lunedì 16 dicembre 2013

American Hustle

Il "caso Abscam" si tramutò in una complessa operazione nel 1978: con Melvin Weinberg, artista della truffa ossessionato dalla precisione, l'FBI collaborò al fine d'incastrare un gruppo di politici corrotti. Egli era tenuto sotto schiaffo dai federali: partecipare alla truffaldina impresa era, per lui, l'unico modo di evitare il carcere. A far da attori, i medesimi agenti dell'FBI; da esca, un impiegato governativo d'origini arabe nei panni d'un fantomatico petroliere, Karim Abdul Rahman, in cerca di affari, giuoco d'azzardo, danaro ed occidente ad Atlantic City. Il caso si concluse con l'arresto d'una ventina di persone, tra le quali sei membri della Camera dei rappresentanti, un membro del Senato statale del New Jersey, vari rappresentanti del Consiglio comunale di Philadelphia, un ispettore per l'immigrazione.

All'inizio di "American Hustle", sesto e più riuscito lungometraggio firmato da David O.Russell, una epigrafe ironica recita "qualcosa di tutto questo è accaduto veramente". Eh, sì, il cineasta newyorkese s'è preso qualche licenza nel trasporre la vicenda di cui ci racconta. I personaggi risultano dilatati (per interpretare la parte del truffatore, Irving Rosenfeld, Christian Bale s'è sentito nell'obbligo di prendere venti chili), involgariti (la sempre più strepitosa Jennifer Lawrence - moglie di Rosenfeld - si presenta per tutto il tempo sboccata e scollata, segnata da smalti e da un rossetto color sangue), o coi segni di una permanente serratissima (grande numero di Bradley Cooper, agente che vive con la madre e si riempie alla sera il capo di bigodini). In questo mondo kitsch e delirante, i personaggi si vestono con cappotti doppiopetto ad ampi revers, camicie fantasie con colli a punta, giacche bicolori.

Insomma, il talento del costumista Michael Wilkinson ha modo di rilucere nel dar vita ad un universo onirico, allucinato, all'insegna della sfrontatezza sessuale. Alla carica erotica della Lawrence risponde senza paura una ruggente Amy Adams (niente reggiseno, scollature verticali e sensualità da brividi), amante di Rosenfeld ma attratta dall'uomo dell'Agenzia (dell'adrenalinica scena di sesso in toilet tra lei e Cooper s'è già chiacchierato moltissimo). Quanto al plot del film, per dirla con le parole proprio del regista, "è pieno di buoni sentimenti anche se non manca di cattivi peccati". E ancora: "Considero la pellicola la terza parte d'una sorta di trilogia su gente che cerca di resuscitare, reinventarsi, rifarsi una vita".

Il tono, si sarà capito, oscilla di continuo tra la farsa e il dramma, un po' "La stangata", un po' "Argo". Quest'inafferrabilità del tutto, giocata all'insegna di un blend agrodolce che non si dissolve sino allo scioglimento, è tra gli atout dell'opera: dato che spiazza lo spettatore, lo frustra nelle sue attese con continui scarti ed impennate, con momenti imprevedibili (si veda la scena alcolica e delirante sulle note di "Delilah). A proposito, la colonna sonora - dalla ellingtoniana "Jeep's Blues" dell'inizio - è di quelle folgoranti, sospesa tra il romanticismo di "How Can You Mend a Broken Heart" dei Bee Gees e lo struggimento di "Goodbye Yellow Brick Road" di Elton John (menzione a parte per la "Live and Let Die" di Paul McCartney,  eseguita tra volgarità e malinconia da una stellare Jennifer Lawrence). La prova più intensa, si sarà capito, viene da lei: ma l'intiero cast, già citato in precedenza, si rivela formidabile al servizio di quello che è il primo capolavoro del 2014.
                                                                                                                                   Francesco Troiano

AMERICAN HUSTLE. REGIA: DAVID O.RUSSELL. INTERPRETI. CHRISTIAN BALE, AMY ADAMS, BRADLEY COOPER, JENNIFER LAWRNCE, JEREMY RENNER, ROBERT DE NIRO.
DISTRIBUZIONE. EAGLE PICTURES. DURATA: 135 MINUTI.

lunedì 2 dicembre 2013

Blue Jasmine

Jasmine, reginetta mondana di Park Avenue, era consorte del carismatico Hal, un uomo d'affari che la viziava e la lusingava oltre ogni limite. Ma il crac economico del marito, rivelatosi un truffatore, e la fine del loro matrimonio, l'hanno costretta ad abbandonare la propria vita agiata, in preda ad un crollo nervoso. Sola e in balìa degli antidepressivi, ella cerca aiuto e ospitalità nella modesta casa della sorellastra Ginger, a San Francisco. Il carico di disperazione e ansia che porta con sé la induce a spinger quest'ultima ad essere più ambiziosa in amore, scatenando le ire del di lei fidanzato Chili. Nel tentativo di trovare uno sbocco alla propria crisi, Jasmine dà pure il via alla relazione con un brillante diplomatico dalle grandi ambizioni politiche; ma l'incapacità di prender congedo dal proprio universo di smarrite illusioni e la malcelata mania di grandezza - sin dal suo nome, l'originale era un più banale Jeanette - la condurranno ad una nuova, dolorosa impasse...

Due sono, com'è noto, le corna dell'arte di Allen. Da una parte, troviamo commedie all'insegna della sua peculiare vis comica: in esse la confessione si fonde con l'umorismo, come nei migliori scrittori d'analisi, e nel rimpallo della battute guizza un'ironia che sa farsi, a tratti, finemente autodenigratoria. Dall'altra, v'è una vena drammatica - inaugurata dal poco apprezzato "Interiors" (1978), di elegante filiazione bergmaniana - che nel tempo s'è andata via via precisando, per dar infine corpo a un capo d'opera quale è "Crimini e misfatti" (1989) o a taglienti riflessioni morali di cui "Match Point" (2005) costituisce, nelle ultime stagioni, l'esempio più probante.

E' a questa seconda vocazione che risponde "Blue Jasmine", atteso dopo il controverso "Midnight in Paris" (2011) ed il deludente "To Rome with Love" (2012). Orbene, il ritorno in patria pare aver non poco giovato ad Allen, ché quest'ultimo lavoro ci pare possa esser iscritto senza fatica al novero delle cose sue più riuscite. Quasi una parafrasi di "Un tram che si chiama desiderio" (che, forse non a caso, la protagonista Cate Blanchett sta trionfalmente interpretando in teatro), il film offre al regista spunto per tratteggiare uno dei suoi meravigliosi ritratti muliebri che trovarono il vertice in "Un'altra donna" (1988), complice il magistero interpretativo di Gena Rowlands. Pure qui c'è una straordinaria attrice, la già citata Blanchett, ad aver parte fondamentale nella riuscita: è grazie a lei, alla sua attenzione ad ogni sfumatura del proprio personaggio, che Allen riesce nel difficilissimo compito di suscitare una sorta di empatia nei riguardi della protagonista.

Ovviamente, la regia esibisce meraviglie - basti veder la scelta d'aprire e chiudere con un monologo, od il gioco d'entrare e uscire dal passato senza soluzione di continuità - ed Allen, come tutti i sommi autori, mai giudica la figura femminile che ha creato. Se ne mostra senza indugi l'albagia, il disprezzo per tutto quello e tutti quelli che le appaiono comuni, nondimeno filtra codesta propensione attraverso il prisma della pietas: attraverso il quale ciò che percepiamo è una creatura smarrita, confusa, preda di angoscie e sensi di colpa smisurati. Si può non condividerne i gesti (ed il finale chiarisce un dettaglio di non poco conto, sul suo comportamento e sulla sua etica), vederla viziata e presuntuosa: è arduo, però, rifiutarle la tenerezza che si riserva a chi si senta preda d'un senso d'indecrittabile orfanità che ne strazia l'esistenza; ovvero, ad una Jasmine che s'avverta "blue". Malinconica. Triste. Disperata.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

BLUE JASMINE. REGIA: WOODY ALLEN. INTERPRETI: CATE BLANCHETT, ALEC BALDWIN, PETER SARSGAARD, SALLY HAWKINS, ANDREW DICE CLAY. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 98 MINUTI.

martedì 26 novembre 2013

Don Jon

Jon Martello - nomen omen - ama la pornografia e la masturbazione. Intendiamoci, non che non gli piaccia, andare pure a donne: rimorchia con tale facilità una ragazza a week-end, da essersi beccato dagli amici il nomignolo sfottente e mozartiano di Don Giovanni. E' metodico, il nostro: abitazione, macchina coatta, taglio dei capelli, tutto sempre a posto. Anche quando fa sesso a due, si produce in performance corrette, ma che lo lasciano insoddisfatto: un sex addicted scontento, insomma, che nel mero vizio solitario trova una sorta di equilibrio. Destinato però, quest'ultimo, ad andare in frantumi quando egli s'imbatte in Barbara Sugarman (finanche nei nomi, non si difetta in ironia), una ragazza bellissima ed estremamente volitiva. All'uso selvaggio del Pc, Jon non ci rinuncia: sino ad entrare in rotta di collisione con il soggetto - così crede, il nostro - dei propri sogni. Nel frattempo, avendo egli cominciato a frequentare un corso serale di recupero, si è imbattuto in una donna più grande di lui in lacrime: dopo qualche imbarazzo, i due si conoscono meglio e per Jon si schiude un altro mondo...

Classe 1981, losangelino, Joseph Gordon-Levitt esordisce alla regia con un film indipendente che lo mostra cineasta originale e brillante. Anche da attore, del resto, da un po' le andava azzeccando tutte: ricordatelo nel superlativo "Mysterious Skin" (2004) di Gregg Araki, per darci ragione; ma anche in altri titoli, dalla romantic comedy "500 giorni insieme" (2009) ch'egli tinge di memorabile malinconia allo spiazzante "Hesher è stato qui" (2012), ove è la carta in più della narrazione. Insomma, non è tipo da cose banali, Gordon-Levitt: e lo dimostra qui, azzardando sopra ad una tematica a rischio quale è la sessodipendenza. Il tono, malgrado certe sfumature drammatiche, resta lieve e pungente: diciamo similare a quello scelto da Chuck Palahniuk per uno dei suoi più bei romanzi, "Soffocare", che sul medesimo argomento è incentrato.

