lunedì 29 dicembre 2014

Big Eyes

Margaret Ulbrich è una giovane donna priva di mezzi, che licenzia per passione e per necessità dipinti raffiguranti dei teneri marmocchi dagli occhi giganteschi. Allontanatasi da suo marito nella sola maniera  possibile a quei tempi (siamo negli Usa degli anni '50), i bambini più poche cose caricate sull'auto e via, ella s'imbatte, dipoi, in Walter Keane, un "wannabe artist" scaltro e privo di scrupoli. Intuendo, in quelle opere vagamente kitsch ed intrise di sentimentalismo, delle potenzialità commerciali, egli - impalmata la pittrice - inizia a spacciarle per proprie e a prender a venderle con metodi inediti, tuttavia efficaci. In breve tempo, un enorme quanto inatteso successo arride ai lavori, al punto che Walter può edificar un autentico impero su di una colossale menzogna, riuscendo ad abbindolare l'America intera. Sino a che Margaret decide di ribellarsi, intentando al consorte una causa di divorzio in cui sostiene di essere lei, la vera autrice dei quadri...

In un'epoca nella quale l'arte femminile non godeva di alcuna reale considerazione (quella di Margaret O'Keefe essendo l'eccezione tesa a confermar la regola), il plagio che Walter commette ai danni della coniuge è reso possibile dal modo in cui si sviluppavano tantissime storie d'amore allora, prendendo le mosse dalla seduzione adorante e sfociando nella sottomissione più o meno inzuccherata. Tuttavia, il femminismo si avvicinava a passo spedito e Margaret si trovò in qualche modo a esserne un apripista. Nata nel 1927 in una famiglia metodista del Tennesse, reduce da studi artistici, la ragazza - carattere introverso e solitario - principiò a dipingere per esternare "le proprie emozioni più profonde". Oggi ha 87 anni, vive nel Connecticut e Tim Burton, divenutone amico, ha acquistato alcune tra le sue tele, senza mai nascondere ch'esse sono state per lui fonte d'ispirazione.

Lavorando su una solida sceneggiatura di Scott Alexander e Larry Karaswezski, grandi esperti di biopic (il loro script sul comico Andy Kaufman è alla base di "Man on the Moon"; quello sull'editore Larry Flynt, della pellicola omonima; inoltre, hanno prodotto un film sull'attore Bob Crane, "Autofocus"), Burton ha messo in scena un racconto sempre illuminato dalla luce solare, nel quale i personaggi indossano delle mise pastello in abitazioni color pastello dotate di piscina e di angolo bar. Fedele agli avvenimenti reali sino alla pignoleria, il regista ha poi lasciato mano libera a Christoph Waltz, attore dotatissimo al quale però bisogna tener la briglia corta (e qui, di fatti, più d'una volta gigioneggia, lasciandosi trascinare dall'istrionismo del personaggio); un poco del Maestro lo si trova in certe scene, a esempio negli occhi di Amy Adams che piange e guida nell'unica scena notturna. Per il resto del metraggio, il cineasta californiano sparisce, quasi questa pellicola nascesse dal bisogno di rendere omaggio ad una persona "presente" con i suoi soggetti in tutto il proprio percorso artistico. Intendiamoci, l'insieme possiede una sua piacevolezza e non ci si annoia: ma siamo ben lontani dai capi d'opera burtoniani, e riferire d'una piccola delusione non ci sembra invero fuori luogo.

BIG EYES. REGIA: TIM BURTON. INTERPRETI: CHRISTOPH WALTZ, AMY ADAMS, TERENCE STAMP, KRYSTEN RITTER, JASON SCHWARTZMAN, DANNY HUSTON. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 104 MINUTI.

mercoledì 24 dicembre 2014

American Sniper

Chris Kyle, appartenente al corpo d'élite militare degli U.S. Navy SEAL, viene inviato in Iraq con una missione ben determinata: guardar le spalle ai propri commilitoni, proteggerli dalle insidie preparate dal nemico. La sua straordinaria precisione di cecchino salva le vite di innumerevoli compatrioti sul campo e, mentre i racconti della sua glaciale determinazione si diffondono, viene soprannominato "Leggenda". Frattanto, la sua reputazione è cresciuta anche sul fronte avverso, a tal punto che viene messa una taglia sulla sua testa: egli è divenuto il bersaglio numero uno per gli insorti. Allo stesso tempo, Chris si trova a combattere una battaglia in casa propria nel tentativo d'essere sia un buon marito sia un buon padre, pur trovandosi per tanto tempo dall'altra parte del mondo. Nonostante il pericolo e l'elevatissimo prezzo che dovrà pagare la sua famiglia, la rischiosa missione in Iraq si svolge per i previsti quattro anni, nel corso dei quali egli riesce a tener sempre fede al motto dei SEAL, "che nessun uomo venga lasciato indietro". Ritornato infine a casa dalla moglie e dai figli, il reduce scopre che ciò che proprio non riesce a lasciarsi alle spalle è la guerra...

