmente negativo, si muovono figure indimenticabili: la ragazzina Dottie, ad esempio, con l'ambiguità di una Lolita ed il candore d'una Cenerentola; o Killer Joe (un superlativo Matthew McConaughey; ma il cast tutto, precisiamolo, fa faville), non sai sino a che punto sbirro infedele, psicopatico ossessivo, pervertito sessuale. Friedkin rappresenta ciascuno evitando la scorciatoia d'uno sguardo "morale", che temi tuttavia venga recuperato al termine: invece nulla, il convulso scioglimento segna solo un ulteriore precipitar nel caos, tra cosce di pollo brandite a mo' di membri virili, scoperchiamenti di verità malcelate, colpi di pistola all'impazzata. Sotto un cielo indifferente; posto che esista, da quelle parti, un cielo.
                                                                                                                                        Francesco Troiano

KILLER JOE. REGIA: WILLIAM FRIEDKIN. INTERPRETI: MATTHEW McCONAUGHEY, EMILE HIRSCH, JUNO TEMPLE. DISTRIBUZIONE: BOLERO FILM. DURATA: 100 MINUTI.

mercoledì 3 ottobre 2012

Cogan

New Orleans, 2008. Mentre la sfida per le presidenziali tra Obama e McCain è nella sua fase più calda, con radio e televisioni impegnate a render conto del duello, due giovani delinquenti di mezza tacca - ma sicuri d'esser in gamba - rapinano una partita di poker pensando che la colpa ricadrà sul gestore, di già sospetto agli occhi della mafia. I capi di quest'ultima, per scoprire i colpevoli e far recuperare il denaro sottratto, scelgono di rivolgersi ad un assassino professionista, Jackie Cogan. Poiché una delle persone da eliminare lo conosce, il killer assolda a sua volta un collega, Mickey. Costui si rivela, però, schiavo dell'alcol e tormentato da problemi personali; talché il nostro decide, alla fine, di fare tutto da solo...

Non si può certo dire che il neozelandese Andrew Dominik sia un cineasta prolifico: tre film in dodici anni, il notevole "Chopper" (2000), il crepuscolare "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford" (2007) e, ora, questo "Cogan" (2012). Pur in un numero così limitato di opere, il suo stile è riuscito a farsi strada, le sue peculiarità a imporsi: attenta caratterizzazione psicologica dei personaggi, narrazione piana intervallata da repentini attimi di ferocia, una forte propensione ad affrontare in modo critico il capitalismo ed i suoi meccanismi. Sono dette caratteristiche, probabilmente, ad aver spinto Pitt - qui protagonista - a dargli fiducia, sino al punto da coprodurre il film.

"Cogan" è tratto dall'omonimo romanzo scritto nel 1974 da George V.Higgins: "maestro di stile" secondo Elmore Leonard, "uno dei grandi innovatori del crime" per Scott Turow, egli ha esordito con il magistrale "Gli amici di Eddie Coyle" (1972), portato sul grande schermo l'anno dopo da Peter Yates. Per molti anni procuratore distrettuale prima d'intraprendere la carriera di scrittore, Higgins - nella trentina di romanzi e nelle due raccolte di racconti usciti a sua firma - ha esaminato con lucida precisione tecniche e linguaggio delle infrastrutture criminali, sovente inserendoli nel contesto di
un più ampio sistema di soprusi e malversazioni, dominato dalla bramosia del denaro.

La polemica anticapitalistica, che fa di "Cogan" un film marxista nei significati ultimi e brechtiano nell'esposizione ("che cos'è la rapina di una banca al confronto della fondazione di una banca?", si chiedeva il drammaturgo tedesco), corre lungo tutta la vicenda, per farsi esplicita nella conclusione (memorabile il monologo di Pitt contro Thomas Jefferson, ambiguo "padre della patria"). Merito di Dominik è quello di aver saputo inserire la sua invettiva politica - che sottolinea con amarezza il fallimento del nuovo sogno obamiano - in una solida struttura di "noir", con tanto di scene action
e survoltati momenti di violenza, conseguenti ad uno scenario di disincanto e dissoluzione etica.

