martedì 26 aprile 2016

Lo stato contro Fritz Bauer

Francoforte, fine anni '50. Fritz Bauer, procuratore generale di origini ebree, socialdemocratico, con dei trascorsi omosessuali, si batte per perseguire i criminali nazisti rimasti impuniti, in un periodo nel quale la Germania inseguiva il benessere e voleva non ricordare il passato. Nel corso della propria caccia, il nostro apprende che Adolf Eichmann, ex-tenente colonnello delle SS responsabile della deportazione di massa degli ebrei, vive sotto falso nome a Buenos Aires. L'impresa di riportarlo in patria per venire processato si rivela, però, assai improba perché ostacolata da quella parte dei poteri - dalla politica alla magistratura, dai servizi segreti alla polizia - in mano a degli ex-nazisti formalmente convertitisi al verbo della democrazia. Non potendo fidarsi della nomenclatura del proprio paese, Bauer - divenuto oggetto di minacce e bersaglio di depistaggi - ne organizza la cattura da parte del Mossad israeliano con l'aiuto d'un giovane procuratore, commettendo così il reato di alto tradimento...


Cominciano a esser molte le pellicole che ricostruiscono la realtà del passato, incursioni nella memoria che raccontano storie vere dentro i canoni del thriller o del noir. Apripista, probabilmente, è stato "Le vite degli altri" (2006), nel quale l'incubo di vivere nella DDR sotto l'occhiuto controllo della famigerata polizia segreta, la Stasi, era stato reso magistralmente. Per arrivare all'oggi, è da poco transitato nelle sale "Il labirinto del silenzio", del regista di origini italiane Giulio Ricciarelli, culminante nel processo di Auschwitz del 1963, il primo tedesco ai nazisti, istruito giusto da Fritz Bauer - che nella fattispecie però non è il protagonista - dopo ricerche protrattesi per anni.



L'approccio scelto dal regista Lars Kraume - nato a Chieti, ma cresciuto a Francoforte sul Meno - per "Lo stato contro Fritz Bauer" è tradizionale: d'impianto e di narrazione classica, il film trova la propria forza nell'interesse storico del soggetto e nell'interpretazione di Burghart Klaussner, che veste i panni di Bauer. A parte la somiglianza fisica, l'attore dipinge con maestria il ritratto d'un personaggio dai tratti burberi, a volte di tagliente ironia, ma di elevata statura morale, tenace ed intelligente. Il rapporto del protagonista - affettuoso, ma solo professionale - con il giovane procuratore, anch'egli omosessuale e innamorato d'un travestito star in un cabaret, è delineato con gran delicatezza: l'anziano superiore si limita a dirgli che deve lasciar perdere, "perché il prezzo da pagare è molto alto" (nella RFT, all'epoca, il paragrafo 175 del codice civile considerava "le pratiche lascive" tra uomini un reato, da scontare con il carcere). All'apparenza notarile, lo stile registico è, di contro, assolutamente adeguato alla materia, rendendo a meraviglia il grigiore e la mediocrità della stagione adenaueriana, tutt'uno con il desiderio d'oblio di una nazione incapace d'affrontare i sensi di colpa. Nel vedere l'anziano procuratore ed il suo volenteroso assistente chini sulle carte, determinati nel perseguire i propri obiettivi, tuttavia consapevoli di fare in primo luogo il proprio dovere, non si può che concludere con Brecht: "Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi".

                                                                                                                                     Francesco Troiano


LO STATO CONTRO FRITZ BAUER. REGIA: LARS KRAUME. INTERPRETI: BURGHART KLAUSSNER, RONALD ZEHRFELD, ROBERT ATZORN. DISTRIBUZIONE: CINEMA. DURATA: 105 MINUTI. 

domenica 17 aprile 2016

Truman

Julian, attore argentino che vive e lavora da lungo tempo a Madrid, è affetto da un cancro che sembra refrattario ad ogni trattamento: persino l'esito della chemioterapia non ha soddisfatto il paziente. Il suo miglior amico Tomas, madrileno trasferitosi in Canada, affronta un lungo viaggio per portare conforto al sodale. Egli ha solo quattro giorni da trascorrere con Julian, ed è consapevole che a quest'ultimo resta ben poco tempo da vivere: entrambi, tuttavia, non si piegano alle logiche dell'addio, preferendo invece entrare assieme in quella specie di spaesamento che sempre precede la dipartita, e che necessita pure di decisioni pratiche non ulteriormente rinviabili. Una su tutte è di grande difficoltà per il morituro: riguarda Truman, il proprio adorato cane, per il quale andrà trovata una soddisfacente sistemazione, dato che il suo padrone non potrà più occuparsene. E persino in ciò, Tomas non lascerà nelle ambasce l'amico di una vita, costi quel che costi...

