sabato 30 agosto 2014

Anime nere

Tre fratelli, di origini calabresi, i Carbone: Luigi, il più giovane, è trafficante internazionale di droga e vive tra l'Olanda e Milano; Rocco, dal profilo borghese, occupa una zona grigia, dato ch'è diventato imprenditore riciclando i soldi sporchi di Luigi; Luciano, il maggiore, rimasto nella terra natale, coltiva l'illusione d'una Calabria preindustriale, ha un gregge di capre e vorrebbe che la famiglia tutta si tirasse fuori dalla deriva criminale che l'avvolge da tempo (il padre dei tre, infatti, fu ucciso nel corso di una faida da una famiglia rivale). Purtroppo, è proprio suo figlio Leo a far scoccare una pericolosa scintilla, compiendo un atto intimidatorio contro un bar protetto dal clan a loro ostile. In qualunque altro posto al mondo, si tratterebbe d'una ragazzata e niente più; in terra d'Aspromonte, è l'inizio d'una vera e propria guerra, che dilaga sino a procurare un tragico epilogo per i protagonisti.

Romano, classe 1969, Francesco Munzi è stato capace d'imporsi all'attenzione della critica dirigendo due sole pellicole. Con "Saimir" (2004, premiato a Venezia con una menzione per l'opera prima), già mostrava una notevole maturità registica, narrando la vicenda d'un adolescente albanese sospeso fra la dura realtà quotidiana e il sogno di una vita normale, con stile finitimo a quello dei Dardenne ma, pure, con l'occhio alla miglior tradizione hollywoodiana (quella dello Scorsese di "Taxi Driver", per capirci). A differenza di tante altre seconde prove, "Il resto della notte" (2008) non delude né arretra rispetto alle speranze suscitate con l'esordio: dalla costa laziale del film precedente si passa, qui, a una Torino dove i ricchi se ne stanno, costretti dalla paura, nelle loro ville, e gli immigrati poveri sono forzati alla scelta fra marginalità sociale e violenza. Il racconto è asciutto, evita populismo e schematismi sociologici, appare intriso d'un profondo pessimismo.

In concorso alla Mostra di Venezia, "Anime nere" adatta con libertà l'omonimo romanzo di Gioacchino Criaco. Girato coraggiosamente nella zona fra Africo, Platì e San Luca ( provincia di Reggio Calabria), in paesi cioè considerati centri nevralgici della 'ndrangheta, il film inscena una criminalità dissimile da quella di solito mostrata al cinema ("I miei personaggi sono colti, hanno studiato all'università, non sono i gangster raffigurati dalla camorra, anzi è gente camaleontica"). Può risultar in qualche modo straniante che una zona tanto selvaggia sia luogo in cui transita un tale fiume di denaro e droga: uno dei frutti della globalizzazione, la presenza del malaffare in un microcosmo così ristretto. E' qui che Munzi gioca le sue carte migliori, mostrando il mutamento antropologico dei propri personaggi incrociarsi con una ferocia antica, dalle profonde radici. Misurato nel ritmo, ma con delle cadenze che si rifanno in modo manifesto agli stilemi del western, lo svolgimento coinvolge e, nello stesso tempo, favorisce la riflessione: il finale - che pare memore di quello devastante del "Fratelli" (1996) di Abel Ferrara - non lascia margine per la speranza, ma è forse l'unico possibile per figure finanche cresciute sotto la cappa caliginosa di thanatos.
                                                                                                                                     Francesco Troiano