Avrebbe dovuto dirigerlo sulle prime David O.Russell, questo "American Sniper"; dipoi era subentrato, anch'egli decidendo di rinunciare, Steven Spielberg; infine è stato l'ultimo cineasta "classico" degli Usa,  Clint Eastwood, a raccogliere il testimone ed a condurre il progetto in fondo. Fondato sull'autobiografia di Chris Kyle (ha venduto un milione di copie), tiratore scelto accreditato di almeno 160 bersagli umani colpiti, il film colloca al centro della vicenda un ragazzone figlio della tradizione texana, cui il padre ha insegnato sin da bambino l'uso del fucile da caccia, ed al quale è parso dipoi naturale andare a servire il proprio paese, eliminando quelli che lui e i suoi compagni chiamano "selvaggi". Fosse uscita negli anni '70,  una pellicola così sarebbe stata considerata reazionaria e guerrafondaia, liquidata magari perfino in poche righe; oggi, in tempi meno ideologizzati di quelli, sarà oggetto - si spera - di analisi un poco più approfondite.

Intendiamoci, "American Sniper" è opera per nulla priva d'ambiguità: mettere assieme la disumanità del cecchino con il dramma di un nucleo familiare che attende per mille giorni, in Texas, un consorte ed un genitore affettuoso, è compito azzardoso e dall'esito incerto. Vero è che Eastwood si tiene, saggiamente, lontano da ogni tentazione eroicizzante: il rosario delle uccisioni è sgranato senza musiche, dentro ad un silenzio che agghiaccia, con lo schiocco del colpo che arriva dopo il proiettile, dato che esso viaggia al doppio della velocità del suono. Non v'è cameratismo allegro, tra questi assassini di guerra assoldati con mercede: ma a dire dell'odiosità di un conflitto priva di necessità che non fossero bassamente mercantili, basti citar l'episodio di un commilitone del nostro che vuole portare a casa un bel brillante per la propria fidanzata, comprato a poco prezzo da infelici iracheni costretti alla fuga. Altro che libertà, democrazia o Costituzione! Il conservatore Eastwood non ci fa assistere a prese di coscienza mirabolanti (che, d'altro canto, nella realtà non vi furono),  però dissemina il racconto di piccole, allarmanti tracce: il fratello del cecchino, divenuto Marine, che grida "voglio lasciare questo posto di merda"; Chris supplice a sperare che un bimbo non raccolga un'arma pesante da terra, per non doverlo poi freddare; e l'uccisione del suo doppel di parte contraria, "Il macellaio", freddato a due chilometri di distanza, con il viso che scoppia in mezzo ai panni stesi su un muretto, un attimo prima del lontanissimo "punf".

In sottofinale il nostro, di nuovo alle prese con la vita civile, si trova da uno psichiatra che gli domanda se per caso egli non provi rimorsi nell'aver cagionato tanti lutti, nell'aver stroncato un così alto numero d'esistenze. Egli risponde che no, ha fatto il suo dovere ed è pronto a presentarsi davanti al Creatore con la certezza di potere giustificare ogni singola morte: c'è, però, come un'incertezza, un lieve sperdimento, mentre egli pronuncia queste parole (ed è eccezionalmente bravo Bradley Cooper, a coronamento d'una superlativa prova d'attore, a saperlo rendere). Chris Kyle, il killer infallibile, soccomberà a una peculiare forma di fuoco amico: un ex-marine, tormentato da turbe psichiche e che egli stava cercando di aiutare, lo sopprime mentre stanno facendo il tiro al bersaglio. Sopravvissuto ai sunniti ed agli sciiti, fatto fuori dal giovane della porta accanto: uno scherzo crudele del destino, o la conferma che l'America - suprema giustiziera arrogantemente autonominatasi - è, forse, la nazione più di ogni altra necessitante di cure.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

