martedì 17 giugno 2014

Jersey Boys

Francis Castelluccio, classe 1934, non ha particolari ambizioni: figlio di italoamericani, sbarca il lunario facendo il barbiere nel New Jersey. Possiede, però, un dono speciale, che lo farà un giorno definire "Il piccolo ragazzo dal grande falsetto". Della sua voce fuori dal comune, s'accorgono il chitarrista Tommy DeVito ed il produttore Tom Crewe: ed è quest'ultimo, a convincere i due a formare una band stabile insieme a Bob Gaudio e Nick Massi. Ci mette un bel po', il gruppo, a raggiungere il successo; di fatti, soltanto nel 1962 i quattro non più giovanissimi componenti la squadra vedono in cima alle classifiche statunitensi il 45 giri "Sherry", seguito, ad appena due mesi di distanza, da "Big Girls Don't Cry". Da qui in avanti, però, continueranno a macinare hit a ripetizione, sbaragliando la concorrenza... 

Il rapporto che lega Clint Eastwood alla musica è notorio: compositore di varie colonne sonore e regista di pellicole quali "Bird" e "Honkytonk Man", l'84enne cineasta è infatuato di ogni genere alla base della cultura popolare americana. Aggiungere, quindi, agli argomenti trattati da cineasta il rock degli anni '50 mescolato al doo-wop - quello che Frank Zappa ebbe a definire "vaseline rock", e a sbertucciare con la singolare band dei Ruben And The Jets - deve aver interessato il nostro al punto tale da convincerlo ad accettare l'azzardo di portar sul grande schermo il successo di Broadway "Jersey Boys" (quattro Tony ed un Grammy, circa 3.500 repliche, una tenitura ininterrotta dal 2005 sino ad oggi). Tra gang, piccoli furti e ragazzi di strada, ci sarebbe materia per un bildungsroman violento e realista: di quelli prediletti da Martin Scorsese, per capirci. Probabilmente consapevole di ciò, Eastwood si è quindi accostato alla materia con circospezione e rispettando lo spirito dello show, fino a mantenere anche l'espediente dei personaggi che si rivolgono alla macchina da presa. 

Quello che ne vien fuori - grazie pure allo script di John Logan e Rick Elice, crepitante di battute - è un "biopic" musicale antico ma non troppo, quasi un "Glee" trasposto all'epoca della brillantina. Tuttavia, non decresce l'efficacia quando è di scena il background italoamericano - gustoso il ritratto del boss malavitoso locale, tracciato da un impagabile Christopher Walken - o l'epopea del Brill Building. Proprio l'ingresso in scena del tempio del pop - e luogo in cui la storia della musica compirà parecchie svolte - è ripreso con un geniale carrello verticale, che a ogni piano del palazzo mostra un segmento nascente di pop music. Poi, certo, c'è qualche concessione alle convenzioni del genere (si veda l'episodio della fuga di Francine, figlia di Frankie, che avrà uno sbocco tragico risolto, peraltro, in modo troppo rapido),  e se si vuole, infine, si potrà parlare di un episodio non indimenticabile, nella filmografia eastwoodiana. Tuttavia, dato che in ogni carriera inevitabilmente ce ne sono, preferiamo la leggerezza programmatica di questo "Jersey Boys" al grigiore celebrativo di "Invictus" o alla presunzione storiografica di "J.Edgar".
                                                                                                                                     Francesco Troiano

JERSEY BOYS. REGIA: CLINT EASTWOOD. INTERPRETI: JOHN LLOYD YOUNG, ERICH BERGEN, MICHAEL LOMENDA, VINCENT PIAZZA, CHRISTOPHER WALKEN. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 134 MINUTI. 

lunedì 16 giugno 2014

Synecdoche, New York

Maden Cotard, regista teatrale, mentre sta lavorando alla messa in scena di "Morte di un commesso viaggiatore", vede la propria esistenza andare in briciole. La moglie Adele l'abbandona, per continuar la carriera di pittrice a Berlino, portando con sé la figlioletta Olive; la sua relazione con l'affascinante Hazel è durata ben poco; lo affligge, inoltre, una depressione incombente e la sensazione d'essere un malato terminale. D'improvviso gratificato da un prestigioso e ricco premio, decide di riunire un gruppo di attori per mettere in scena una replica della sua vita, dentro ad un enorme hangar che riproduce i luoghi da lui frequentati. Un tale Sammy, che lo ha seguito di nascosto per anni, lo interpreterà nella finzione teatrale; mentre, nella realtà, sua figlia è caduta preda dell'influsso di Maria, amante della madre, mentre egli non riesce a dimenticare Adele...