Presentato al Festival di Toronto, "Truman" è un film difficilmente definibile. Non che manchino esempi di pellicole sull'elaborazione della scomparsa: da "Love Story" (1970) di Arthur Hiller a "Quel fantastico peggior anno della mia vita" (2015) di Alfonso Gomez-Rejon, passando per "L'amore che resta" (2011) di Gus Van Sant, "50 e 50" (2011) di Jonathan Levine e "Colpa delle stelle" (2014) di John Boone, l'elenco potrebbe essere lungo. Quello che rende la fatica di Cesc Gay diversa da tutti e, in qualche modo, memorabile, è il tono, che qui davvero fa la canzone. Raccontare gli ultimi giorni di un uomo senza pietismo o retorica dei sentimenti è impresa titanica, però il regista spagnolo va in souplesse, commuovendoci profondamente e facendoci sorridere, nonché riflettere sull'amicizia e sull'importanza degli affetti (la figura di Truman, il bullmastiff che pare comprendere quanto sta succedendo, è una trovata straordinaria). Inoltre, senza darlo a vedere, la pellicola è una riflessione su quanto l'imminenza della fine cambi l'ordine delle nostre priorità: l'estroso e bohémien Julien - separato, un figlio, una vita piena e un po' spregiudicata, vissuta all'insegna della leggerezza - scopre in sé le doti del pragmatismo e della responsabilità, un tempo appannaggio esclusivo di Tomas; ed il secondo, girovagando per la città insieme all'amico, si scopre duttile e disposto a piccole eccentricità, nel corso delle varie avventure urbane che affronta. 


Cesc Gay racconta la vicenda di Truman con eguale onestà e franchezza, dando vita a un gruppetto di caratteri credibili e che non si può fare a meno di amare: al punto che separarsi da loro sarà arduo per lo spettatore, quanto lo è per Tomas staccarsi da Julian, e viceversa. La sceneggiatura non cede di una virgola alle tentazioni della furbizia, non si dedica alla facile e fruttuosa esazione della lacrima a buon mercato, ma sta sui personaggi ricordandoci che ciascuno muore come può, e coloro che gli stanno intorno dovrebbero semplicemente accettarlo. Naturalmente questo eccellente risultato deve molto ad una coppia di interpreti di alta classe: Ricardo Darin nei panni di Julian e Javier Camara in quelli di Tomas sono strepitosi, davvero unici nel portarci nel cuore della storia e del dolore, senza mai farci smarrire. Si esce rasserenati, dalla visione di "Tomas", e innamorati di un cinema che si pensava scomparso: capace di mettere in scena la natura umana nella sua essenza, in punta di cinepresa e senza scordare l'importanza d'un sorriso.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

TRUMAN. REGIA: CESC GAY. RICARDO DARIN, JAVIER CAMARA. DISTRIBUZIONE: SATINE. DURATA: 108 MINUTI.
 

mercoledì 13 aprile 2016

Mistress America

Tracy Fishko, matricola al college ed aspirante scrittrice, si è appena trasferita a New York, dopo l'annuncio di un nuovo matrimonio di sua madre. Mentre combatte per far parte d'un prestigioso circolo letterario e vorrebbe far innamorare il nerd che ha cominciato a frequentare, prende contatto con Brooke, la futura sorellastra che dovrebbe darle una mano ad ambientarsi nella Grande Mela. Trascinata dai ritmi e dall'entusiasmo di quest'ultima, Tracy cambia passo e si lascia coinvolgere nel vorticoso vivere della giovane donna che - tra i mille progetti coltivati - ha quello di aprire un ristorante "familiare" e moderno a Williamsburg. Se Brooke abbisogna di danaro per poter raggiungere il proprio obiettivo, Tracy necessita di Brooke per scrivere una sorta di racconto dell'esistenza: amica sincera quanto logorroica, la prima senza accorgersene fornisce a Tracy la vicenda per accedere al circolo. Quando Brooke disvela il progetto della parente neoacquisita, la loro sintonia rischia di frantumarsi ed i rispettivi desideri di entrare in rotta di collisione...