AMERICAN SNIPER. REGIA: CLINT EASTWOOD, INTERPRETI: BRADLEY COOPER, SIENNA MILLER. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 134 MINUTI.

giovedì 11 dicembre 2014

The Imitation Game

1939, Inghilterra. Le sorti della guerra sono negative per la Gran Bretagna: i tedeschi stanno avendo la meglio su tutti i fronti e, nel governo, c'è preoccupazione. L'autentico asso nella manica del nemico è il cosiddetto "Codice Enigma", un linguaggio cifrato che viene considerato pressoché inviolabile. E' per questa missione impossibile che viene radunato un gruppo di specialisti, formato dal campione degli scacchi Hugh Alexander; dal matematico scozzese John Cairncross; da Peter Hilton, precoce laureato di Oxford; da Furman e Richards, linguisti. A costoro si aggiunge una ragazza, Joan Clarke (una Keira Knightley sempre più brava), laureata in matematica a Cambridge; e, per ordine di Winston Churchill, a capo del progetto si colloca il geniale matematico Alan Turing. Il manipolo di studiosi opera a Bletchley Park, nel Buckinghamshire: infiniti sono i tentativi di sciogliere il rompicapo, ma il leader nutre speciale fiducia in una propria macchina di decrittazione elettro-meccanica, da lui denominata Christopher... 

Basato su un libro di Andrew Hodges, "The Imitation Game" è, in primo luogo, il racconto veritiero della vita di Alan Turing: nato nel 1912, venne snobbato ed ostracizzato - nonostante i contributi che diede allo studio della logica e della matematica - per la sua omosessualità (che, non dimentichiamolo, era annoverata fra i reati penali, nel suo paese, fino al 1967). L'incipit del film ci mostra appunto le forze dell'ordine che - penetrate nell'abitazione del nostro per indagare su una segnalazione di furto con scasso - finirono invece per arrestare lo stesso con l'accusa di "atti osceni", incriminazione che lo avrebbe portato a una devastante condanna, appunto, per pederastia. Morì suicida il 7 giugno 1954, dopo aver subito la feroce umiliazione della castrazione chimica, ingerendo una mela avvelenata con del cianuro di potassio.

La narrazione procede per salti temporali, avanti ed indietro, mostrandoci il periodo dell'adolescenza del protagonista, vittima del bullismo dei compagni e amico del solo Christopher, pure egli interessato ai temi prediletti dal sodale ed a lui legato da una tenero rapporto. La sceneggiatura di Graham Moore, abilmente congegnata, costruisce la ricerca della chiave per disserrar l'uscio di Enigma in guisa di un thriller psicologico; particolare cura è riservata al tratteggio delle psicologie dei personaggi, anche di quelli secondari, e alla resa del clima di quegli anni, dominato dalla logica del sospetto (difatti v'è, nel gruppo di ricercatori, chi lavora per i russi). "E' una storia che insegna il valore della comunicazione - ha dichiarato Benedict Cumberbatch, inarrivabile nei panni del protagonista - e quanto sia importante, attraverso il dialogo, celebrare le differenze, ricercando quello che ci unisce anziché lasciarci dividere dalla paura delle diversità". Diretto dal norvegese Morten Tydlum - reduce dai trionfi di "Headhunters", purtroppo inedito da noi in sala, adrenalinica trasposizione in celluloide del poliziesco di Jo Nesbo "Il cacciatore di teste" - con un gran senso del ritmo e una rara attenzione alle sfumature emotive, "The Imitation Game" è uno tra i film - assieme a "Big Eyes" di Tim Burton e ad "American Sniper" di Clint Eastwood - capaci di far sì che il 2015 cinematografico si apra, davvero, sotto i migliori auspici.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

THE IMITATION GAME. REGIA: MORTEN TYDLUM. INTERPRETI: BENEDICT CUMBERBATCH, KEIRA KNIGHTLEY, CHARLES DANCE. DISTRIBZIONE: VIDEA. DURATA: 120 MINUTI.

mercoledì 10 dicembre 2014

St.Vincent

Dopo la separazione dei genitori, il dodicenne Oliver si è trasferito in una nuova casa assieme a sua madre, un'infermiera oberata di lavoro e in attesa del divorzio. Nell'abitazione accanto vive Vincent de Van Nuys, pensionato alcolista e misantropo, scommettitore accanito di corse di cavalli e fidanzato con una spogliarellista russa incinta. Tra il piccolo ed il suo - all'apparenza - scorbutico vicino di casa, si stabilisce un bizzarro sodalizio: la madre del ragazzino lo assume per fare il baby-sitter ad ore, ed è così che Oliver scopre come il suo nuovo amico sia, in realtà, un veterano di guerra; un reduce dal Vietnam, che nasconde un triste passato e ha dedicato svariati anni ad assistere la moglie, ricoverata in un istituto a causa della gravità della sua malattia...