Quel che qui più sorprende, in ogni caso, sono certe finezze di montaggio e di scrittura. La comicità, ad esempio, non nasce - come ci si aspetterebbe - dal rimpallo delle battute, ma dalla vivacità di certe situazioni: ed il gioco metacinematografico dei divi di film inventati che va a vedere al cinema - dei camei deliziosi di Anne Hathaway, Channing Tatum e Cuba Gooding jr. - è tanto semplice quanto efficace. Intriga, pure, che per spiegare la scaturigine delle sue ossessioni bastino i pranzi domenicali con la famiglia d'origine (da confrontare con quelli, d'italianità assai più tradizionale, veduti ne "La febbre del sabato sera"): l'economia del racconto ne guadagna, senza che ciò vada mai a scapito della comprensibilità o della chiarezza. Sono atipiche, certe sottolineature, per il cinema statunitense: ad esempio, il mettere su un piano paritetico l'ossessione per la pornografia di Jon e quella pel principe azzurro di Barbara è parecchio coraggioso, anche perchè dal comportamento della ragazza alla fine della corsa emerge senza infingimenti il fantasma del matriarcato. Ma infine, in questa opera prima che ci è tanto piaciuta, è il tono a fare la canzone: perfino nel finale, che sembra un happy ending ma non lo è, quanto meno nel senso classico. Due persone, par dirci il regista, s'incontrano, si attraggono e si danno quanto possono darsi; poi, probabilmente, ciascuno riprenderà il proprio cammino. Ma, c'è da aggiungere, ciascuno lasciando all'altro qualcosa che prima non possedeva: ed è il massimo che si possa domandare, a degli esseri umani.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

DON JON. REGIA: JOSEPH GORDON-LEVITT. INTERPRETI: JOSEPH GORDON-LEVITT, SCARLETT JOHANSSON, JULIANNE MOORE, TONY DANZA. DISTRIBUZIONE: GOOD FILMS. DURATA: 90 MINUTI.


martedì 19 novembre 2013

Il passato

Dopo quattro anni di separazione, Ahmad torna a Parigi da Teheran al fine di perfezionare la pratica di divorzio da Marie, su richiesta di quest'ultima. Ella, che desidera sposare il suo nuovo compagno, Samir, gravato da una difficile situazione familiare (la moglie è ricoverata in coma, dopo aver tentato di suicidarsi; il piccolo Fouad è un bambino chiuso, bisognoso d'affetto), vive con lui ed assieme alle due figliole avute dal primo matrimonio: Léa, che ha la stessa età di Fouad; e Lucie, un'adolescente assai sensibile, che adora Ahmad almeno quanto detesta la madre e Samir. Ahmad - a suo tempo non capace di regger all'impatto di vivere in un paese straniero - è coinvolto dentro una complessa rete di legami, che cela un segreto del passato...

Talento registico tra i più interessanti degli ultimi anni, l'iraniano Asgar Farhadi possiede il dono di saper coniugare uno sguardo carico di retaggi del proprio paese nativo con un'ottica universale sulle fragilità umane. Già nell'esordio di "About Elly" (2009), la scomparsa d'una ragazza nel corso di un week-end sul Mar Caspio serviva a metter a fuoco il contrasto tra modernità e comportamenti retrivi d'una borghesia benestante di trenta-quarantenni. Ancor meglio, con più esattezza, "Una separazione" - 2011; Oscar per il miglior film straniero, Orso d'oro a Berlino e due Orsi d'Argento pei protagonisti - ritornava sul contrasto sopra descritto (nell'ambito di una coppia che sta per dividersi, l'uomo viene accusato di avere provocato l'aborto della badante con la violenza), insinuandosi pure dentro le zone d'ombra dei rapporti uomo-donna, nel contesto d'un paese sospeso tra contemporaneità e tradizione.

Alla sua prima pellicola fuori patria, Farhadi resta fedele alle proprie tematiche (il peso devastante dei sensi di colpa, le dinamiche della felicità coniugale) ed alla prediletta forma narrativa (una vicenda che assume, man mano, i contorni di un "giallo" psicologico). Ne vien fuori un'opera di coinvolgente bellezza (grazie pure al cast di prim'ordine capitanato da Bérénice Bejo in stato di grazia, premiata a Cannes con merito), tutta giocata sulle mezze tinte e le sfumature, dove nessuno può dirsi totalmente innocente - la mutevolezza nei sentimenti di Marie la rende fonte d'insicurezza per le figlie; Samir è devastato dal timore che la consorte abbia tentato d'uccidersi perché venuta a conoscenza della sua relazione; di Ahmad, della sua inadeguatezza, s'è detto - e l'esistenza medesima consiste in un grumo doloroso impossibile da dissolvere. Difatti, lo scioglimento non cancella i dubbi e le incertezze: che accompagnano anche lo spettatore, al quale - negata ogni forma di catarsi - non resta che condividere il senso di malessere promanante da tutti i personaggi.

IL PASSATO. REGIA: ASGHAR FARHADI. INTERPRETI: BERENICE BEJO, TAHAR RAHIM, ALI MOSAFFA. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 130 MINUTI.

lunedì 11 novembre 2013

L'ultima ruota del carro

Ernesto, figlio di un tappezziere romano, inizia a lavorare insieme al padre ma, ben presto, a causa di divergenze caratteriali, sceglie di mettersi in proprio con un'agenzia di trasporti: a faticare insieme a lui, chiama l'amico Giacinto. E' proprio quest'ultimo che, sganciatosi dal lavoro e messosi al servizio d'un socialista rampante, vuole coinvolgere il nostro nella sua nuova, più agiata esistenza. La moglie Angela lo esorta alla prudenza e, solo per buona sorte, lui evita di restar coinvolto nel crac della società con cui aveva preso a collaborare, ed il carcere toccato a Giacinto. Onesto per vocazione, tifoso della Roma, padre affettuoso, Ernesto continua il suo viaggio nell'Italia del tempo sempre serbando i propri valori, tra rare soddisfazioni (l'amicizia con un grande pittore) e qualche traversia (un cancro diagnosticatogli erroneamente, la sfortunata perdita del biglietto vincente a una lotteria) sino ai giorni nostri.

E' un biopic di tipo particolare, "L'ultima ruota del carro" (che ha aperto, fra calorosi applausi, l'ottava edizione del Festival cinematografico di Roma). Stavolta non è una vita celebre, infatti, al centro della narrazione, bensì un'esistenza qualunque: quella di Ernesto Fioretti, oggi 64enne, romano doc, autista dopo aver fatto il tappezziere, il cuoco d'asilo, il traslocatore. Trasfigurato assai poco nella vicenda cinematografica, il personaggio si trova ad attraversar un trentennio di storia del paese, tra fatti sociali di  rilievo: dall'ascesa e caduta dei socialisti all'avventura berlusconiana, transitando per eventi a volte drammatici (l'assassinio di Moro, il lancio delle monetine a Craxi) a volte gioiosi (la vittoria della Nazionale ai Mondiali di calcio nell'82).

Saturo forse di commedie generazionali e manuali d'amore, il toscano Giovanni Veronesi azzarda qui l'opera sua più ambiziosa: è evidente, ad esempio, che lui ed i suoi sceneggiatori - Ugo Chiti, Filippo Bologna, Ernesto Fioretti - abbiano avuto in mente dei modelli importanti, su tutti "Una vita difficile" (1961) di Dino Risi e "C'eravamo tanto amati" (1974) di Ettore Scola. Rigorosamente, tuttavia, dalla parte e con gli occhi degli ultimi: ciò si traduce in un'assenza totale di sguardo ideologico che, se è coerente con l'assunto, rischia di far scivolare il tutto sul piano inclinato del cinismo qualunquista. La spia all'operazione la fa Ricky Memphis nel ruolo di Giacinto, pressoché equivalente al Franco Fabrizi di "Una vita difficile": ma lì si prendeva un attore specializzato in ruoli di figure sordide, quantomeno ambigue; qui si è, di contro, scelto un interprete di irresistibile simpatia, nei confronti del quale il giudizio dello spettatore risulterà comunque indulgente, a scorno di quanto egli commetta. Fatta la doverosa obiezione, nei limiti d'uno spettacolo popolare il film funziona: certo, il racconto a volte affastella un poco confusamente i fatti, alcuni personaggi - ad esempio, l'intrallazzatore in grisaglia reso con cattiveria da Sergio Rubini - spariscono troppo repentinamente; ma, alla fine, il nerbo narrativo c'è.

Buona parte del merito, diciamolo subito, va alla formidabile prova di Elio Germano, con sempre più autorevolezza il miglior attore della propria generazione: qui, il suo sguardo talvolta stupito e talaltra sospettoso, mai privo d'un bagliore d'ingenuità, illumina ogni momento, dando il meglio nelle scene assieme all'amico maestro della pittura (una caratterizzazione commovente di Alessandro Haber, tra i maggiori incompresi del nostro cinema). Potente, poi,  Massimo Wertmuller nei panni del padre di Ernesto ed assai brava Alessandra Mastronardi, finalmente sottrattasi al giogo delle pellicole di consumo. Ecco, ciò che di più consolante viene da "L'ultima ruota del carro" è la certezza che, qualora la cinematografia indigena desiderasse risorgere dalle proprie ceneri per tentar di tornare ai suoi momenti migliori, forze e contributi di certo non mancherebbero.

L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO. REGIA: GIOVANNI VERONESI. INTERPRETI: ELIO GERMANO, ALESSANDRA MASTRONARDI, RICKY MEMPHIS, ALESSANDRO HABER, SERGIO RUBINI, MASSIMO WERTMULLER. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 113 MINUTI.

martedì 5 novembre 2013

Giovane e bella

Al compiersi del suo diciassettesimo anno, la borghese Isabelle decide di perdere la propria verginità: lo fa senza slancio o passione alcuna, nel corso delle vacanze estive, con un qualsiasi coetaneo. Una volta ritornata a Parigi, dove studia e vive con la madre, il patrigno ed il fratello minore, comincia a prostituirsi via Internet, sotto lo pseudonimo di Lea. Rinunciando al coinvolgimento sentimentale, Isabelle guadagna in breve notevoli somme, grazie ad una clientela attempata e benestante. Tutto si avvierebbe sui binari di una tranquilla routine, se la morte casuale di uno degli uomini con i quali si accompagna non portasse all'intervento della polizia ed al disvelamento del tutto alla famiglia...

Con questo "Giovane e bella", Francois Ozon - dopo un lungo periodo di cinema "per tutti", iniziato nel 2002 con "Otto donne e un mistero" - sembra voler tornare al cinema sovversivo e disturbante delle proprie origini d'autore, dal mediometraggio d'esordio "Regarde le mer"(1997) a pellicole quali "Les amants criminelles" (1999) e "Gocce d'acqua su pietre roventi" (2000): allorquando egli soleva esprimersi attraverso soggetti sconcertanti, senza preoccuparsi di venire o meno apprezzato dalla maggior parte del pubblico. D'altro canto, l'argomento trattato - la prostituzione minorile - è in ogni caso di forte presa, giusto come le cronache ci raccontano sempre più spesso con svariati esempi.

Al cineasta francese, va riconosciuto da subito d'aver evitato ogni banalità d'approccio al tema. Ha, ad esempio, scartato la via sociologica o la trattazione semidocumentaristica, con annesse puntate nel sensazionalismo. Sul versante opposto, s'è ben guardato dal proporre una tranche de vie, magari nei canoni tranquillizzanti del mélo: giusto come Isabelle, ha per contro voluto mettere la sordina alle emozioni. L'approccio al racconto si direbbe fenomenologico, precisando tuttavia che la parabola della ragazza in vendita non si pretende rappresentativa di alcunché: Isabelle si muove da sola, con metodo e precisione, domanda sempre la stessa cifra. Il danaro lo ammucchia, non la vediamo mai spenderlo: peraltro, è l'unica cosa alla quale sembra tenere, e protesta quando la madre glielo sottrae. Guardandola agire, con un'atonia che si blocca solo quando qualcuno le muore sotto durante un atto sessuale (a proposito, Marine Vacht è strepitosa), si direbbe che ella voglia darsi una giustificazione per esistere, cavare una rilevanza sociale dal proprio ruolo. Sia come sia, è soltanto nella conclusione - quando la moglie del defunto la riporta nella camera d'albergo ove il marito s'è spento - che Isabelle ritrova le coordinate: si addormenta per un poco, adolescente; al risveglio, è un'adulta consapevole. Lieve quanto geniale scioglimento, che chiude come meglio non si potrebbe un'opera d'eccellenza.