Al suo nono lungometraggio (solo cinque, però, sono approdati in Italia), Noah Baumbach riprende le fila del precedente "Giovani si diventa" (2014) e, girando una commedia di amicizia interpretata meravigliosamente dalla sua musa Greta Gerwig - anche sceneggiatrice - e da Lola Kirke, chiude una trilogia agrodolce incentrata sulle relazioni vissute dai rappresentanti della tarda giovinezza della generazione X. "Mistress America", in particolare, si lega al primo pannello del trittico, "Greta Ha" (2012), dove una 27enne danzatrice precaria - abbandonata per un uomo dalla convivente ed amica del cuore - si vede obbligata a coabitare con due coetanei radical chic. Adesso, qui, il personaggio centrale -  Brooke, per intenderci - si ostina a cercare il proprio posto ed a pretendere la felicità che ritiene di meritare, come in un racconto rohmeriano. Entrambe inadeguate, seppure in modi differenti, ad accedere all'età adulta, Brooke e Tracy indossano al mattino una maschera da vincenti e mai se ne disfano nel corso della giornata: un espediente che le trasforma in valide incassatrici dei colpi della vita, conservando un vigore a tratti commovente. 

Se per consuetudine sono i vecchi a vampirizzare i giovani, Baumbach rovescia le carte e mette in scena un percorso che include l'impiego da parte della ragazzina di ogni mezzo per giungere ai propri fini. Poggiato su una sceneggiatura scintillante, con un rimpallo delle battute tanto felice da rimandare alla screwball comedy (si potrebbe fare una tesi di laurea sull'evoluzione del personaggio femminile picchiatello, che giunge a Brooke partendo dalla Susanna di Howard Hawks, poi passando per la Judy di "Ma papà ti manda sola?" di Bogdanovich e la Annie Hall di Woody Allen), "Mistress America" rappresenta la "crisi" - nella medicina antica, la fase cruciale del decorso di una malattia, quella in cui si decide la guarigione o la morte - di esistenze precarie e talentuose, che danzano in scioltezza sull'orlo del precipizio (solo un piccolo colpo di fortuna evita a Brooke di venire, alla conclusione, risucchiata dai debiti).  

Ritrattista tragi-comico, tagliente e verboso in sintonia con la propria sodale, Noah Baumbach conferma il proprio talento nel disegnar figure femminili sfaccettate e contemporanee, che si sbattono per restare al passo con i tempi ed ansimano pur di non rinunciare ai propri propositi: magari non sanno bene quello che desiderano, però lo desiderano tanto. I punti di riferimento sono, per certo, Woody Allen e François Truffaut (dell'influenza di Rohmer, s'è già accennato): i caratteri maschili prendono dalla tradizione ebraica dello schlemiel, laddove quelli femminili sono contrassegnati dal carisma di Greta Gerwig, attrice modernissima e rétro nello stesso momento, impagabile nel racchiudere lo spirito di un'epoca e nel tratteggiare, con pochi gesti, personaggi indimenticabili. Le donne di Baumbach assomigliano alle alleniane sorelle di Hannah, è vero, ma il magistero del nostro riesce ad aggiornarle, sfuggendo alla tentazione del cinismo e facendo dei propri lavori altrettanti block-notes di appunti antropologici, financo etnografici. Se l'America cambia (come dice nel finale Tracy), egli schizza con elegante malinconia i tratti delle estreme rappresentanti della resistenza, delle Brooke destinate a salvarsi grazie alla propria disarmante sincerità.
                                                                                                                                                                                       Francesco Troiano

MISTRESS AMERICA. REGIA: NOAH BAUMBACH. INTERPRETI: GRETA GERWIG, LOLA KIRKE, NAT BALDWIN, JULIET BRETT. DISTRIBUZIONE: FOX. DURATA: 84 MINUTI.