Serata d'onore per uno dei più grandi attori viventi, "St.Vincent" offre a Bill Murray il destro per una ulteriore variazione della sua nota maschera estroversa. Bel modo di coronare una carriera iniziata con la notorietà portatagli dalla partecipazione al televisivo "Saturday Night Live" ed esplosa con la presenza nel trio dei "Ghostbusters" (1984), pellicola campione d'incassi firmata da Ivan Reitman, che consacra la straordinaria vis comica del nostro. Da qui, prende però il via un tragitto in cui egli ha, più di una volta, rifiutato le strade più facili, per azzardare scelte impegnative: sono indimenticabili le sue prove in "Ricomincio da capo" (1993), metafisico gioco narrativo concepito da Harold Ramis; "Lost in Translation" (2004) di Sofia Coppola, in cui è un attore in decadenza che vive in un albergo di Tokyo; "Broken Flowers" (2006), diretto da Jim Jarmusch, dove si cala nei panni di un maturo e stralunato dongiovanni che si mette in cerca, tra le donne del suo passato, della madre d'un figlio che neppure immaginava di avere.

In "St.Vincent" (coadiuvato da un'ottima Melissa McCarthy, la madre di Oliver, e da Naomi Watts, convincente nel ruolo della spogliarellista russa), Murray padroneggia la vicenda con rara maestria: se è vero che la storia del cinema, da "Il monello" a "Nuovo Cinema Paradiso", da "Up!" a "Il sesto senso" è piena di opere che s'incentrano sulla speciale funzione cognitiva ed autocognitiva che il rapporto fra il grande ed il piccino figlia, è fuori di discussione che qui (grazie pure alla felice alchimia fra i due attori: l'undicenne Lieberher è irresistibile),  tra la "rieducazione" di Oliver a furia di pomeriggi all'ippodromo e frequentazioni di "signore della notte", il ritmo è travolgente, al di là di alcune situazioni più prevedibili e sfruttate (la lotta con i bulli della scuola, il ballo al ritmo del juke-box). La vena di malinconia, lo spleen sotterraneo che permea tutta la vicenda si scioglie nella commozione di un finale che non riveleremo: ma alla furbizia dell'esazione della lacrima si rinuncia, in fin dei conti per uno come St.Vincent finanche la santità è di tipo peculiare.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ST.VINCENT. REGIA: THEODORE MELFI. INTERPRETI: BILL MURRAY, JAEDEN LIEBERHER, MELISSA McCARTHY, NAOMI WATTS. DISTRIBUZIONE: EAGLE. DURATA: 102 MINUTI.



Jimmy's Hall

Nel 1921, in un'Irlanda dilaniata da una sorta di guerra civile, Jimmy Gralton aveva creato nel suo paesino un locale in cui era possibile danzare, tirare di boxe, apprendere il disegno, partecipare ad altre attività culturali. Accusato di comunismo, era stato obbligato ad abbandonare il proprio paese per recarsi negli Stati Uniti. Due lustri più tardi, Jimmy decide di tornare, e sono i giovani a convincerlo a riaprire il locale. Gralton è inizialmente incerto sul da farsi; però, dopo poco, cede alle richieste. Coloro che in passato gli si erano contrapposti, tornano puntuali a contrastarlo. 

