lunedì 2 dicembre 2013

Blue Jasmine

Jasmine, reginetta mondana di Park Avenue, era consorte del carismatico Hal, un uomo d'affari che la viziava e la lusingava oltre ogni limite. Ma il crac economico del marito, rivelatosi un truffatore, e la fine del loro matrimonio, l'hanno costretta ad abbandonare la propria vita agiata, in preda ad un crollo nervoso. Sola e in balìa degli antidepressivi, ella cerca aiuto e ospitalità nella modesta casa della sorellastra Ginger, a San Francisco. Il carico di disperazione e ansia che porta con sé la induce a spinger quest'ultima ad essere più ambiziosa in amore, scatenando le ire del di lei fidanzato Chili. Nel tentativo di trovare uno sbocco alla propria crisi, Jasmine dà pure il via alla relazione con un brillante diplomatico dalle grandi ambizioni politiche; ma l'incapacità di prender congedo dal proprio universo di smarrite illusioni e la malcelata mania di grandezza - sin dal suo nome, l'originale era un più banale Jeanette - la condurranno ad una nuova, dolorosa impasse...

Due sono, com'è noto, le corna dell'arte di Allen. Da una parte, troviamo commedie all'insegna della sua peculiare vis comica: in esse la confessione si fonde con l'umorismo, come nei migliori scrittori d'analisi, e nel rimpallo della battute guizza un'ironia che sa farsi, a tratti, finemente autodenigratoria. Dall'altra, v'è una vena drammatica - inaugurata dal poco apprezzato "Interiors" (1978), di elegante filiazione bergmaniana - che nel tempo s'è andata via via precisando, per dar infine corpo a un capo d'opera quale è "Crimini e misfatti" (1989) o a taglienti riflessioni morali di cui "Match Point" (2005) costituisce, nelle ultime stagioni, l'esempio più probante.

E' a questa seconda vocazione che risponde "Blue Jasmine", atteso dopo il controverso "Midnight in Paris" (2011) ed il deludente "To Rome with Love" (2012). Orbene, il ritorno in patria pare aver non poco giovato ad Allen, ché quest'ultimo lavoro ci pare possa esser iscritto senza fatica al novero delle cose sue più riuscite. Quasi una parafrasi di "Un tram che si chiama desiderio" (che, forse non a caso, la protagonista Cate Blanchett sta trionfalmente interpretando in teatro), il film offre al regista spunto per tratteggiare uno dei suoi meravigliosi ritratti muliebri che trovarono il vertice in "Un'altra donna" (1988), complice il magistero interpretativo di Gena Rowlands. Pure qui c'è una straordinaria attrice, la già citata Blanchett, ad aver parte fondamentale nella riuscita: è grazie a lei, alla sua attenzione ad ogni sfumatura del proprio personaggio, che Allen riesce nel difficilissimo compito di suscitare una sorta di empatia nei riguardi della protagonista.

Ovviamente, la regia esibisce meraviglie - basti veder la scelta d'aprire e chiudere con un monologo, od il gioco d'entrare e uscire dal passato senza soluzione di continuità - ed Allen, come tutti i sommi autori, mai giudica la figura femminile che ha creato. Se ne mostra senza indugi l'albagia, il disprezzo per tutto quello e tutti quelli che le appaiono comuni, nondimeno filtra codesta propensione attraverso il prisma della pietas: attraverso il quale ciò che percepiamo è una creatura smarrita, confusa, preda di angoscie e sensi di colpa smisurati. Si può non condividerne i gesti (ed il finale chiarisce un dettaglio di non poco conto, sul suo comportamento e sulla sua etica), vederla viziata e presuntuosa: è arduo, però, rifiutarle la tenerezza che si riserva a chi si senta preda d'un senso d'indecrittabile orfanità che ne strazia l'esistenza; ovvero, ad una Jasmine che s'avverta "blue". Malinconica. Triste. Disperata.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

BLUE JASMINE. REGIA: WOODY ALLEN. INTERPRETI: CATE BLANCHETT, ALEC BALDWIN, PETER SARSGAARD, SALLY HAWKINS, ANDREW DICE CLAY. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 98 MINUTI.

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