GIOVANE E BELLA. REGIA: FRANCOIS OZON. INTERPRETI: MARINE VACHT, GERALDINE PAILHAS, FREDERIC PIERROT, CHARLOTTE RAMPLING. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 94 MINUTI.

mercoledì 30 ottobre 2013

Before Midnight

Jesse, romanziere statunitense di successo, e Celine, attivista ambientale francese, sono una coppia di coniugi, in vacanza in Grecia con le loro due bambine. L'uomo ha appena accompagnato all'aeroporto il figlio nato dalle prime nozze: ritiene di vederlo troppo poco, che al ragazzino manchi la sua presenza. Avanza, perciò, alla moglie, l'idea di lasciare il loro luogo di residenza, Parigi, per trasferirsi a Chicago. Di qui in avanti la donna - che non intende affatto tornar negli Usa, ove pure è vissuta a lungo - diviene inquieta e pronta a polemizzare su tutto. Così, finanche il dono degli amici che li hanno ospitati nel loro soggiorno ellenico (una notte ospiti nella suite di un lussuoso resort sul mare), viene accolta da Celine con non celata malavoglia: ma gli amici insistono, è perciò impossibile sottrarsi. Le tensioni, sino a quel momento rimaste sotto traccia, non si possono più trattenere: i due litigano, scambiandosi delle accuse e rivelandosi segreti sgradevoli...

Tutto ebbe inizio su un treno che, da Budapest, era diretto a Parigi. Jesse, turista americano in viaggio per l'Europa, tornava a Vienna per prendere un volo che lo avrebbe riportato in patria; Celine, invece, si recava nella capitale francese per frequentarvi l'Università. Era la primavera del 1995, e questo incontro venne messo in scena da Richard Linklater in "Prima dell'alba", divenuto ben presto un piccolo film di culto. E' così che Ethan Hawke e Julie Delpy si sarebbero ritrovati (diretti dal medesimo regista), dieci anni dopo, in "Before Sunset" (2004), attesissimo seguito, con Celine intenta a danzare sulle note di Nina Simone ed il neoscrittore Jesse che sceglieva di rimanere con lei, di non salire su un aeroplano.

Due lustri ancora, ed eccoci a "Before Midnight". Ovviamente, le tinte pastello degli episodi precedenti sono sfumate: la vita, dopo i quaranta, non ha più il luccichio inebriante della giovinezza; e, poi, tutto il tempo passato insieme dai protagonisti si fa sentire. Certo, c'è il ricordo dolce dei giorni belli; ma, pure, il logorio della convivenza, la paura di tutto ciò che ancora li attende, in testa il fantasma spaventevole della vecchiaia. Così, specchiandosi negli splendidi paesaggi ed avvolgendosi in una fiumana di parole, i personaggi arrivano allo scontro. S'intravede addirittura la possibilità di lasciarsi, forse incubo, oppure liberazione: in dirittura d'arrivo pare vincere, tuttavia, il desiderio di stare insieme. Speriamo di rivederli di nuovo, questi amici coi quali molti di noi sono cresciuti. Per ora, contentiamoci del fatto che l'ultimo pannello del trittico è il più bello: sulle orme del Rossellini di "Viaggio in Italia", ma con un amore per la parola che ricorda Rohmer ("La mia notte con Maud", ad esempio, pellicola essa pure tanto verbosa quanto intensa), le giornate di Jesse e Celine sull'orlo di una crisi di nervi vengon narrate con una grazia non indegna delle migliori pagine di Marivaux.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

BEFORE MIDNIGHT. REGIA: RICHARD LINKLATER. INTERPRETI: JULIE DELPY, ETHAN HAWKE. DISTRIBUZIONE: GOOD FILMS. DURATA: 99 MINUTI.

lunedì 30 settembre 2013

Anni felici

1974, Roma. Guido è un giovane artista che, volendo inserirsi nel filone dell'avanguardia, vive nella convinzione di dover essere trasgressivo, scomodo. Sua moglie Serena lo ama; pure se capisce assai poco la sua arte, vuole stargli il più possibile vicino. La fanno molto soffrire i continui tradimenti del marito, che si sente come soffocato dal proprio ruolo: a tenerli uniti è una forte, reciproca attrazione erotica. Il ménage dei due, scandito da discussioni quando non furiosi litigi, trova spettatori obbligati nei due figlioletti, Dario - il più grandicello, dieci anni - e Paolo. L'insuccesso professionale di Guido, l'inquietudine esistenziale di Serena condurranno a nuovi sviluppi, fino a qualcosa che assomiglia ad una soluzione definitiva; Dario - che li filma con una cinepresa avuta in regalo, quasi a filtrar la forza delle emozioni che prova - otterrà l'attenzione che non riesce ad avere solo simulando un suicidio...

Avrebbe dovuto esser presentato a Cannes, poi era annunciato a Venezia, l'ultimo lavoro di Daniele Luchetti: infine, il regista romano ha preferito presentare "Anni felici" a Toronto. Dopo la visione, si capisce perché: si tratta di una pellicola assai peculiare che, sospesa com'è tra reale e autobiografico, può suscitare sentimenti contrastanti in chi vi assiste. Sì, perché quei genitori dolci e disastrati sono, trasfigurati nel ricordo, ispirati a quelli autentici della persona che siede dietro la macchina da presa. Cineasta di solito assai composto, pudico, lieve, qui il nostro si mostra sussultante, scabro, slabbrato nell'approccio alla materia: rischia, insomma, ma ci sembra di poter asserire che vince la scommessa.

Quel che meno persuade, diciamolo subito, è come gli anni '70 vengono resi: caratteristica, peraltro, di molto cinema italiano contemporaneo (era uno dei punti deboli, anche, del pur valido "La meglio gioventù" di Giordana). Magari era congenita a quel periodo, una certa goffaggine; fatto sta che nel film vi sono sequenze - quella della "azione artistica", ove il corpo nudo di Paolo viene ricoperto di vernice - che lasciano interdetti, fatta pure la tara all'ironia che probabilmente voleva esserci. Però il cuore del racconto, il rapporto intenso e burrascoso tra i due coniugi, è reso con una sincerità e una forza non comuni. Merito, per certo, della bravura degli interpreti (l'esito migliore è quello di una sempre più brava Micaela Ramazzotti, laddove Kim Rossi Stuart ha qualche sottolineatura grottesca
di troppo); ma, in primo luogo, di una regia attenta e sorvegliata. Che neppure rifugge l'autoironia: il Luchetti adulto che guarda se stesso bambino aver un primo successo pubblicitario è una piccola delizia, quasi la simbolizzazione dello spleen agrodolce del quale è intrisa per intiero la pellicola.
 
                                                                                                                                 Francesco Troiano

ANNI FELICI. REGIA: DANIELE LUCHETTI. INTERPRETI: KIM ROSSI STUART, MICAELA RAMAZZOTTI, MARTINA FRIEDERIKE GEDECK. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 100 MINUTI.


lunedì 23 settembre 2013

Lo sconosciuto del lago

In riva ad un lago, s'incontrano per prendere il sole dei gay: la spiaggia costituisce, per loro, un punto di ritrovo, circondata com'è da una boscaglia particolarmente adeguata a incontri sessuali. E' qui che, all'inizio dell'estate, il giovane Franck incontra Henri, un uomo di mezz'età da poco separatosi dalla moglie ed in cerca di tranquillità, di riposo. Fa, inoltre, la conoscenza di Michel, aitante nuotatore e amante assai ambito: se ne innamora da subito, ma - prima ancora d'iniziare una storia con lui - non fatica a comprendere che ha qualche cosa da nascondere. Frattanto, un cadavere emerge dal lago: con ogni probabilità, si tratta di un delitto maturato nel ristretto ambiente dei frequentatori del luogo. Un ispettore di polizia comincia ad indagare; e Franck è, ogni giorno di più, atterrito dagli avvenimenti...

"L'erotismo è la celebrazione della vita fino alla morte", sosteneva Bataille; ed è detta affermazione ad aver ispirato - per sua medesima ammissione - il regista Alain Guiraudie nel dirigere questo "Lo sconosciuto del lago". Se il genere è quello del thriller hitchcockiano, è l'approccio alla materia ad essere spiazzante. La narrazione varia di registro diverse volte, nel corso del proprio svolgimento: a toni quasi da commedia fanno seguito aperture drammatiche, sino ad una conclusione colorata dalla suspense. Fedele alla classica regola delle tre unità, il film si svolge con ritmi volutamente lenti, ha un andamento quasi ipnotico, lavora ai fianchi lo spettatore imbrogliando le piste e mescolando le carte.

Se l'identità dell'assassino viene svelata subito, quel che interessa al cineasta francese è, palesemente, studiare le dinamiche dei rapporti interpersonali dentro un ambiente circoscritto. Pur svolgendosi per intero en plein air, la pellicola veicola un senso crescente di acrofobia e, insieme, di claustrofobia: lo splendido scenario naturale diviene, poco a poco, un luogo chiuso, come se gli alberi fossero collegati da un invisibile filo spinato e l'acqua del lago potesse mutarsi in un'umida tomba. E' qua che si gioca la partita: dentro un circuito di abitudini che procedono dal parcheggiare sempre nello stesso spazio allo sdraiarsi ogni volta nel medesimo sito. Imprigionati da una ragnatela, i personaggi si avviano verso il proprio destino con un'immedesimazione che si fa via via più struggente. Alla fine, quando la luce del sole lascia il posto all'arrivo delle tenebre, gli ultimi bagliori d'un crepuscolo illuminano, fiocamente, le conseguenze del bisogno d'amore: e di disarmate, affrante solitudini.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LO SCONOSCIUTO DEL LAGO. REGIA: ALAIN GUIRAUDIE. INTERPRETI: PIERRE DELADONCHAMPS, CHRISTOPHE PAOU, PATRICK D'ASSUMCAO. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 97 MINUTI.

mercoledì 18 settembre 2013

The Grandmaster

Ip Man, nato da una famiglia benestante nel sud della Cina, a Foshan, dedica esistenza e passione alle arti marziali. La sanguinosa guerra cino-giapponese del 1931, che porta morte e rovina nelle province del nordest del paese, costringe alla fuga dalla Manciuria il grande maestro Gong Baesen. A Foshan, dove si rifugia, egli viene raggiunto dalla figlia Gong Er, depositaria della tecnica letale dei 64 palmi. L'incontro fra lei e Ip Man, destinato a segnare il percorso di entrambi, è il punto di partenza d'una serie di eventi che li terranno lontani per un lungo periodo, mentre la Storia procede con la cruenta occupazione giapponese del nordest. Gong Er e Ip Man si ritroveranno solo negli anni '50, a Hong Kong, in uno scenario profondamente mutato, all'insegna di vecchie alleanze, repentini tradimenti e risentimenti duri a morire...