"Fare cinema implica una fatica fisica e non so se io ho ancora tutta l'energia necessaria. Prima di decidermi a girare questo film, pensavo che il mio precedente sarebbe stato l'ultimo. Per cui... Chissà!". Speriamo proprio che Loach receda dal proposito di ritirarsi dall'attività registica, dopo questa ultima fatica: il 78enne autore inglese appare in magnifica forma e - pensando ai ritmi di lavoro d'altri suoi coetanei, da Allen a Eastwood - c'è da augurarsi che la vitalità non lo abbandoni sin da ora. Certo che il percorso da lui compiuto è impressionante: dall'esordio nel lungometraggio con "Poor Cow" (1967), che ancora oggi colpisce per vigore ideologico e suggestione visiva, il suo cinema già nel '71 toccava un vertice con "Family Life" (1971), storia d'una ragazza dei sobborghi popolari affetta da schizofrenia,  narrata ispirandosi alle teorie di Ronald Laing. Dopo essersi dedicato per un lungo periodo alla forma del documentario, scontrandosi puntualmente con la censura del governo Thatcher, il nostro fa ritorno negli anni '90 al cinema di fiction, con una serie di splendide opere sempre legate alla realtà della sua patria: si va da "Riff Raff" (1991) a "Piovono pietre" (1993), da "Ladybird Ladybird" (1994) a "Terra e libertà" (1995), da "My name is Joe" (1998) a "Il vento che accarezza l'erba" (2006, Palma d'oro a Cannes), per citare solo i titoli più significativi.


In questo "Jimmy's Hall", torna a quell'Irlanda che aveva già messo al centro del suo interesse ne "Il vento che accarezza l'erba" e lo fa in modo del tutto peculiare. Perché i protagonisti di questa vicenda sono persone che difendono quello che si sarebbe potuto all'epoca definire un dancing. Scritto dal fidato cosceneggiatore abituale Paul Laverty, ispirato ad una pièce teatrale di Donal O'Kelly, il film racconta con sostanziale fedeltà la parabola del rivoluzionario James "Jimmy" Gralton: ma, sotto una scorza più "leggera" del consueto, è una specie di catalogo di temi e convincimenti del cineasta del Warwickshire. C'è un popolo, con la sua cultura e i suoi bisogni, in primis quel senso della socialità che altri vorrebbero irreggimentare (i fascisti, il potere, la Chiesa: i nemici di sempre): la motivazione di tale avversità risiede nel convincimento che la libera circolazione delle idee sia un pericolo, e vada perciò sempre ostacolata per conservare un comodo - per le classi dominanti, naturalmente - status quo. La maestria di Loach consiste nel non fare una pellicola ideologica o a tesi: pure la figura del protagonista è presentata con le sue fragilità e debolezze, laddove quella del sacerdote suo fiero oppositore mostra di comprendere perfettamente il valore etico del suo avversario, che arriva in privato a paragonare ai protomartiri cristiani. Lo scioglimento prevede la sconfitta di Jimmy, ma il finale è in qualche modo lieto: i giovani del luogo, al momento dell'espulsione, gli si fanno intorno, lo circondano d'affetto. Il seme del pensiero, se non della rivolta, è stato gettato: le rivoluzioni sono imperfette, è per questo che bisogna continuare a farle.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

JIMMY'S HALL. REGIA: KEN LOACH. INTERPRETI: BARRY WARD, SIMONE KIRBY, JIM NORTON, AISLING FRANCIOSI. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 109 MINUTI.

lunedì 8 dicembre 2014

Pride

Siamo nell'Inghilterra thatcheriana, nel periodo in cui - tra il 1984 e l'85 - la lady di ferro sta cercando di piegare la resistenza dei minatori, impegnati in un lungo, drammatico sciopero a difesa dei loro posti di lavoro. Alcuni attivisti del movimento omosessuale, mossi dalla solidarietà verso quanti - proprio come loro - sono in lotta contro un sistema che emargina gli ultimi, scelgono di dare il via ad una raccolta di fondi per sostenerli. In particolare, tra gli undici gruppi LGSM (Lesbians and Gay Support the Miners) si rivela attivo quello operante a Londra e sorto intorno alla libreria Gay's the World in Marchmont Street: capitanato dal carismatico Mark Ashton (morto di Aids nel 1987, è ricordato nella storia gay come un santo ed un eroe), esso decise di aiutare i minatori della valle di Dulais, nel sud del Galles...