Cast strepitoso, infine. Pitt guida le danze, disegnando la figura di Cogan con sfumature e sottotoni; Ray Liotta è abile a restar sospeso tra stupefazione e furbizia; Gandolfini, infine, rende memorabile il suo personaggio, impasto di dolore e volgarità, giocando pressoché da fermo, con mimica imbattibile.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

COGAN. REGIA: ANDREW DOMINIK. INTERPRETI: BRAD PITT, JAMES GANDOLFINI, RAY LIOTTA, RICHARD JENKINS, BEN MENDELSOHN. DISTRIBUZIONE: EAGLE. DURATA: 97 MINUTI.
                                                                                                                                                      

martedì 2 ottobre 2012

Un giorno speciale

Oltre la periferia romana, in uno sperduto quartiere fuori dal raccordo anulare, Gina si sta preparando ad un appuntamento per lei importante: deve incontrare un parlamentare che potrebbe procurarle un posto alla televisione. Marco è, invece, l'autista inviato da quest'ultimo per accompagnare la ragazza: anch'egli di origini umili, è al suo primo giorno di lavoro e, quindi, ugualmente emozionato un poco.
Un intoppo - il politico è impegnato in una lunga seduta, tutto viene rinviato ad un orario imprecisato - consente ai due giovani di conoscersi meglio. Pian piano, vinta l'iniziale diffidenza, essi entrano in sintonia, finendo per recuperare l'allegria, la sventatezza lieve proprie dell'età. Sembra poter nascere qualcosa fra loro, ma il telefono squilla perentorio: è ora di andare, l'incontro può realizzarsi. Di poi, scesa la notte, le distanze che parevano essersi colmate ridiventano siderali: in un breve lasso di tempo, le loro esistenze sono mutate. Per sempre?

Nel pamorama dei cineasti indigeni, Francesca Comencini occupa un posto alquanto peculiare. Dal tempo dell'esordio ("Pianoforte", 1984), pur avendo lei diretto pochi lungometraggi di fiction, ha dato vita a una filmografia ricca: diversi sono, infatti, i documentari da lei firmati, che testimoniano d'una passione civile oramai desueta. Basti citare "Carlo Giuliani, ragazzo" (2002), analisi toccante d'una morte ingiusta e vergognosa, o "In fabbrica" (2007), ricostruzione delle lotte operaie realizzata con materiali delle Teche Rai. Non bastasse, Francesca rientra pure nel ristretto numero di cineasti che affrontano di petto l'Italia contemporanea: più ancora di "Mi piace lavorare" (2004), si pensi ad "A casa nostra" (2006), dove l'indignazione per il degrado del tessuto morale del paese va, in maniera esemplare, di pari passo con la capacità di narrare varie storie, intrecciandole in maniera credibile.

A maggior ragione, duole ora dire che con "Un giorno speciale" la regista romana è incappata in un autentico infortunio. Adattando un romanzo di Claudio Bigagli, "Il cielo con un dito" (Garzanti), ha cercato di raccontare una vicenda tipica della contemporaneità di casa nostra: all'uopo, eleggendo a protagonisti due figli della precarietà, indecisi fra la ricerca del colpo di fortuna ad ogni costo ed il richiamo ad un modo più etico e gioioso di vivere la propria giovinezza. L'idea non era, in verità, peregrina, e nei primi venti minuti pare realizzarsi secondo moduli spiazzanti: dalla vestizione della ragazza, quasi solenne come quella del Papa nel "Galileo" di Brecht, all'abboccamento fra due persone così vicine così lontane, tra ritrosie e piccole ansie: il tutto, filtrato da un montaggio che sta sui personaggi con tenerezza, come se volesse carezzarli. Purtroppo, il prosieguo si smarrisce tra situazioni prevedibili o già vedute, la lingua si fa artificiosa proprio inseguendo una problematica naturalezza, finanche i personaggi hanno un che di stereotipato che l'incipit non lasciava presagire.

L'amarezza dello scioglimento fa riprendere qualche punto al film (ma il repentino gesto di rivolta di Marco suona narrativamente poco credibile), che resta comunqe tra i meno riusciti della Comencini. Le interpretazioni, come tutto il resto, non persuadono più di tanto: così convincente nell'esordio di Francesco Bruni, "Scialla!", Filippo Scicchitano qui sembra non a suo agio in un personaggio che non padroneggia fino in fondo e di cui, forse, stenta ad inquadrare la psicologia; meglio Giulia Valentini, la cui atipica beltà sottolinea a dovere l'ambiguità sofferta, a volte financo struggente, di Gina.
                                                                                                                                    Francesco Troiano 

UN GIORNO SPECIALE. REGIA: FRANCESCA COMENCINI. INTEPRETI: FILIPPO SCICCHITANO, GIULIA VALENTINI. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 90 MINUTI.