Dopo aver parzialmente deluso le aspettative - segnatamente quelle della critica - con il suo esordio americano, "Un bacio romantico - My Blueberry Nights" (2004), Wong Kar-wai era molto atteso alla sua nuova prova indigena, "The Grandmaster". Nato da un'idea risalente addirittura al 1999, il film - partito per raccontare solo la vita di Ip Man, massimo esponente della tecnica Wing Chun oltre che maestro del leggendario Bruce Lee - si è pian piano dilatato ad un possente affresco storico, che si dipana su un arco temporale di decenni. Come di consueto, Wong Kar-wai usa il genere wuxiapian per soffermarsi su tematiche a lui care: l'amore quale rimpianto e memoria ("ho nostalgia di tutto, anche di ciò che non ho vissuto" potrebbe dire il regista, assieme a Pessoa), il sotterraneo desiderio
di farsi ricordare, la passione come impossibilità od irrealizzabilità.

La voglia di mostrare come le arti marziali non siano, necessariamente, sinonimo di violenza, bensì una filosofia di vita (che sottende rigore morale, oltre che abilità fisica e tattica), è il pensiero-guida della pellicola. Innovativo ed azzardato, come molti titoli del nostro, "The Grandmaster" coniuga al massimo livello ambizioni d'autore ed efficacia spettacolare: tra le sequenze di combattimento, tutte superbe, basti citare l'iniziale, sotto una pioggia apocalittica, e quella che vede Gong Er contrapporsi all'uomo che gli ha ucciso il padre. Quanto al romance, raggelato e straziante almeno quanto quello messo in scena nel mirabile "In The Mood For Love" (2000), viene rappresentato con la maestria e
la delicatezza che, da sempre, il cineasta di Shanghai possiede: siamo dalle parti di "C'era una volta in America" (1984), non a caso apertamente citato col tema musicale di Morricone, fra struggimento ed orgoglio. E noi spettatori di qualunque età lì, col ciglio inumidito, sperduti ancora una volta nella magia chiamata cinema.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

THE GRANDMASTER. REGIA: WONG KAR-WAI. INTERPRETI: TONY LEUNG, CHEN CHANG, ZIYI ZHANG, SONG HYE-KIO, BENSHAN ZHAO. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 123 MINUTI.

martedì 17 settembre 2013

Rush

Può parer curioso, data la sua spettacolarità, ma sul grande schermo la Formula 1 di rado ha prodotto risultati interessanti. Il film forse più famoso sull'argomento, "Grand Prix"(1966) di John Frankenheimer, si ricorda soprattutto per l'uso innovativo dello split-screen, per gli effetti speciali e sonori (giustamente premiati con l'Oscar), per le ben realizzate sequenze delle gare: però, le vicende personali dei protagonisti soggiacciono all'uso di stereotipi e danno al tutto il sapore d'una soap opera pantografata (quasi tre ore, la durata). Peggio ancora "Le 24 ore di Le Mans" (1971) di Lee H.Katzin, fortemente voluto da Steve McQueen ma banale e noioso, finanche come documentario. Alla fine, la più bella pellicola sull'argomento resta "Indianapolis pista infernale" (1969) di James Goldstone, che è tuttavia - nelle forme del melodramma - in primis la notomizzazione del problematico rapporto fra due coniugi (grandi, le prove di Paul Newman e di Joanne Woodward): alle corse vengono riservati solamente gli ultimi venti minuti, peraltro appassionanti.

Il rombo dei motori, lo stridio delle ruote sull'asfalto, insomma, si sono negli anni rivelati difficili da maneggiare, per cineasti anche talentuosi. C'era, perciò, molta attesa per "Rush" (alla lettera, "corsa precipitosa", ma anche "fretta", "eccitazione"), ove viene ricostruita minuziosamente la storia della rivalità fra due piloti, James Hunt  - morto d'infarto nel 1993 - e Niki Lauda, oggi sessantaquattrenne: si va dagli esordi in Formula 3 sino ai campionati del mondo di Formula 1, che li videro vincitori nelle stagioni 1975 (Lauda) e 1976 (Hunt). In quest'ultima annata, il primo rischiò di perire in un incidente dal quale uscì orribilmente ustionato: solo un mese dopo, col volto ancora sfigurato, risalì in macchina per cercar d'impedire al suo rivale di raggiungerlo in testa alla classifica (alla fine, quest'ultimo lo sorpassò di un punto).

Se regista vi era, sulla carta, adatto a una simile impresa, questi era Ron Howard, mostratosi - nel corso d'una carriera versatile come poche altre - abile a mettere in scena "la ricerca eroica d'un equilibrio nei limiti e nelle sconfitte inevitabili" (G.Manzoli). Forse memore del clima della New Hollywood nel quale egli è cresciuto come autore (e della lezione del suo antico mentore, Roger Corman), l'ex Richie di "Happy Days" licenzia un'opera fiammeggiante e survoltata: lo scontro di personalità fra i due piloti - l'effervescente inglese amante degli eccessi in corsa e nella vita, il raziocinante austriaco tutto disciplina e metodo - è reso con un'efficacia dai toni hawksiani nella sottolineatura del reciproco rispetto. Gli anni '70 rivivono coi colori e il sentimento del tempo, l'adrenalina scorre a fiumi laddove di scena sono le vetture (dalla Hesketh alla Ferrari): ma pure il racconto delle vite dei due personaggi ha un timbro che suona veritiero, si tratti degli eccessi alcolici e sessuali di Hunt o della drammatica degenza in ospedale di Lauda. E Chris Hemsworth è tanto bravo a rendere il vitalismo un poco angosciante dell'uno, quanto Daniel Bruhl la ticchettante metodicità dell'altro.
                                                                                                                                Francesco Troiano

RUSH. REGIA: RON HOWARD. INTERPRETI: CHRIS HEMSWORTH, DANIEL BRUHL, OLIVIA WILDE, PIERFRANCESCO FAVINO, NATALIE DORMER. DISTRIBUZIONE: 01.
DURATA: 123 MINUTI.


domenica 1 settembre 2013

The spirit of '45

"La Seconda Guerra Mondiale è stata una lotta, forse la più importante lotta collettiva che la Gran Bretagna abbia mai vissuto. Mentre altri popoli, come ad esempio quello russo, compivano sacrifici più grandi, la determinazione a costruire un mondo migliore era fortemente sentita nel Regno Unito come in tutti gli altri paesi. Eravamo tutti decisi a non permettere mai più che le nostre vite venissero sfregiate da povertà e disoccupazione, e dall'ascesa del fascismo... L'idea centrale era la condivisione della proprietà, in modo che ognuno potesse trarre beneficio dalla produzione e dai servizi. Nessuna élite si sarebbe arricchita a discapito di tutti gli altri. Era un'idea nobile, popolare ed acclamata dalla maggioranza della popolazione. Era lo spirito del '45. Forse, oggi, è il momento di ricordarsene".

Non c'è modo migliore, più intenso o più appassionato, di descrivere "The spirit of '45", il bellissimo documentario che - utilizzando filmati tratti dagli archivi regionali e nazionali, registrazioni sonore e interviste dell'epoca - alla propria patria alle prese con la ricostruzione del dopoguerra ha dedicato l'ultimo cineasta marxista, Ken Loach. "Lo stato sociale britannico è un'occasione persa o un progetto che può ancora essere completato?", egli si domanda. Lo fa dopo aver ricostruito con cura gli eventi di quegli anni, a iniziar da quel 1945 che vide il partito laburista ottenere la maggioranza assoluta alla camera dei Comuni. Ne nasceva un governo guidato da Clement Attlee, fondato sopra una politica di nazionalizzazioni industriali e di tutele per i lavoratori: il Welfare inglese, insomma, realizzato in un clima di concordia sociale destinato a venir sabotato solo nel 1979, con l'ascesa di Maggie Thatcher.

Ed è quasi commovente vedere il regista di tante pellicole celebrate dalla critica e premiate in tutti i più importanti festival di cinema, ritornare con umiltà alle proprie origini di cineasta, a quei lavori televisivi per la BBC che lo fecero conoscere in un ambito più ampio (citiamo solo "Cathy Come Home", del '65, sui problemi dei senzatetto; e, un decennio più tardi, "Days of Hope", un dramma in quattro parti sullo sciopero generale del 1926). L'interesse del nostro va, da mezzo secolo, nella stessa direzione, e sempre quelle sono le figure della Storia che gli stanno a cuore: i proletari, le donne, i giovani, gli emarginati, costantemente al centro delle sue vicende di ordinario dolore, con un mix di tenerezza e di rabbia oramai divenuto inconfondibile cifra stilistica. Lunga vita a Ken il Rosso.

THE SPIRIT OF '45. REGIA: KEN LOACH. CON WINSTON CHURCHILL, TONY BENN, CLEMENT ATTLEE. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 94 MINUTI.

martedì 20 agosto 2013

L'evocazione - The Conjuring

Stati Uniti, anni '70. La famiglia Perron - padre, madre, cinque figlie ed un cane - s'è appena trasferita dal New Jersey ad una dimora isolata. L'animale domestico avverte subito che qualcosa non va ed è il primo a trovare una morte violenta. E' solo l'inizio: sinistre apparizioni e rumori inquietanti prendono a tormentare i nuovi abitanti, sino al palesarsi di manifestazioni paranormali. Terrorizzata, la signora Warren riesce a mettersi in contatto coi coniugi Ed e Lorraine Warren: lui demonologo, lei sensitiva, lavorano in coppia perfino con l'approvazione del Vaticano. Con l'aiuto di adeguati strumenti, i due registrano un elevato numero di potentissime presenze, tale da mettere a repentaglio la vita di chi si trova nell'abitazione infestata...

Il malese James Wan, noto per avere diretto l'episodio numero uno della fortunatissima saga di "Saw" (2004), sceglie per il proprio esordio hollywoodiano un argomento fra i più classici dell'orrore: quello della casa maledetta. I topoi del genere ci sono davvero tutti: lancette degli orologi impazzite, vecchia impiccata ad un albero, porte che sbattono, rumori angoscianti, crocifissi che cadono. Ci si attende l'ennesima, stanca variazione sul tema, invece il regista - almeno per due terzi della pellicola - ci sorprende. Il concertato degli spaventi punta soprattutto sull'atmosfera, come avveniva in classici quali "Gli invasati" (1963) e "Dopo la vita" (1973) di John Hough: inoltre, l'intuizione di "The Paranormal Activity" (2007) - la notomizzazione dell'immagine per individuare in quale frammento di essa si celi la paura - viene ben adoperata, creando un denso clima di attesa.

