lunedì 16 dicembre 2013

American Hustle

Il "caso Abscam" si tramutò in una complessa operazione nel 1978: con Melvin Weinberg, artista della truffa ossessionato dalla precisione, l'FBI collaborò al fine d'incastrare un gruppo di politici corrotti. Egli era tenuto sotto schiaffo dai federali: partecipare alla truffaldina impresa era, per lui, l'unico modo di evitare il carcere. A far da attori, i medesimi agenti dell'FBI; da esca, un impiegato governativo d'origini arabe nei panni d'un fantomatico petroliere, Karim Abdul Rahman, in cerca di affari, giuoco d'azzardo, danaro ed occidente ad Atlantic City. Il caso si concluse con l'arresto d'una ventina di persone, tra le quali sei membri della Camera dei rappresentanti, un membro del Senato statale del New Jersey, vari rappresentanti del Consiglio comunale di Philadelphia, un ispettore per l'immigrazione.

All'inizio di "American Hustle", sesto e più riuscito lungometraggio firmato da David O.Russell, una epigrafe ironica recita "qualcosa di tutto questo è accaduto veramente". Eh, sì, il cineasta newyorkese s'è preso qualche licenza nel trasporre la vicenda di cui ci racconta. I personaggi risultano dilatati (per interpretare la parte del truffatore, Irving Rosenfeld, Christian Bale s'è sentito nell'obbligo di prendere venti chili), involgariti (la sempre più strepitosa Jennifer Lawrence - moglie di Rosenfeld - si presenta per tutto il tempo sboccata e scollata, segnata da smalti e da un rossetto color sangue), o coi segni di una permanente serratissima (grande numero di Bradley Cooper, agente che vive con la madre e si riempie alla sera il capo di bigodini). In questo mondo kitsch e delirante, i personaggi si vestono con cappotti doppiopetto ad ampi revers, camicie fantasie con colli a punta, giacche bicolori.

Insomma, il talento del costumista Michael Wilkinson ha modo di rilucere nel dar vita ad un universo onirico, allucinato, all'insegna della sfrontatezza sessuale. Alla carica erotica della Lawrence risponde senza paura una ruggente Amy Adams (niente reggiseno, scollature verticali e sensualità da brividi), amante di Rosenfeld ma attratta dall'uomo dell'Agenzia (dell'adrenalinica scena di sesso in toilet tra lei e Cooper s'è già chiacchierato moltissimo). Quanto al plot del film, per dirla con le parole proprio del regista, "è pieno di buoni sentimenti anche se non manca di cattivi peccati". E ancora: "Considero la pellicola la terza parte d'una sorta di trilogia su gente che cerca di resuscitare, reinventarsi, rifarsi una vita".

Il tono, si sarà capito, oscilla di continuo tra la farsa e il dramma, un po' "La stangata", un po' "Argo". Quest'inafferrabilità del tutto, giocata all'insegna di un blend agrodolce che non si dissolve sino allo scioglimento, è tra gli atout dell'opera: dato che spiazza lo spettatore, lo frustra nelle sue attese con continui scarti ed impennate, con momenti imprevedibili (si veda la scena alcolica e delirante sulle note di "Delilah). A proposito, la colonna sonora - dalla ellingtoniana "Jeep's Blues" dell'inizio - è di quelle folgoranti, sospesa tra il romanticismo di "How Can You Mend a Broken Heart" dei Bee Gees e lo struggimento di "Goodbye Yellow Brick Road" di Elton John (menzione a parte per la "Live and Let Die" di Paul McCartney,  eseguita tra volgarità e malinconia da una stellare Jennifer Lawrence). La prova più intensa, si sarà capito, viene da lei: ma l'intiero cast, già citato in precedenza, si rivela formidabile al servizio di quello che è il primo capolavoro del 2014.
                                                                                                                                   Francesco Troiano

AMERICAN HUSTLE. REGIA: DAVID O.RUSSELL. INTERPRETI. CHRISTIAN BALE, AMY ADAMS, BRADLEY COOPER, JENNIFER LAWRNCE, JEREMY RENNER, ROBERT DE NIRO.
DISTRIBUZIONE. EAGLE PICTURES. DURATA: 135 MINUTI.