Mistress America

Tracy Fishko, matricola al college ed aspirante scrittrice, si è appena trasferita a New York, dopo l'annuncio di un nuovo matrimonio di sua madre. Mentre combatte per far parte d'un prestigioso circolo letterario e vorrebbe far innamorare il nerd che ha cominciato a frequentare, prende contatto con Brooke, la futura sorellastra che dovrebbe darle una mano ad ambientarsi nella Grande Mela. Trascinata dai ritmi e dall'entusiasmo di quest'ultima, Tracy cambia passo e si lascia coinvolgere nel vorticoso vivere della giovane donna che - tra i mille progetti coltivati - ha quello di aprire un ristorante "familiare" e moderno a Williamsburg. Se Brooke abbisogna di danaro per poter raggiungere il proprio obiettivo, Tracy necessita di Brooke per scrivere una sorta di racconto dell'esistenza: amica sincera quanto logorroica, la prima senza accorgersene fornisce a Tracy la vicenda per accedere al circolo. Quando Brooke disvela il progetto della parente neoacquisita, la loro sintonia rischia di frantumarsi ed i rispettivi desideri di entrare in rotta di collisione...

Al suo nono lungometraggio (solo cinque, però, sono approdati in Italia), Noah Baumbach riprende le fila del precedente "Giovani si diventa" (2014) e, girando una commedia di amicizia interpretata meravigliosamente dalla sua musa Greta Gerwig - anche sceneggiatrice - e da Lola Kirke, chiude una trilogia agrodolce incentrata sulle relazioni vissute dai rappresentanti della tarda giovinezza della generazione X. "Mistress America", in particolare, si lega al primo pannello del trittico, "Greta Ha" (2012), dove una 27enne danzatrice precaria - abbandonata per un uomo dalla convivente ed amica del cuore - si vede obbligata a coabitare con due coetanei radical chic. Adesso, qui, il personaggio centrale -  Brooke, per intenderci - si ostina a cercare il proprio posto ed a pretendere la felicità che ritiene di meritare, come in un racconto rohmeriano. Entrambe inadeguate, seppure in modi differenti, ad accedere all'età adulta, Brooke e Tracy indossano al mattino una maschera da vincenti e mai se ne disfano nel corso della giornata: un espediente che le trasforma in valide incassatrici dei colpi della vita, conservando un vigore a tratti commovente. 

Se per consuetudine sono i vecchi a vampirizzare i giovani, Baumbach rovescia le carte e mette in scena un percorso che include l'impiego da parte della ragazzina di ogni mezzo per giungere ai propri fini. Poggiato su una sceneggiatura scintillante, con un rimpallo delle battute tanto felice da rimandare alla screwball comedy (si potrebbe fare una tesi di laurea sull'evoluzione del personaggio femminile picchiatello, che giunge a Brooke partendo dalla Susanna di Howard Hawks, poi passando per la Judy di "Ma papà ti manda sola?" di Bogdanovich e la Annie Hall di Woody Allen), "Mistress America" rappresenta la "crisi" - nella medicina antica, la fase cruciale del decorso di una malattia, quella in cui si decide la guarigione o la morte - di esistenze precarie e talentuose, che danzano in scioltezza sull'orlo del precipizio (solo un piccolo colpo di fortuna evita a Brooke di venire, alla conclusione, risucchiata dai debiti).  

Ritrattista tragi-comico, tagliente e verboso in sintonia con la propria sodale, Noah Baumbach conferma il proprio talento nel disegnar figure femminili sfaccettate e contemporanee, che si sbattono per restare al passo con i tempi ed ansimano pur di non rinunciare ai propri propositi: magari non sanno bene quello che desiderano, però lo desiderano tanto. I punti di riferimento sono, per certo, Woody Allen e François Truffaut (dell'influenza di Rohmer, s'è già accennato): i caratteri maschili prendono dalla tradizione ebraica dello schlemiel, laddove quelli femminili sono contrassegnati dal carisma di Greta Gerwig, attrice modernissima e rétro nello stesso momento, impagabile nel racchiudere lo spirito di un'epoca e nel tratteggiare, con pochi gesti, personaggi indimenticabili. Le donne di Baumbach assomigliano alle alleniane sorelle di Hannah, è vero, ma il magistero del nostro riesce ad aggiornarle, sfuggendo alla tentazione del cinismo e facendo dei propri lavori altrettanti block-notes di appunti antropologici, financo etnografici. Se l'America cambia (come dice nel finale Tracy), egli schizza con elegante malinconia i tratti delle estreme rappresentanti della resistenza, delle Brooke destinate a salvarsi grazie alla propria disarmante sincerità.
                                                                                                                                                                                       Francesco Troiano