E' assai difficile, raccontare la trama di "Synecdoche, New York". Presentato al Festival di Cannes nel 2008, è l'unico lungometraggio diretto da Charlie Kaufman, lo sceneggiatore prediletto da Spike Jonze ("Essere John Malkovich", "Il ladro di orchidee") e da Michael Gondry ("Human Nature", "Se mi lasci ti cancello", premiato con l'Oscar): difficilmente sarebbe approdato alle nostre sale, se la tragica morte del protagonista, Philip Seymour Hoffman, non l'avesse fatto ritornare di attualità. A parte un evidente elemento autobiografico (Hoffman recitò nel dramma di Miller la parte di Willy Loman, nel corso del 2012, al Barrymore Theatre di New York; un impegno che, a sentir le testimonianze di alcuni, gli costò parecchio, in termini di logorio nervoso), l'intero film pare rappresentare sotto traccia il dolore che ha accompagnato l'attore statunitense per lunghi periodi (riappalesatosi, infine, con il ritorno alle gravose dipendenze dalle quali, per molto tempo, era riuscito a tenersi distante).

Dicevamo delle difficoltà ermeneutiche della pellicola; chi abbia dimestichezza con il lavoro di Kaufman, non ne sarà, d'altro canto, sorpreso. Tra citazioni che spaziano da Tennessee Williams ("viviamo tutti in una casa in fiamme") a Shakespeare ("Tutto il mondo è un teatro e gli uomini e le donne non sono che attori"), dal Fellini di "8 e mezzo" all'Allen di "Io e Annie", il nostro riflette sugli scambi tra arte e vita, sul sogno di ricostruire un qualcosa che si fa borgesiana "mappa dell'inferno". Le nozioni d'identità, di tempo e di senso assumono colorazioni alle quali non siamo avvezzi: il titolo medesimo è un gioco di  parole tra Schenectady, la cittadina dove vive Caden (a proposito, il suo nome allude a una sindrome che fa credere morti), e la figura retorica della sineddoche, la parte per il tutto. Il cast - da Catherine Keener a Michelle Williams, da Samantha Morton a Tom Noonan - asseconda a meraviglia il disegno registico: ma nulla sarebbe com'è senza la prova strepitosa di Philip Seymour Hoffman. Il modo in cui, impercettibilmente, nel corso d'una conversazione o nel silenzio d'una pausa, una memorabile tristezza scende a velargli gli strumenti, è qualcosa che attiene ad un magistero naturale, ad un talento di quelli che si vedono davvero di rado. E che scompaiono, purtroppo, in un solo, sfortunato momento.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SYNECDOCHE, NEW YORK. REGIA: CHARLIE KAUFMAN. INTERPRETI: PHILIP SEYMOUR HOFFMAN, CATHERINE KEENER, MICHELLE WILLIAMS, SAMANTHA MORTON, TOM NOONAN. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 123 MINUTI.

lunedì 9 giugno 2014

Rompicapo a New York

Xavier Rousseau è un quarantenne parigino alle prese con un rapporto in crisi e due figlioli. Wendy, la sua compagna, ha deciso di preferirgli un fidanzato benestante ed americano e, con i bambini, ben presto si trasferisce a Manhattan. Non volendo rinunciare a vedere i piccoli e ad occuparsi della loro educazione, anch'egli deve lasciare Parigi per New York, dove è costretto a ripartire da zero. Appena arrivato, trova solidarietà e aiuto presso Ju ed Isabelle, l'amica lesbica che voleva esser madre e a cui egli ha donato il seme. Sistematosi rapidamente in un appartamento di Chinatown, Xavier si dedica al romanzo che sta scrivendo, si prende cura dei suoi bimbi, mette in piedi un "matrimonio bianco" al fine di ottenere la cittadinanza statunitense ed ospita Martine, la sua prima fidanzata in viaggio d'affari nella Grande Mela: ed è proprio con lei che, inatteso, si rifà vivo il sentimento che li aveva legati, un tempo...

"Rompicapo a New York" è il pannello finale d'un trittico iniziato con "L'appartamento spagnolo" (2002), simpatica pellicola sugli usi e i costumi della generazione Erasmus, divenuta oggetto di un culto magari spropositato. Il successivo "Bambole russe" (2005), con Xavier Russeau in trasferta a San Pietroburgo, risulta di poi poco riuscito: una sorta di manuale d'amore per trentenni, gravato da personaggi al limite della caricatura. Ora Cédric Klapisch riprende le fila del racconto, per presentarci il suo eroe approdato alla quarantina e ancora in cerca d'una possibile maturità: padre affettuoso e scrittore perennemente in fuga, stavolta il nostro sembra deciso a mettere un punto fermo nella propria esistenza. 