Purtroppo, nell'ultimo terzo ogni remora è abbandonata e la pellicola si trasforma in una specie di digest del cinema horror dell'ultimo mezzo secolo: citazioni da "L'esorcista" (1979), "Amityville Horror" (1979), "Poltergeist" (1982) si susseguono in una prevedibile ridda suscitando sobbalzoni e qualche ilarità (il film si dice ispirato da fatti veri; quanto meno, i Warren sono esistiti nella realtà). Più che il succedersi meccanico dei brividi, inquieta una visione del male oscurantista e poterva, che nella interminabile sequenza dell'esorcismo diviene poco sopportabile. E' un peccato che Wan abbia deciso di cedere non si sa se ai propri peggiori istinti o a inderogabili esigenze del noleggio: poteva venirne fuori un piccolo gioiello. Anche perché gli attori - a principiar da un'eccellente Vera Farmiga, già vista accanto a Clooney in "Tra le nuvole" (2009) - sono credibili malgrado il contesto; e c'è una certa finezza in talune atmosfere alla "Twin Peaks" - pure qui l'investigatore gira con un registratorino - che andavano meglio sviluppate e valorizzate.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

L'EVOCAZIONE - THE CONJURING. REGIA: JAMES WAN. INTERPRETI: VERA FARMIGA, PATRICK WILSON, RON LIVINGSTON, LILI TAYLOR. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 112 MINUTI.

lunedì 19 agosto 2013

La varabile umana

Milano. Da quando, tre anni prima, ha perduto sua moglie, l'ispettore Monaco si è dato una regola: nessun contatto con le persone, e con la sensazione della violenza. Quanto al proprio lavoro, esso si svolge solamente attraverso i reperti dei delitti, siano essi documenti o fotografie di delitti. Una notte come tante altre, la figlia adolescente Linda viene fermata perché trovata in possesso di una pistola; contemporaneamente, si ha notizia dell'omicidio dell'importante uomo d'affari Ullrich. Costretto dal suo superiore a partecipare attivamente alle indagini su questa morte violenta, Monaco si rende conto di non esser più l'investigatore di una volta e, cosa che ancor più lo tormenta, d'aver abdicato a taluni dei propri doveri di padre. Assistito dal suo amico ed allievo Levi, egli scopre - nel tentativo di far cadere qualsiasi sospetto sulla figliola - un microcosmo di promiscuità e di squallore nel quale hanno parte delle giovanissime ragazze, finanche minorenni...

Al suo primo lungometraggio di finzione, dopo alcuni documentari su Milano, Bruno Oliviero con "La variabile umana" gioca la carta del film drammatico con coloriture di "giallo", che qui da noi mai ha avuto troppa fortuna. La si può individuare già in piccoli gioielli quali "Senza sapere niente di lei" (1969) di Luigi Comencini o "In nome del popolo italiano" (1971) di Dino Risi; più tardi, la formula è stata ripresa in diversi titoli, da "Notte italiana" (1987) di Carlo Mazzacurati sino a "La ragazza del lago" (2007) di Carlo Molaioli, due pellicole d'esordio alquanto riuscite. Rispetto a queste ultime, "La variabile umana" pizzica maggiormente le corde del privato (tanto che certuni riferimenti all'attualità, nelle motivazioni finali, appaiono la cosa più debole); l'intreccio guarda, piuttosto, a Durrenmatt, nel suo far affiorare la tragedia tra le pieghe della quotidianità.

Girata interamente su set veri, l'opera di debutto di Oliviero patisce un poco la mancanza di ritmo, e lo scioglimento vi appare telefonato; in compenso, diversi caratteri di contorno sono ben delineati - è  ottimo Claudio Amendola nei panni d'un ambiguo uomo di legge, laddove Pippo Delbono appare di contro disorientato nei panni di Ullrich - e l'ambiente della Questura è reso in maniera plausibile. Affiancato da Giuseppe Battiston che - nella parte di Levi - fa ulteriore mostra della propria duttilità d'interprete, Silvio Orlando tiene il centro della scena con la consueta bravura: agli iniziali sottotoni di mestizia interiorizzata, fa subentrare credibilmente il dolore d'una consapevolezza straziata, quasi incredula. Una nota di merito, infine, per l'esordiente Alice Raffaelli (Linda), proveniente dal corso Teatrodanza della scuola di Paolo Grassi.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA VARIABILE UMANA. REGIA: BRUNO OLIVIERO. INTERPRETI: SILVIO ORLANDO, GIUSEPPE BATTISTON, SANDRA CECCARELLI, ALICE RAFFAELLI. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 83 MINUTI.






lunedì 29 luglio 2013

La notte del giudizio

2022. Benvenuti nell'America dei Nuovi Padri Fondatori, in cui la disoccupazione è al minimo storico dell'un per cento ed il tasso di povertà al cinque. La criminalità, purtroppo, è in continuo aumento e le carceri sono sovraffollate, ma niente paura: il governo ha individuato un periodo di 12 ore nel corso dell'anno durante il quale ogni attività criminale, incluso l'omicidio, diviene legale. La polizia non può essere chiamata, gli ospedali rimangono chiusi. In una società del genere, i venditori di sistemi antifurto sono destinati a prosperare: ne è consapevole James Sandin, che ha potuto aggiungere un'ala nuova alla propria dimora - dove vive con la moglie ed i due figlioli - e gode d'un elevato livello di benessere. Ma è proprio la sua famiglia a trovarsi in pericolo allorquando la presenza di un intruso, introdottosi nella loro abitazione per sfuggire alla morte, innesca la rabbia di una banda di giovani benestanti in caccia di quell'uomo povero e di colore; quindi, ritenuto ideale per essere eliminato...

La tradizione dell'horror estivo, qui da noi forte per molte stagioni e poi affievolitasi, sta tornando in auge: pur se il genere, tra pleonastici remake e stanchi sequel, non dà più le soddisfazioni d'un tempo agli aficionados. "La notte del giudizio" - girato con 3 milioni di dollari e giunto a 75 al botteghino statunitense: un piccolo fenomeno - ha la felice intuizione di andare controcorrente: il regista James DeMonaco ed Ethan Hawke, che già avevano fatto un ottimo lavoro in "Little New York", danno qui vita ad un film indipendente con manifesti messaggi antigovernativi, come faceva all'epoca sua John Carpenter.

Per restare a ques'ultimo, "La notte del giudizio" sembra muoversi sulla scia del suo antico "Distretto 13 le brigate della morte" (1976): lo stato di assedio dei protagonisti, la natura quasi fantasmatica del gruppo di assalitori, la violenza iperbolica messa in atto accomunano le due pellicole. C'era però, nel primo, un ossequio a valori antichi - la difesa della donna, il rispetto per l'onore anche nei fuorilegge - dal sapore hawksiano: l'umanità dipinta nel più recente pare, invece, in buona misura degenerata. Perfino l'onesto capofamiglia non dissente dal massacro legalizzato - pur non prendendovi parte attiva - e, in un primo momento, bracca il rifugiato per consegnarlo ai persecutori, che minacciano se non lo farà di entrargli in casa. Poi ci ripensa, ma solo una provvisoria alleanza fra emarginati (l'uomo nero e la più civile fra le donne) impedirà che le cose sfocino in un massacro indiscriminato, quando ogni residuo di solidarietà sembra dissolversi. Indiavolato nel ritmo, perfetto nella prova degli attori, efficace nei bersagli da colpire, "La notte del giudizio" è una piacevole sorpresa di fine stagione.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA NOTTE DEL GIUDIZIO. REGIA: JAMES DEMONACO. INTERPRETI: ETHAN HAWKE, LENA HEADEY. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 85 MINUTI.

mercoledì 3 luglio 2013

Violeta Went To Heaven

"Odia la matematica, e ama i vortici. La creazione è un uccello senza piano di volo, che non andrà mai in linea retta". Se si potesse riassumere in una frase il senso della vertiginosa parabola artistica e umana di Violeta Parra, questa - da lei pronunciata nel corso di un'intervista - servirebbe all'uopo. Dall'infanzia poverissima agli anni del repertorio più tradizionale (eseguito assieme alla sorella nelle feste di paese), dalla ricerca sulle radici della musica cilena all'ambizione di conservarne la memoria pel tramite della tradizione orale, si snoda il cammino di una cantante destinata a produrre più di 3000 brani ed altre opere ancora, guadagnandosi l'apprezzamento nazionale ed aprendo le porte - assieme a Victor Jara - alla "nuova canzone cilena".

Di quest'artista poliedrica (pure poetessa, scultrice, pittrice; nel '64, inoltre, la prima donna latino americana a vedere esposti i propri lavori al Louvre), "Violeta Went To Heaven" fornisce un ritratto composito e struggente, appassionato e doloroso. Rifiutando la logica del "biopic" classico, il regista Andrés Wood si serve della tecnica dello "stream of consciousness", delle libere associazioni visive e tematiche: la narrazione non è cronologica, mette insieme epoche e momenti diversi senza la camicia di Nesso del flashback, mirando in primo luogo alla verità poetica.

Nel corso di quasi due ore, di Violeta c'è tutto: l'amore per i figli e quello per l'uomo della sua vita, il musicista svizzero Gilbert Favre, assai più giovane di lei; l'essere sempre dalla parte del popolo, con il suo forte impegno politico ("sono tanto comunista che, se mi sparano addosso, il sangue mi esce fuori rosso"); la rabbia, infine, contro le persone e contro ogni cosa, nei momenti in cui l'assale quella depressione che la condurrà - nel '67, appena cinquantenne - a togliersi la vita. La personalità unica della Parra trova in Francisca Gavilan - che interpreta splendidamente tutte le canzoni del film con la propria voce - un tramite indimenticabile.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

VIOLETA WENT TO HEAVEN. REGIA: ANDRES WOOD. INTERPRETI: FRANCISCA GAVILAN, CRISTIAN QUEVEDO, THOMAS DURAND. DISTRIBUZIONE: MONKEY CREATIVE STUDIOS. DURATA: 110 MINUTI.

mercoledì 26 giugno 2013

World War Z

Il funzionario delle Nazioni Unite Gerry Lane, ritiratosi a vita privata, è ora solo un tranquillo padre di famiglia che adora preparare la colazione per sua moglie Karin e le loro due amatissime bambine. Mentre guida la macchina per condurle a scuola, un'agitazione frenetica si diffonde nelle strade, tosto trasformandosi in manifestazioni di panico. Un misterioso virus, simile alla rabbia, assale gli esseri umani e li trasforma in zombie: Philadelphia ne viene contagiata, mentre le altre grandi città degli Usa man mano stanno cadendo nelle mani dell'aggressiva specie. Le autorità domandano a Gerry di ritornare in campo: egli, pur riluttante, accetta, perché gli garantiscono sicurezza per i suoi cari. La prima tappa del viaggio è la Corea del Sud, ove sembra che tutto abbia avuto inizio; dipoi ci si sposta a Gerusalemme, dove i contaminati danno la scalata ad un altissimo muro formando una piramide di corpi; infine -  accompagnato da una soldatessa israeliana, Sagen - il nostro approda a un laboratorio di virologia in Scozia, in cui sperimenta su se stesso un possibile antidoto al morbo...