lunedì 2 dicembre 2013

Blue Jasmine

Jasmine, reginetta mondana di Park Avenue, era consorte del carismatico Hal, un uomo d'affari che la viziava e la lusingava oltre ogni limite. Ma il crac economico del marito, rivelatosi un truffatore, e la fine del loro matrimonio, l'hanno costretta ad abbandonare la propria vita agiata, in preda ad un crollo nervoso. Sola e in balìa degli antidepressivi, ella cerca aiuto e ospitalità nella modesta casa della sorellastra Ginger, a San Francisco. Il carico di disperazione e ansia che porta con sé la induce a spinger quest'ultima ad essere più ambiziosa in amore, scatenando le ire del di lei fidanzato Chili. Nel tentativo di trovare uno sbocco alla propria crisi, Jasmine dà pure il via alla relazione con un brillante diplomatico dalle grandi ambizioni politiche; ma l'incapacità di prender congedo dal proprio universo di smarrite illusioni e la malcelata mania di grandezza - sin dal suo nome, l'originale era un più banale Jeanette - la condurranno ad una nuova, dolorosa impasse...

Due sono, com'è noto, le corna dell'arte di Allen. Da una parte, troviamo commedie all'insegna della sua peculiare vis comica: in esse la confessione si fonde con l'umorismo, come nei migliori scrittori d'analisi, e nel rimpallo della battute guizza un'ironia che sa farsi, a tratti, finemente autodenigratoria. Dall'altra, v'è una vena drammatica - inaugurata dal poco apprezzato "Interiors" (1978), di elegante filiazione bergmaniana - che nel tempo s'è andata via via precisando, per dar infine corpo a un capo d'opera quale è "Crimini e misfatti" (1989) o a taglienti riflessioni morali di cui "Match Point" (2005) costituisce, nelle ultime stagioni, l'esempio più probante.

E' a questa seconda vocazione che risponde "Blue Jasmine", atteso dopo il controverso "Midnight in Paris" (2011) ed il deludente "To Rome with Love" (2012). Orbene, il ritorno in patria pare aver non poco giovato ad Allen, ché quest'ultimo lavoro ci pare possa esser iscritto senza fatica al novero delle cose sue più riuscite. Quasi una parafrasi di "Un tram che si chiama desiderio" (che, forse non a caso, la protagonista Cate Blanchett sta trionfalmente interpretando in teatro), il film offre al regista spunto per tratteggiare uno dei suoi meravigliosi ritratti muliebri che trovarono il vertice in "Un'altra donna" (1988), complice il magistero interpretativo di Gena Rowlands. Pure qui c'è una straordinaria attrice, la già citata Blanchett, ad aver parte fondamentale nella riuscita: è grazie a lei, alla sua attenzione ad ogni sfumatura del proprio personaggio, che Allen riesce nel difficilissimo compito di suscitare una sorta di empatia nei riguardi della protagonista.

Ovviamente, la regia esibisce meraviglie - basti veder la scelta d'aprire e chiudere con un monologo, od il gioco d'entrare e uscire dal passato senza soluzione di continuità - ed Allen, come tutti i sommi autori, mai giudica la figura femminile che ha creato. Se ne mostra senza indugi l'albagia, il disprezzo per tutto quello e tutti quelli che le appaiono comuni, nondimeno filtra codesta propensione attraverso il prisma della pietas: attraverso il quale ciò che percepiamo è una creatura smarrita, confusa, preda di angoscie e sensi di colpa smisurati. Si può non condividerne i gesti (ed il finale chiarisce un dettaglio di non poco conto, sul suo comportamento e sulla sua etica), vederla viziata e presuntuosa: è arduo, però, rifiutarle la tenerezza che si riserva a chi si senta preda d'un senso d'indecrittabile orfanità che ne strazia l'esistenza; ovvero, ad una Jasmine che s'avverta "blue". Malinconica. Triste. Disperata.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

BLUE JASMINE. REGIA: WOODY ALLEN. INTERPRETI: CATE BLANCHETT, ALEC BALDWIN, PETER SARSGAARD, SALLY HAWKINS, ANDREW DICE CLAY. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 98 MINUTI.