Regista discusso e discutibile, accusato di "carinismo" dai detrattori ed appassionatamente sostenuto dai fan sin dall'epoca oramai lontana di "Ognuno cerca il suo gatto" (1996), Klapisch ha ottenuto il suo risultato più convincente con "Aria di famiglia" (1996): forse non a caso, la trascrizione cinematografica della commedia omonima che gli autori - Jean-Pierre Macri ed Agnès Jaoui - avevano adattato per il grande schermo in modo esemplare. Lasciato a se stesso, il cineasta di Neuilly-sur-Seine risulta come innamorato dei propri pensum, posti a commento di commedie non in possesso del ritmo di quelle classiche ch'egli, probabilmente, adora. Infine, la pretesa di raccontare, nella citata trilogia, le vicende di un Antoine Doinel dei nostri giorni suona davvero eccessiva. Ciò detto, con "Rompicapo a New York" egli sforna il risultato migliore della propria carriera: il rimpallo delle battute è per una volta felice, quelle che in precedenza risultavano figurette qui acquistano spessore e interesse (e mai il lavoro degli attori, a iniziare da quello Romain Duris, è risultato così godibile), il ritratto d'una modernità ch'è coloratissimo caos sentimentale si compone non senza divertite finezze (le riflessioni del protagonista sugli eventi, in un immaginario dialogo con Schopenhauer e Hegel). Insomma, Xavier il suo gatto pare averlo trovato: chissà, anche Klapisch - forte di questo bel risultato - potrebbe ora dedicarsi a più interessanti itinerari.

ROMPICAPO A NEW YORK. REGIA: CEDRIC KLAPISCH. INTERPRETI: ROMAIN DURIS, AUDREY TATOU, CECILE DE FRANCE, KELLY REILLY. DISTRIBUZIONE: ACADEMY TWO. DURATA: 117 MINUTI.
 

lunedì 2 giugno 2014

Le Week-End

Nick e Meg, due docenti inglesi sulla sessantina coniugati da un trentennio, si recano a Parigi, il luogo dove trascorsero la loro luna di miele, per passarvi un fine settimana. Ben decisi a godere appieno dei  piaceri offerti da una città che, ai loro occhi d'anglosassoni, risulta diversa e irresistibile, in realtà sono in cerca di un nuovo equilibrio: i figli, oramai adulti, si sono resi indipendenti ed il loro matrimonio si è ridotto ad una faticosa convivenza, a volte appesantita dall'insofferenza. Scartato da Meg il modesto alberghetto di Montmartre che Nick aveva scelto, la breve vacanza inizia all'insegna del lusso, con la suite in un hotel di primo rango e la frequentazione di ristoranti top. La ricerca della gioia si concretizza in piccole trasgressioni (la fuga rocambolesca di fronte al conto troppo salato di un pasto), in tentativi di rivitalizzare una sessualità spentasi nel corso degli anni, nella partecipazione alla festa in casa di un antico amico di Nick (che ha ottenuto fama e successo, e s'è appena risposato con una donna assai più giovane). Nel corso della serata vengono rievocati i loro trascorsi di impegno politico radical, ma tornano allo scoperto pure fastidiose ruggini e ferite non rimarginate: le ragioni della loro infelicità si acclarano, ma emerge nello stesso tempo un sentimento d'amore mai rinnegato, ed ancora vitale.

Non è una novità, la collaborazione fra il regista di "Notting Hill" Roger Michell e lo scrittore britannico d'origine pakistana Hanif Kureishi. Il loro rapporto di lavoro prese il via nel 1993 con l'adattamento de "Il Budda delle periferie", romanzo che ha reso celebre nel mondo il narratore, poi proseguendo con "The Mother" (2003) e "Venus" (2006), entrambi incentrati sul tema della terza età. Quest'ultimo "Le Week-End" può, quindi, essere considerato il pannello finale d'un trittico sull'argomento: ed è, pure, il più riuscito del lotto, quello dove il possibile clima drammatico è stemperato e bilanciato da un'ironia lieve ma incisiva, che invita lo spettatore alla condivisione.

Abilmente mescolando vari temi e suggestioni, all'insegna di uno humour che pare venire dalla scuola della grande commedia americana alla Neil Simon, "Le Week-End" azzecca il tono sin dalle prime battute e - grazie pure a due attori superlativi, diretti con maestria - s'inoltra con coraggio nelle terre azzardose dell'immalinconimento e dei rancori reciproci, mai smarrendo il bandolo d'una tenerezza contagiosa. Se manca il lieto fine tradizionale, rimane tuttavia ampio spazio per la speranza: la vita, in fin dei conti, può ben essere un passo di danza improvvisato davanti alle immagini di un vecchio film. Quello che sta passando in tv; o quello di cui s'è stati inconsapevoli interpreti, nel corso del tempo.

                                                                                                                                     Francesco Troiano

LE WEEK-END. REGIA: ROGER MICHELL. INTERPRETI: LINDSAY DUNCAN, JIM BROADBENT, JEFF BRIDGES. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 93 MINUTI.