Ci son voluti anni per portare su grande schermo il romanzo di Max Brooks - figlio del comico Mel e dell'attrice Anne Bancroft - "World War Z. La guerra mondiale degli zombi" (2006, Edizioni Cooper), dato che il film interessava sia alla casa di produzione di Leonardo DiCaprio sia a quella di Brad Pitt. Alla fine, è quest'ultima che ha avuto la meglio, dando il via ad una lavorazione assai travagliata, pure dal punto di vista creativo: il regista Marc Forster ("Quantum of Solace") ha respinto la prima stesura di J.Michael Straczynski, passata a Matthew Carnahan ("State of Play"), col conseguente ritardo sulla lavorazione. A ciò s'aggiunga che, al termine delle riprese, il finale è stato giudicato insoddisfacente: a riscriverlo sono stati chiamati Damon Lindelof e Drew Goddard ("Lost"), si sono dovuti girare ben 40 minuti di nuovo ed i costi sono lievitati, così, da 125 a quasi 200 milioni di dollari.

Ciò detto, i ripensamenti, i tagli - e le inevitabili suture - durante la visione non si avvertono affatto. Per certo, "World War Z" non mostra segni di originalità, il copione segue la falsariga di quasi tutti i blockbuster degli ultimi anni: l'eroe, buono e nella fattispecie pure bello, affronta prove difficili per difendere la propria comunità familiare e tornare a casa (da Odisseo in poi, davvero, si è inventato poco). C'è da aggiungere, a nostro avviso, che nell'azzeramento dei generi e nel livellamento a misura di action, stavolta è stato azzardosamente coinvolto l'horror: per lo più quello di zombie, uno tra i più irriducibili. Basti guardare alla saga dei morti viventi di Romero - segnatamente a "Zombi" (1978), il capitolo cui il film di Forster si è maggiormente ispirato - od a "28 giorni dopo" (2002) di Danny Boyle per rendersi conto, ad esempio, che il gore è stato nella fattispecie mitigato sino a quasi sparire non essendo più il target quello degli adulti, bensì dei teen-ager. Nei limiti che abbiamo detto il film funziona, ma - a differenza dei titoli che abbiamo ricordato, ancor oggi citati e venerati - è destinato all'obsolescenza repentina di tutti i prodotti di questo tipo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

WORLD WAR Z. REGIA: MARC FORSTER. INTERPRETI: BRAD PITT, IAN BRYCE, DEDE GARDNER, JEREMY KLEINER. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 116 MINUTI.


giovedì 20 giugno 2013

Cha Cha Cha

Corso, ex-agente di polizia passato all'investigazione privata, riceve l'incarico di tenere d'occhio il figlio sedicenne di Michelle, attrice di limitato talento con la quale ha avuto tempo addietro una relazione e che è, ora, legata al potente avvocato Argento. Purtroppo il sorvegliato, all'uscita di una discoteca, perde la vita in un curioso incidente stradale: un fuoristrada partito da fermo travolge la vettura da lui guidata, per poi dileguarsi rapidamente. Tampinato dall'ispettore Torre, in precedenza suo capo e ambiguo nei comportamenti, il detective s'imbatte in una speculazione edilizia che ha a che fare con l'accoppamento di un ingegnere: viene minacciato e picchiato ma non desiste, magari perché per Michelle prova ancora qualcosa...

Pare cavato da un vecchio film di Risi padre, il titolo "Cha Cha Cha": richiama la commedia nostrana, il periodo del boom, il suono dei juke-box, il sapore del gelato a stecco. Si tratta d'un collegamento fallace, però: qui siamo nella contemporaneità ed in pieno noir chandleriano, con tanto di dark lady, scene in notturna, segreti inconfessabili, malavita in doppio petto. Tutto l'armamentario del "genere" detestato da Adorno a causa della sua confusione sfila in parata per la gioia del cinefilo: ma, a render più appetibile il piatto, c'è l'ambientazione in una Roma contemporanea gonfia ed angosciante, carica di cattivo gusto e di sinistri figuri, veduti sotto una lente che pare deformante ed è, purtroppo, solo realistica. Parafrasando il titolo dell'ultimo film di Sorrentino, si potrebbe dire: la grande bruttezza.

Tentativi di girare pellicole di questo tipo, in Italia, ce ne sono già stati: ci ha provato, non una volta, Gabriele Lavia (ad esempio, nell'86, in "Sensi"), con risultati da dimenticare; meglio ha fatto Carlo Vanzina trent'anni fa con "Mystere" (1983), azzeccando nel mixer le giuste dosi di brividi ed ironia. Qui non tutto scorre come dovrebbe, la sceneggiatura ha qualche buco, gli attori non sono sempre a posto (la Herzigova non riesce a dare sufficiente spessore al suo personaggio, anche lo sbirro di Amendola risulta poco o niente approfondito). Ma, tra una citazione cinefila e l'altra (il pestaggio del protagonista nudo viene da "La promessa dell'assassino", la vettura bloccata con un espediente da "Beverly Hills Cop", certe atmosfere dritte da "Chinatown"), Marco Risi licenzia un'operina che si lascia guardare con piacere: Argentero è stropicciato e fascinoso il giusto per sembrare un "private eye"della tradizione, il ritmo non manca e lo scioglimento - pur se in qualche modo ipotizzabile - dà al tutto un tocco d'impegno civile che davvero non guasta.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

CHA CHA CHA. REGIA: MARCO RISI. INTERPRETI: LUCA ARGENTERO, EVA HERZIGOVA, CLAUDIO AMENDOLA, PIPPO DELBONO. DISTRIBUZIONE: 01.
DURATA: 90 MINUTI.

lunedì 10 giugno 2013

Stoker

La vita tranquilla e solitaria di India Stoker (Mia Wasikowska: superlativa) viene sconvolta quando, nel giorno del suo diciottesimo compleanno, perde il padre Richard (Dermot Mulroney), a seguito di un incidente. India è una ragazza dalla spiccata sensibilità che, dietro al comportamento impassibile, maschera i sentimenti e le sensazioni intime, conosciute e comprese soltanto dal genitore scomparso. Al funerale di Richard, ella incontra lo zio paterno Charlie (Matthew Goode), che dopo una lunga assenza torna proprio con l’intenzione di restare accanto a lei e a sua madre Evie, donna fragile e instabile (Nicole Kidman). India inizialmente non si fida del parente; tuttavia ne subisce il fascino misterioso, soprattutto quando si rende conto d'avere parecchio in comune con lui. E mentre Charlie inizia gradualmente a rivelarsi, lei ne è vieppiù infatuata, e capisce che il suo arrivo nella casa non è affatto casuale. Lo zio è lì per lei, ed intende guidarla a comprendere lo strano destino che l'attende...

"Quale mio primo film in inglese, non volevo che esso si reggesse sui dialoghi. Piuttosto, desideravo esplorare un soggetto universale, come le dinamiche famigliari". E' così che Park Chan-wook ha scelto di giustificare ai propri fan la sordina messa a sesso e violenza in "Stoker": il cineasta coreano, noto soprattutto per lo splendido "Old Boy" (2003), li aveva abituati a ben altro. Tuttavia inquieta, non poco disturba questa favola crudele che si muove tra Lewis Carroll ed Alfred Hitchcock, dentro ad un contesto che oscilla tra grazia e ferocia per poi chetarsi - si fa per dire - in un impossibile ossimoro. "E' un copione in cui c'è molto spazio per il regista, se ne potevano trarre film molto diversi tra loro", ha spiegato il nostro. E' vero: lo spiazzamento - che lo spettatore prova in modo pressoché ininterrotto nel corso della visione - nasce proprio da questa incertezza, dall'impossibilità di prevenire gli sviluppi della storia, addirittura d'individuarne la scaturigine.

Dicevamo della mescolanza tra fairy tale e suspense movie: sorprende, Park Can-wook, per l'abilità con cui si muove fra i due registri. Immaginate una versione survoltata e parossistica de "L'ombra del dubbio" (1943), nella quale i fantasmi e le ossessioni - che Hitchcock , a eccezione del tardo "Frenzy" (1972), aveva sempre raccontato facendo ricorso alla metafora, alla litote od all'ironia  - siano invece resi espliciti; o ad una rilettura apocrifa e delirante del mito di Edipo - già alla base, d'altro canto, del citato "Old Boy". Le immagini della campagna del New England, il tempo che scorre lento dentro ad una tenuta, i personaggi divisi tra aggressività passiva e sinuosa fascinazione si frammischiano dando vita ad una vicenda insinuante e malvagia, distonica e morbosa. Il bildungroman messo in scena è tra i  più atipici mai apparsi sullo schermo, piegato com'è alle regole d'uno psychothriller malato e roso. C'è sangue, c'è morte, c'è attrazione erotica in "Stoker" (concepito da Chan Wook, tanto per cambiare, alla stregua d'omaggio al capolavoro hitchcockiano, "Vertigo"): al pari che in un libro di Cornell Woolrich, certo, magari "Waltz into Darkness" (1949). Ma, pure, come in quella superba novella di Frank Wedekind, "Mine-Haha" (1903): e provateci voi, a creare un connubio tra fonti d'ispirazione tanto distanti. A patto, ovviamente, di non chiamarvi Park Chan-wook.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

STOKER. REGIA: PARK CHAN-WOOK. INTERPRETI: MIA WASIKOWSKA, NICOLE KIDMAN, MATTHEW GOODE. DISTRIBUZIONE: FOX. DURATA: 99 MINUTI.




martedì 4 giugno 2013

Holy Motors

La giornata di Oscar si svolge in una limousine extralunga guidata da Céline, misteriosa dama bionda ch'è per lui una sorta di assistente tuttofare. Egli, per professione, passa da una vita ad un'altra: uomo d'affari, anziana mendicante, performer per realtà virtuali, mostro, assassino dei bassifondi, vecchio morente, padre di famiglia ed altro ancora. Forse vi sono dei committenti, forse no; il nostro sostiene d'esser ancora motivato dalla "bellezza del gesto", dall'obbligo di mostrarsi ogni volta differente e creativo...

E' difficile, scrivere una sinossi di "Holy Motors". Carax - tornato alla sua migliore forma, quella di "Rosso sangue" (1986) - si conferma cineasta ambizioso sino alla presunzione, azzardoso al punto da rischiare il disastro (quanto si era verificato, nel '91, con "Gli amanti del Pont-Neuf", e ripetuto nel '99 con "Pola X"). Già l'incipit, il regista che si risveglia e disvela una porta nel muro che lo conduce in una sala cinematografica, con gli spettatori seduti di fronte (una palese citazione dal King Vidor de "La folla"), è di quelli che possono incuriosire o irritare. Si tratta, pure, di una sorta di anticipazione: tutto il film si muoverà lungo le medesime coordinate, prendendosi il rischio di deragliare. Ciascuno dei personaggi interpretati dal protagonista fa riferimento ad un "genere", dal grottesco al dramma familiare, dal musical all'action movie; gli omaggi a cineasti amati non si contano, Georges Franju e Tod Browning, Cocteau e Bertolucci, Kubrick e Clair.