Nato dall'incontro fra l'entusiasmo dell'autore teatrale e sceneggiatore Stephen Beresford e del regista d'opera e teatro Matthew Warchus (neodirettore del prestigioso Old Vic Theatre di Londra), "Pride" è stato presentato all'ultima edizione del Festival di Cannes, ricevendo il plauso della critica e l'applauso del pubblico. Basato su di una storia vera, il film mescola con sapienza gli accadimenti reali, una certa dose di finzione e tutti quegli elementi di piacevolezza che fanno di un film del genere un sicuro cult. Delle durezze dell'epoca, ben poco è mostrato: le cariche di centinaia di poliziotti, anche a cavallo, e le feroci bastonature di manifestanti sono confinati ad un documento artigianale d'epoca, che funziona da incipit per la pellicola. Per il resto, salvo qualche parola di sdegno dei passanti durante il Gay Pride, la bontà prevale: e ciò aiuta il film ad assumer quel tono favolistico che tanto successo gli sta fruttando nei paesi anglosassoni.

Sia ben chiaro, la nostra non vuol essere una critica: opere del genere arrivano con più facilità a platee ampie, ed in fin dei conti il loro scopo vuole essere, pure, di suscitare il più vasto riverbero di simpatia possibile nei confronti di tematiche o vicende come queste. A render la pietanza prelibata, d'altra parte, vi è una compagine di attori straordinaria: i due mondi e le due generazioni trovano, rispettivamente, in Ben Schnetzer (il già citato leader dei gay) e Dominic West (il ballerino Jonathan Blake, al centro d'una travolgente sequenza di danza sulle note di "Shame Shame Shame") da una parte, Imelda Staunton (la irresistibile Hefina, colei che dà lo slancio a superare i pregiudizi nei confronti degli omosessuali diffusi anche tra i minatori e le loro famiglie) e Bill Nighy (un elegante, vecchio minatore, segretamente gay da una vita) delle perfette incarnazioni. Contrapponendo il bene di tutti all'interesse del singolo, la società all'individuo, il capitalismo al socialismo, "Pride" è una scanzonata commedia marxista che - qualcosa prendendo in ispirazione da "Full Monty"(1997) o da "Billy Elliott" (2000) - parla al cuore e al cervello come poche altre: un bel modo di passar due ore, investendo in un divertimento gradevole e intelligente.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

PRIDE. REGIA: MATTHEW WARCHUS. INTERPRETI: IMELDA STAUNTON, BILL NIGHY, DOMINIC WEST, PADDY CONSIDINE, ANDREW SCOTT, BEN SCHNETZER. DURATA: 120 MINUTI. DISTRIBUZIONE: TEODORA FILM.

domenica 7 dicembre 2014

Storie pazzesche

Un uomo si vendica di quanti nella vita gli hanno fatto del male, riunendoli in un aereo; un gangster capita casualmente nella tavola calda dove è impiegata la figlia di una delle sue vittime; una lite fra automobilisti assume l'aspetto di un massacro iperbolico; un ingegnere, specializzato in demolizioni, perde la testa per via di varie multe; un miliardario conduce trattative clandestine al fine d'evitare una tragedia familiare; una sposa tradita alla cerimonia di nozze dà il via ad una escalation di efferatezze.


Presentata all'ultima edizione del festival di Cannes, dove è divenuta un instant cult, "Storie pazzesche" è una pellicola geniale e truculenta, bizzarra e sfrontata, che l'argentino Damian Szifron ha diretto con talento pari alla scaltrezza. La scaturigine pare essere la commedia all'italiana, ma ugualmente serie tv sul genere di "Storie incredibili" (prodotta da Spielberg), pellicole a episodi come "New York Stories", un libro di novelle quale "Nove Storie" di J.D.Salinger, o quelle antologie dai titoli così simili fra loro, da "I racconti dei maestri del crimine" a "I racconti dei maestri del terrore". In più, c'è una wilderness forte e la vendetta è l'elemento cardine, più nel senso tarantiniano del termine che in quello chanwookiano: il tutto, per soprammercato, è saldamente agganciato alla realtà del paese che vi viene rappresentato.