MISTRESS AMERICA. REGIA: NOAH BAUMBACH. INTERPRETI: GRETA GERWIG, LOLA KIRKE, NAT BALDWIN, JULIET BRETT. DISTRIBUZIONE: FOX. DURATA: 84 MINUTI.

giovedì 7 aprile 2016

Una notte con la regina

Londra. E' la sera dell'8 maggio 1945, giornata del trionfo degli Alleati sulla Germania nazista. Mentre Giorgio VI si appresta a parlare alla nazione via radio, sforzandosi di vincere la propria balbuzie, la folla si riversa festante per le strade: nelle piazze della capitale inglese si canta, si balla, si dà libero sfogo alla propria euforia. Pure le principesse Elizabeth - futura regina Elisabetta II - e sua sorella Margaret sentono il richiamo della gioia esplosa per le vie, e vorrebbero tanto unirsi alle persone comuni: la loro mamma, Elisabetta I, è decisamente contraria, ma papà Giorgio acconsente a far andare le ragazze al ballo che si terrà all'Hotel Ritz, scortate da due guardie reali. Tuttavia, appena approdate in albergo, Margaret, la più intraprendente fra le due, riesce ad eludere la sorveglianza degli chaperon ed a sgattaiolare fuori, tuffandosi nell'avventura, nell'imprevisto. Ad Elizabeth, la più grande, non resta che mettersi sulle tracce della fuggitiva, dopo aver depistato pure lei le guardie... 

Traendo ispirazione da un episodio realmente accaduto (l'uscita di Elizabeth e Margaret, all'epoca di soli 19 e 14 anni, dalla residenza reale la sera della vittoria per recarsi al ballo del Ritz), "Una notte con la regina" ricama sull'accadimento con qualche libertà - gli accompagnatori imposte alle giovani di sangue reale erano ben sedici, le giravolte della trama sono quasi tutte inventate, Elizabeth portava per non farsi riconoscere una divisa da ausiliaria, della quale qui resta solo il berretto - e si snoda fra un inseguimento in autobus, la sosta in un bordello e l'incontro tra Elizabeth ed un giovane aviatore, Jack, ignaro di avere a che fare con una principessa (come il giornalista di "Vacanze romane", a cui non poco questo film s'ispira). Chiedendo parecchio alla sospensione dell'incredulità (in ispecie per quanto concerne le due guardie reali, dedite all'alcool e alle donne di facili costumi), la pellicola è una gustosa, garbata rievocazione di un'epoca assai lontana, venata di nostalgia, pure per un cinema più propenso al sogno.


Forte di una solida esperienza nel campo dei film realizzati per la tv, il regista Julian Jarrold mette una cura certosina nella ricostruzione d'ambiente, popolando lo schermo con centinaia di comparse in costume, così dando l'impressione della rappresentazione teatrale o della favola disneyana; tuttavia, conscio del rischio di rendere il tutto un'operazione anacronistica, modernizza la narrazione con dei dialoghi scattanti, ispirati alla tradizione delle sophisticated comedies degli anni '40, ciononostante carichi di malizie e sottintesi che appartengono all'oggi. Salvo, in sottofinale, far ritirare con pudore la cinepresa di fronte al bacio dato/non dato da Jack a Elizabeth. Sarah Gadon è una ingénue perfetta nei panni di Elizabeth; ma a tener banco in ogni scena è la scatenata Bel Powley, una Margaret incosciente e maliziosa, in bilico tra la bramosia di vita ed una tenerezza appena dissimulata. Rupert Everett è un re Giorgio di dolce fragilità, Emily Watson gli dà la replica con una saggia e severa Elisabetta I. Cinema per signore, forse; o, se preferite, quando di un film si dice "carino". Ma, per una volta, le due definizioni vanno lette al positivo, abbandonandosi al gioco.

                                                                                                                                     Francesco Troiano


UNA NOTTE CON LA REGINA. REGIA: JULIAN JARROLD. INTERPRETI: SARAH GADON, BEL POWLEY, RUPERT EVERETT, EMILY WATSON. DISTRIBUZIONE: TEODORA FILM. DURATA: 97 MINUTI.