Ciò detto, chi si figurasse un'opera tutta di testa, algida ed intellettualistica, sbaglierebbe di grosso. Carax è anzi addirittura viscerale - dando un'immagine assai peculiare dell'incubo morale e sociale in cui viviamo - nel cercare la partecipazione emotiva del pubblico, sollecitato a scuotersi, a partecipare (la platea iniziale è composta, non a caso, da dormienti). Quello che potrebbe sembrare un monologo interiore, in realtà è una provocazione di tipo dadaista, che vuole riconciliare con un'idea di esistenza più diretta e naturale. Colga il segno o meno, ognuno valuterà con la propria sensibilita; ma nessuno, crediamo, potrà disconoscere quanto questo caleidoscopio d'immagini sia sorprendente e, a tratti, geniale. A ben pensarci, "Holy Motors" assomiglia per diversi aspetti a "La grande bellezza" di Sorrentino. Qui è Parigi, come lì Roma, la coprotagonista della vicenda, ai più e per i più invisibile (e Céline sollecita infatti ad un certo punto Oscar a guardarla, la città); in entrambi i lavori, inoltre, un'umanita regredita e sconfitta si muove senza speranze o gioia. Ma se la disperazione notturna, devastata, pare la stessa, Carax possiede bastevole talento per essere allo stesso tempo più rigoroso e ironico (a parità di sicumera, verrebbe da aggiungere); insomma, dove Sorrentino - in modo lodevole, però un poco affannoso - cerca, il francese trova. L'interpretazione di Denis Lavant è, semplicemente, monumentale.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

HOLY MOTORS. REGIA: LEOS CARAX. INTERPRETI: DENIS LAVANT, EDITH SCOB, EVA MENDES, KYLIE MINOGUE, MICHEL PICCOLI. DISTRIBUZIONE: MOVIES INSPIRED. DURATA: 115 MINUTI. 

mercoledì 29 maggio 2013

Il fondamentalista riluttante

Nel 2010, mentre imperversano le manifestazioni studentesche a Lahore, un giovane pakistano, il professor Changez Khan, è intervistato dal giornalista americano Bobby Lincoln. Il docente, che ha studiato a Princeton, racconta al cronista il suo passato di brillante analista finanziario a Wall Street. Parla del luminoso avvenire che aveva dinnanzi, del suo mentore Jim Cross; pure di Erica, splendida ragazza e brillante artista, entratagli nella vita e nel cuore. All'indomani dell'11 settembre, il senso di sospetto con cui viene trattato per la propria appartenenza etnica lo riporta alla terra d'origine e alla famiglia, alla quale è da sempre molto affezionato. Il suo carisma, la sua lucida intelligenza in breve lo fanno diventare un leader agli occhi degli studenti e, ovviamente, un potenziale pericolo per il governo statunitense. L'incontro fra Lincoln e Changez, in una sala da tè di Lahore, si rivela per quello che è nel suo scioglimento: il tentativo estremo di scongiurare la morte di un professore straniero, rapito da estremisti, l'esecuzione del quale è data per imminente...

Sorta di confessione nella sua struttura letteraria, "Il fondamentalista riluttante" è un romanzo breve di Moshin Hamid che cerca di dar conto dei cambiamenti avvenuti negli Stati Uniti e, più in generale, nelle società occidentali, a seguito dell'attentato alle Twin Towers. Nelle forme, oramai desuete, del monologo vittoriano, nel libro si fa vivere al protagonista la decadenza del Pakistan attuale e della propria classe sociale d'appartenenza - la borghesia urdu preindustriale, formata da professionisti o intellettuali un tempo al servizio dell'impero, prima moghul poi inglese - attraverso il suo soggiorno negli States. Appropriandosi del freddo determinismo alla base della società capitalistica ch'è la sua seconda patria, Changez si ricollega al proprio passato sociale e lo ripercorre, trasfigurato, in forme nuove, adattandosi a esse. Ma l'incontro con Erica - ragazza tormentata dalla morte del proprio ragazzo precedente - ed il clima di intimidazione razzista instauratosi in America generano, infine, nel nostro un'inedita consapevolezza e un ritrovato senso di appartenenza.

Nella versione cinematografica che hanno voluto dare la regista Mira Nair e lo sceneggiatore William Wheeler, la vicenda del libro diviene un dialogo serrato e inquisitorio tra il pragmatismo utilitaristico d'uno yankee e l'utopismo nazionalistico del suo intervistato. Dovendo metter insieme le ragioni dello spettacolo e quelle del messaggio, la suspense con il melodramma, "Il fondamentalista riluttante" assume, alla fine, l'aspetto di un atipico thriller ambientato su sfondi internazionali. Nelle due ore abbondanti del metraggio, la cineasta indiana fa divenire l'11 settembre una sorta di spartiacque nella percezione di Changez, ne mescola l'impegno "militante" con le contraddizioni sentimentali (è bello il personaggio di Erica, più definito e vitale rispetto a quello della pagina scritta), si sforza di far capire allo spettatore occidentale come "musulmano" non sia, necessariamente, sinonimo di terrorista. Forse qualcosa concede al luogo comune (immaginiamo che in un moloch finanziario come la Underwood Samson & Company il clima sia meno liliale, ed i colloqui di lavoro basati su altri criteri), ma mostra un senso del racconto ed una professionalità impeccabili, che fanno del film un prodotto interessante e, comunque, mai banale.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE. REGIA: MIRA NAIR. INTERPRETI: RIZ AHMED, KATE HUDSON, LIEV SCHREIBER, KIEFER SUTHERLAND, OM PURI. DISTRIVBUZIONE: EAGLE, DURATA: 130 MINUTI.


Tutti pazzi per Rose

1958. In un piccolo villaggio della Normandia vive la ventunenne Rose Pamphyle assieme al padre, burbero vedovo titolare d'un emporio. Promessa in sposa dal genitore al figliolo del proprietario di un'autofficina, la ragazza ha tuttavia altri sogni, lontani dal destino prefissato di tranquilla casalinga. Così decide di partire per Lisieux ove il trentaseienne Louis Echard, carismatico titolare di un'agenzia assicurativa, sta cercando una segretaria. Il colloquio finirebbe rapidamente, se Rose non mostrasse di possedere un peculiare dono: quello di batter i tasti della macchina da scrivere a un ritmo vertiginoso. Louis decide di darle l'impiego, a una condizione: ch'ella concorra alle gare di velocità dattilografica.
Egli stesso le farà da allenatore, lungo un percorso che prevede notevole spirito di sacrificio da parte della giovane: al cui fascino Louis non è, peraltro, indifferente...

Nel cinema, l'operazione nostalgia relativa agli anni '50 iniziò ad applicarsi a distanza ravvicinata: già nel 1973 era al centro di "American Graffiti" di George Lucas, dove l'ultimo decennio dell'innocenza Usa veniva fatto rivivere con i colori del ricordo e dello struggimento. Dipoi, più d'uno è tornato sul tema, dal Coppola di "Peggy Sue si è sposata" (1986) al Gary Ross di "Pleasantville" (1998), sempre nei toni della fiaba ed all'insegna del rimpianto. Non sfugge alla regola "Tutti pazzi per Rose", opera prima del francesce Règis Roinsard, autore anche della sceneggiatura con Daniel Presley e Romain Compingt. Costato circa 15 milioni di euro (una cifra di tutto rispetto per i budget europei ed ancor più per una pellicola d'esordio), il film si rifà con evidenza ai classici del genere, da Wilder a Donen: in particolare, il personaggio di Rose pare modellato su certuni interpretati da Audrey Hepburn, in "Sabrina" (1954) od in "Cenerentola a Parigi" (1956).

In lavori siffatti, è sovente il tono a far la canzone: e qui risulta indovinatissimo dalla prima all'ultima nota, senza anacronismi bensì all'insegna di una passione cinefila vitale e trascinante. La protagonista è dipinta con notazioni interessanti che la rendono una figura non unidimensionale, tra sfumature di malinconia ed un pizzico di sottesa malizia; quanto a Louis - segnato da un episodio avvenutogli in guerra e intimidito da un padre apodittico - è assai meno stereotipato di quanto si potrebbe prevedere. Nel corso di varie prove (regionale, nazionale, mondiale), scandite da un'attesa paragonabile a quella che precedeva gli incontri di boxe in "Rocky" (1976), s'arriva al prevedibile lieto fine senza un attimo di noia, sulle note di "Tenderly" e di tanti altri classici d'epoca: uscendo di sala contenti, come dopo la visione de "Il favoloso mondo di Amelie" (2001) o di "The Artist" (2011). Ah, la douce France...
                                                                                                                                     Francesco Troiano

TUTTI PAZZI PER ROSE. REGIA: REGIS ROINSARD. INTERPRETI: ROMAIN DURIS, DEBORAH FRANCOIS, BERENICE BEJO. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 111 MINUTI.




mercoledì 22 maggio 2013

Solo Dio perdona

Appartenente ad una potente famiglia criminale, Julian adopera un club di Thai Boxing in Thailandia a mo' di copertura per il traffico di stupefacenti. Quando suo fratello maggiore Billy violenta e uccide una ragazza di 16 anni, figlia del proprietario di un bordello, le autorità del luogo si rivolgono ad un poliziotto in pensione, Chang: egli agisce come una sorta di giustiziere, comminando mutilazioni e, talvolta, sentenze di morte. Dopo aver lasciato che il padre della ragazzina uccida Billy con ferocia, a quest'ultimo taglia un braccio, affinché ricordi di proteggere meglio le altre sue figliole. Frattanto, per recuperare il corpo del primogenito è giunta Crystal, madre pure di Julian, che è a capo di una grossa rete del crimine. Assetata di vendetta, ella pianifica che tutti coloro che risultano coinvolti nella fine di Billy debbano venire soppressi: omicidio dopo omicidio, si arriva infine al nome di Chang...

Chiunque avesse oggi intenzione di scrivere uno studio sulle poetiche della violenza, non potrebbe far a meno di dedicar un corposo capitolo a Nicolas Winding Refn. Fin dal suo lungometraggio d'esordio, "Pusher" (1996), il nostro ha messo in campo uno stile morbido ed elegante - con un occhio a Lynch e l'altro a Scorsese - dove la descrizione di azioni feroci e sanguinose ha costituito la punteggiatura. Il prosieguo del suo percorso registico, dall'intricato "Fear X" (2003) al premiatissimo "Drive" (2011), ha visto il cineasta danese approfondire il proprio discorso: i due successivi capitoli di "Pusher" (2004 e 2005) gli hanno, dipoi, valso l'attenzione della critica internazionale, che non ha mancato di tributar lodi ulteriori al carcerario "Bronson" (2008) ed al seguente "Valhalla Rising" (2009; dopo di esso s'è coniato l'aggettivo "Refnesk", a definire un ormai inconfondibile marchio di fabbrica).