"Spesso penso alla società capitalistica occidentale come a una specie di gabbia trasparente che ci rende insensibili e distorce i nostri rapporti con gli altri. Questo film racconta le storie di alcuni individui che vivono dentro questa gabbia senza esserne consapevoli. E quando arrivano al punto di rottura, anziché reprimersi - o deprimersi - come facciamo quasi tutti, partono in quarta senza più fermarsi". La bravura di Szifron consiste nel dissimulare fra le pieghe della narrazione codesto sottotesto ideologico, lasciando che le sue "storie" si snodino scattanti fra impulsi ribellistici, furiose rese dei conti, reazioni survoltate ed implosioni esplosive (l'episodio con lo strepitoso Ricardo Darin). Un montaggio serrato, infine, dà al tutto una compattezza ed un nitore travolgenti: giusto a mezza via fra cinema d'autore e commerciale, pulp e pop, farsa e kitsch, l'operina felicemente si situa, corroborata da una formidabile colonna sonora di Gustavo Santaolalla.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

STORIE PAZZESCHE. REGIA: DAMIAN SZIFRON. INTERPRETI: RICARDO DARIN, LEONARDO SBARAGLIA, DARIO GRANDINETTI, ERICA RIVAS. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 115 MINUTI.



mercoledì 3 dicembre 2014

Magic in the Moonlight

Berlino, 1928.  Il famoso prestigiatore cinese Wei Ling Soo, in grado di fare sparire un elefante o di teletrasportarsi entusiasmando la platea, è nella vita reale Stanley Crawford, un gentiluomo inglese sentenzioso cui è affidato da un vecchio amico un curioso incarico: indagare su una sedicente medium (impegnata a circuire una ricchissima famiglia americana in vacanza sulla riviera francese), per stabilire se ella possieda autentiche doti divinatorie o, come qualcuno vorrebbe dimostrare ad ogni costo, sia solo una fascinosa ciarlatana . Fattosi passare per un uomo d'affari, Stanley incontra la giovane Sophie Baker e se ne innamora subito: ma per un uomo razionale e alquanto sprezzante come lui è difficile accettare il sentimento, peraltro ricambiato. Un temporale ed il ricovero della zia adorata faranno, infine, crollare le sue resistenze: forse il soprannaturale non esiste, però l'amore, innegabilmente, sì. 

Per la seconda volta in Francia dopo "Midnight in Paris", Allen torna con questo suo 44esimo film ad un tema che l'ha da sempre affascinato: la magia ed i suoi corollari, coma la divinazione, l'illusionismo e l'ipnosi (titoli? Si va da "Stardust Memories" ad "Alice", da "Ombre e nebbia" a "La maledizione dello scorpione di giada", da "Scoop" a "Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni"). La confezione di lusso - la luce della Riviera Francese anni Venti pare quella dei quadri impressionisti, i costumi ce li saremmo immaginati indosso ai protagonisti di "Tenera è la notte" di Scott Fitzgerald - non inganni: dietro lo scintillio generale, tra le eleganti decappottabili ed i cappellini a cloche, si consumano gli scampoli della Jazz Age mentre la Germania sta incubando il nazismo (non a caso, la pellicola si apre proprio a Berlino, tra un pubblico che non potrà ignorare a lungo gli effetti della Repubblica di Weimar). Insomma, le promenade lungo la Costa Azzurra, il gusto della comédie au champagne hanno un retrogusto malinconico, ben incarnato dal blend agrodolce della storia

Il cinema di Allen, come giunge sempre all'alternativa tra "orribile o miserrimo" di "Io e Annie", sovente s'arrovella pure attorno allo iato tra la realtà e la sua illusione. Una risposta precisa non v'è, e non la troverà neppure Stanley Crawford, perché per il cineasta-demiurgo l'importante è continuare a far domande. Tra un riferimento cinematografico e l'altro (si va da "My Fair Lady" di George Cukor a "Un amore splendido" di Leo McCarey), Allen continua a diteggiare su una tastiera ormai ben conosciuta dai suoi estimatori, che tuttavia non si stancano di ascoltarne le infinite variazioni. Qui, gli esecutori sono tra i più ispirati: Colin Firth gioca con raffinatezza tra cinismo e arroganza, per mascherare le intermittenze del cuore; Emma Stone è in perfetta sincronia con il tempo comico del regista. Insomma, per dirla col Maestro, se "l'eternità è troppo lunga, specialmente verso la fine", non resta che gettare la maschera cartesiana ed abbandonarsi all'illusione. Ricordando che - e lo sapevamo già dagli oramai remoti tempi di "Manhattan" - fra le cose per le quali vale la pena di vivere, di sicuro ci sono gli occhi di un'incantevole ragazza.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

MAGIC IN THE MOONLIGHT. REGIA: WOODY ALLEN. INTERPRETI: COLIN FIRTH, EMMA STONE, MARCIA GAY HARDEN. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 98 MINUTI.