Scritto da Refn medesimo, "Solo Dio perdona" vede al centro un personaggio laconico e tormentato, Julian, i cui destini s'incrociano con quelli di Chang, condannatosi ad un atteggiamento stoico che nasce da una difficoltà a vivere nel reale. In una Bangkok illuminata dalla luce fredda dei neon, su sfondi rossastri ed allarmanti, dette figure si muovono con una lentezza di chiara matrice onirica, quasi uscissero dalla saga lynchiana di "Twin Peaks". Se il male, come ci ha insegnato Hannah Arendt, è banale, per Refn è pure versipelle ed ibrido, tra chi lo pratica con la presunzione di un Dio minore e chi ne patisce la repulsiva fascinazione (in questo senso, Chang e Crystal risultano perfettamente complementari). La violenza, pur senza ricorrere ad ellissi, è iperbolica e raggelata: il senso di straniamento viene aumentato da stacchi imprevisti (i momenti in cui Chang canta dei brani di musica leggera), che spiazzano lo spettatore e ne disequilibrano le aspettative.

Strepitoso come d'uso nei film di Refn, Ryan Gosling resterà nella memoria col suo volto tumefatto e l'ira a malapena rattenuta; Kristin Scott Thomas, in un ruolo di bad mama per lei davvero inconsueto, conferma il proprio grande talento d'interprete. Ci sarebbe da dire del finale, che con ogni probabilità lascerà di stucco platee avvezze a scioglimenti telefonati (e sensibili alle esigenze del noleggio): qui si dà risposta ad una domanda non fatta al punto che tutta la pellicola, a ritroso, può venire letta alla stregua d'un viaggio dentro una consapevolezza cui è arduo approdare.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SOLO DIO PERDONA. REGIA: NICOLAS WINDING REFN. INTERPRETI: RYAN GOSLING, KRISTIN SCOTT THOMAS, VITHAYA PANSRINGARM, TOM BURKE. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 90 MINUTI.

martedì 21 maggio 2013

La grande bellezza

Re della mondanità capitolina, Jep Gambardella quasi non ricorda più - dopo decenni di permanenza in una Roma che "ti deconcentra" - di esser stato, a vent'anni, autore di un esordio nel romanzo assai acclamato, "L'apparato umano". Arrivato a sessantacinque primavere, egli si trascina con infiacchita vitalità da una festa funereamente gioiosa all'altra, tra balli accaldati e conversazioni prive di centro, intellettuali devastati dalla frustrazione e traffichini male rimpannucciati, politici di complemento e clero di complimenti, barricadere male invecchiate e amiche devastate dall'angoscia. Ormai tediato da un andazzo al quale, pure, non riesce a sottrarsi, Jep ha frettolosi convegni sessuali ("alla mia età non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare"), rivela quando costretto dolorose verità su chi lo circonda, è indulgente soltanto nella misura in cui è necessario farlo ("siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po' in giro"). Intorno, sta una città d'abbacinante bellezza, dalla visione del Gianicolo alla prospettiva del Borromini, da Piazza Navona a via Veneto, da Villa Medici a Palazzo Spada: uno scenario al quale restano indifferenti i più, perduti in un cupio dissolvi malamente dissimulato.

Ha sin dall'inizio rifiutato, Sorrentino, qualunque paragone tra questo suo "La grande bellezza" e "La dolce vita" (1960) di Fellini: pur se numerosi sono gli omaggi che egli presta al riminese, a cominciar da un personaggio principale - il citato Jep Gambardella - che pare una sorta di erede del Marcello di oltre mezzo secolo fa. Ciò detto, il talento barocco - nel senso inteso da Gadda nella prefazione a "La cognizione del dolore" - e immaginifico di Fellini ha pochi punti di contatto con quello disciplinato e raziocinante di Sorrentino, pur se li unisce l'occhio: moralisti entrambi (nel senso che in Francia si dà al termine, Moliére non Tartufo), hanno sguardo profondo ben attento a non essere giudicante, anzi a riservare una misura di pietas a ciascuno dei personaggi. 

Gli ambienti descritti da Sorrentino sono i medesimi raccontati nel capolavoro antico: sicché, una mutazione sembra avere colpito la genia dei mondani mossi allora da un fondo di vitalità, magari inficiato dall'edonismo. Qui a spiccare è, di contro, un senso di vuoto invincibile (e si rammarica,
Gambardella, di non riuscir a scrivere su detto nulla: ma se, a suo tempo, non fu capace Flaubert...). Si ha l'impressione che ciascuna delle figurette che qui si muovono come falene, riesca per miracolo
a strare in piedi: ed il senso del sacro pare richiamare - evocato dal protagonista medesimo, quasi fosse in limine mortis - la figura di una monaca ultracentenaria, che ha scelto da tempo la povertà e
si nutre esclusivamente di radici. In sede di bilancio, tuttavia, non v'è conforto se non assai irrisorio ("prima c'è stata la vita, anche se nascosta sotto il blabla"). Il magistero di Sorrentino s'inventa una geniale variazione per dar vita all'affranta ironia del suo Jep; attori bravissimi - da Carlo Verdone a Sabrina Ferilli, da Roberto Herlitzka a Massimo Popolizio - s'incaricano d'esser corifei, figure d'un affresco che, a momenti, si scompagina e frantuma, e tuttavia incide per ricchezza di temi e motivi.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA GRANDE BELLEZZA. REGIA: PAOLO SORRENTINO. INTERPRETI: TONI SERVILLO, CARLO VERDONE, SABRINA FERILLI, CARLO BUCCIROSSO, IAIA FORTE, PAMELA VILLORESI, GALATEA RANZI. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DURATA: 143 MINUTI.

mercoledì 15 maggio 2013

Hates - House at the End of the Street

La teen-ager Elissa e sua madre Sarah, divorziata, si trasferiscono per provare a ricominciare in una cittadina rurale. Hanno potuto permettersi d'andare ad abitare in un quartiere esclusivo perché, nella dimora accanto alla loro, tempo prima la giovanissima Carrie Ann Jacobson aveva trucidato i propri genitori, dandosi poi alla fuga nei boschi. Ora, nella casa sede dell'eccidio, vive soltanto suo fratello Ryan: la comunità lo tiene alla larga, il solo sceriffo mostra d'avere un atteggiamento non prevenuto nei suoi confronti. Tutto sembra mettersi per il meglio: Sarah simpatizza proprio col rappresentante locale della legge, mentre Elissa ha l'impressione d'aver trovato in Ryan uno spirito affine. Forse, però, la leggenda che la ragazzina omicida s'aggiri ancora a notte, fra gli alberi, non è totalmente destituita di fondamento...

Il titolo originale, "House at the End of the Street", potrebbe far pensare a un horror; in stile Raimi, ad esempio, o - andando ancora più indietro - sulle orme del Wes Craven di "Last House on the Left" (1972). Non è così, pure se lo spavento - è proprio il caso di dirlo - sta di casa, in questa suggestiva pellicola di Mark Tonderai (già autore dell'indie inglese "Hush"). Affermato autore di videoclip, il regista si muove agilmente tra arcane luci nella notte, ombre armate di coltello che passano veloci, botole rinserrate da pesanti catenacci, inquietanti ricordi d'infanzia. La suspense, in sostanza, pare s'addica al nostro, che a tratti dà però l'impressione di firmare un brillante esercizio, senza soverchia partecipazione.

Sia come sia, "Hates - House at the End of the Street" s'inscrive, con merito, nel numero dei thriller psicologici, dove a prevalere sono le suggestioni sugli effettacci, l'inquietudine sullo splatter. Siamo dalle parti, per comprenderci, di "White of the Eye" (1986) di Donald Cammell o di "The Stepfather" (1987) di Joseph Ruben per la sensazione d'un terrore vicino, presente, che si può appalesare da un momento all'altro: anche se il prototipo è infine sempre lo Hitchcock di "Shadow of a Doubt" (1943), insuperato ritratto dell'ambiguità del male. Tonderai gira con elegante padronanza, l'ambiente della provincia americana viene sfruttato con abilità, gli attori funzionano assai bene: soprattutto Jennifer Lawrence (qui ancora non gratificata dal grande successo di "Hunger Games", né meritata vincitrice dell'Oscar per la sua interpretazione ne "Il lato positivo"), che si dimostra una scream queen giovane quanto impeccabile.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

HATES - HOUSE AT THE END OF THE STREET. REGIA: MARK TONDERAI. INTERPRETI: JENNIFER LAWRENCE, MAX THIERIOT, GIL BELLOWS, ELIZABETH SHUE. DISTRIBUZIONE: EAGLE. DURATA: 100 MINUTI.

lunedì 13 maggio 2013

A Lady in Paris

Dopo la morte della vecchia madre (cagionata da una lunga, dolorosa malattia), Anne lascia l'Estonia per recarsi a Parigi ove dovrà prendersi cura di Frida, un'anziana signora sua connazionale emigrata in Francia molti anni prima. Scontrosa e aggressiva, la donna in realtà desidera soltanto l'attenzione di Stéphane, un suo ex-amante assai più giovane. Quest'ultimo, proprietario di un caffè donatole da Frida, cerca disperatamente di convincere Anne a non mollare e continuare a prendersi cura di Frida, anche contro la volontà di costei. In questo conflitto d'interessi, proprio quando le cose paiono essere precipitate, viene infine trovato un punto d'equilibrio che costituirà per Anne l'inizio d'una nuova vita.

Qualcuno l'ha già fatto, ma servirebbe ancor più approfondito, uno studio sui rapporti fra il cinema e la vecchiaia. Al pari della grande letteratura, la settima arte ha saputo proporre riflessioni profonde sull'argomento e, soprattutto, trovare mirabili figure da mettere al centro della rappresentazione, di volta in volta. Fosse pure una nota a pie' di pagina, un posticino se lo meriterà di sicuro la Frida di "A Lady in Paris", tra la "vieille dame indigne" di Allio e la deliziosa Maude di Hal Ashby, tra le "balene d'agosto" di Anderson e la Gertrud di Dreyer. Come quest'ultima, la nostra potrebbe porre a mo' d'esergo, sulla propria esistenza: "ho molto sofferto, e spesso ho sbagliato, ma ho amato".

Inoltre, nel bel film di Ilmar Raag, c'è il tema quanto mai attuale dell'incontro con il forestiero veduto come l'altro da sè, in una società ogni giorno di più multiculturale e "meticcia". Il regista estone, per soprammercato, s'inventa una eguale nascita fra i due personaggi principali, che gli fornisce il destro per raccontare un paese in trasferta, senza in alcun modo addolcire i toni in favore dello spettatore (la scena dell'incontro di Frida con i vecchi connazionali è d'una durezza senza sconti). La carta vincente della pellicola è, per certo, il racconto d'attriti e repentine dolcezze, di scontri e rappacificazioni che ci scorre sotto gli occhi, illuminato da interpretazioni straordinarie. Su tutto, in ogni caso, spicca una strepitosa Jeanne Moreau che mette in scena, anche fisicamente, la propria vecchiezza con una sorta di tenera impudenza - si veda la sequenza della seduzione rattenuta - che incanta per la malia che ne promana, lascia ammirati per il coraggio. Ad 85 anni suonati, una lezione di stile, di bravura.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

A LADY IN PARIS. REGIA: ILMAR RAAG. INTERPRETI: JEANNE MOREAU, LAINE MAGI, PATRICK PINEAU. DISTRIBUZIONE: OFFICINE UBU. DURATA: 94 MINUTI.