lunedì 31 dicembre 2012

La migliore offerta

Colto, solitario, Virgil Oldman esercita con speciale cura, con zelo maniacale la propria professione di antiquario: nella sua vita metodica, asettica, le emozioni paiono non aver posto alcuno. Fino a che, nel giorno del suo sessantaquattresimo compleanno, egli riceve la chiamata di una ragazza che lo incarica d'occuparsi della dismissione d'alcune opere d'arte di famiglia. Con vari pretesti, ella rifiuta di palesarsi sia all'appuntamento per il primo sopralluogo, sia nella fase d'inventario dei pezzi, e nelle successive di trasporto e restauro. Più volte tentato di chiamarsi fuori da una vicenda diventata solamente un fastidio, Virgil viene ogni volta dissuaso dalle preghiere della giovane donna, che gli dice di soffrire d'acrofobia. Pian piano, le ossessioni di Claire - questo il nome della misteriosa cliente - finiscono per avvilupparlo, assumendo le forme d'una passione senile, tanto intensa quanto proporzionata all'interminabile silenzio amoroso che ne è stato pronubo. Seguendo i consigli del suo unico amico Robert, un abile restauratore di congegni meccanici d'epoca, Virgil cerca di orientarsi nei meandri a lui ignoti dell'animo femminile...

Sia che egli percorra i sentieri della memoria ("Nuovo Cinema Paradiso" e "Baaria": a pensarci, gli esiti suoi più alti), sia che si avventuri nel cinema d'autore di taglio "europeo"(per far solo un esempio, "La sconosciuta"), Tornatore riconferma la propria "spiccata padronanza del mezzo espressivo, la naturale potenza visiva nella concezione e nella composizione della scena" (P. D'Agostini). I risultati, tuttavia, sovente lasciano a desiderare (i titoli più convincenti li abbiamo citati; vi aggiungeremmo l'esordio de "Il camorrista", incursione nella cinematografia di genere survoltata, sanguigna quanto stilisticamente barocca): qui in particolare, con "La migliore offerta", il cineasta di Bagheria torna a un terreno quanto mai accidentato e scivoloso, quello della metafora in forma di racconto, che già ha dimostrato di non saper padroneggiare appieno in "Una pura formalità". A detta pellicola, la recente è accomunata dalla estrema levigatezza formale che a momenti si fa accademia, da una gentilezza del tocco che asciuga le emozioni: alla fine, il rarefare conduce a incappar in uno scioglimento che ha il sapore d'un infortunio.

La prima parte del film, d'attesa e preparazione, possiede a momenti la suggestione figliata da un sentor di soprannaturale (vengono in mente, in letteratura, l'Arpino di "Anima persa" o il Milani di "Fantasma d'amore", entrambi portati sullo schermo da Dino Risi, con ben altra pregnanza): dipoi, mano a mano che le spiegazioni divengono necessarie, che si rende obbligatorio dare corpo alle ombre, "La migliore offerta" si sfarina, sfiorisce. "Giallo senza moventi, dramma senza pathos, thriller senza suspense": il giudizio implacabile di Goffredo Fofi proprio su "Una pura formalità" s'attaglia, purtroppo, in eguale misura a quest'ultima fatica del nostro.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

mercoledì 26 dicembre 2012

Jack Reacher - La prova decisiva

In una cittadina americana, nel corso di una tranquilla giornata, un cecchino fa fuoco tra la gente ed ammazza cinque persone, prive di apparenti legami. Poiché lascia dietro di sé tracce evidenti, è facile risalire ad un ex-militare, già tiratore di precisione e resosi responsabile d'un episodio consimile, anni prima. Arrestato, nel corso di un serrato interrogatorio egli non fa alcuna ammissione, tranne una poco intelligibile richiesta, scarabocchiata su un bloc-notes: trovate Jack Reacher. La cosa, tuttavia, si rivela nient'affatto semplice: tanto per cominciare non si sa se l'uomo, un ex-investigatore militare, sia ancora in vita. Proprio quando pare che sia impossibile risalire a lui, egli si presenta spontaneamente in procura. Nel frattempo, vittima di un feroce pestaggio patito durante un trasferimento, l'accusato è finito in coma. Pungolato dall'avvocato difensore di quest'ultimo, la combattiva Helen Rodin, Reacher accetta di essere ingaggiato come investigatore. Non accontentandosi delle risultanze dell'analisi della scena del crimine, in breve individua una pista che lo porta a una misteriosa e spietata organizzazione, capitanata da una figura indecifrabile...

Fu Dashiell Hammett - per usare le parole di Raymond Chandler - a restituire "l'assassinio a persone che lo commettono per delle ragioni, non per fornire un cadavere". Si può dire che il noir moderno sia nato proprio dalle pagine dei due scrittori sopra citati: i loro investigatori privati si muovevano dentro mondi credibili, in situazioni assai concrete nelle motivazioni e nei fatti. Intrisi, comunque, di una sorta di romanticismo di ritorno, anche Sam Spade e Philip Marlowe, a un certo punto, furono considerati anacronistici: a rincarar le dosi di sesso e violenza, ad aggiungere un cinismo autentico alla figura del protagonista doveva arrivare Mickey Spillane, col suo Mike Hammer. Da allora, numerosi sono stati i private eye sopra le righe o fuori dai ranghi chiamati a far luce su eventi delittuosi: tra di essi, spicca il Jack Reacher creato nel 1997 da Lee Child (già regista per la televisione britannica, nel corso di quasi un ventennio), con "Zona pericolosa". Da subito bene accolto dai lettori, il personaggio ha fatto ritorno in ben 17 romanzi, venduti nel mondo in oltre 60 milioni di copie.

Ci sono voluti sette anni per trasporre sul grande schermo codesto atipico eroe: alla fine, ci è riuscito Christopher McQuarrie, che firma la sceneggiatura oltre alla regia di questo "Jack Reacher - La prova decisiva". Ispirato al nono libro della serie, il film introduce abilmente il personaggio in medias res, in una situazione che egli solo sembra capace di sbrogliare. I tratti originari della pagina scritta, quelli d'un Robin Hood contemporaneo, son stati messi in rilievo: naturalmente, il nostro persegue sempre il trionfo della giustizia, però va rudemente per le spicce in alcune situazioni, e la propensione a sostituirsi alla legge comminando pene ai criminali è vista con un'indulgenza forse eccessiva (in epoche diverse e più ideologizzate, si sarebbe parlato di coloriture reazionarie). Ciò precisato, lo spettacolo c'è tutto: non mancano spericolate sequenze d'inseguimenti automobilistici, combattimenti a mani nude, vertiginosi salvataggi all'ultimo secondo. Poco o nulla ricorrendo ad effetti speciali, la pellicola ha una gradevole patina anni '70: il plot è robusto, i dialoghi funzionano a sufficienza, la suspense tiene fino alla fine. Il cast - come d'uso in prodotti hollywoodiani di livello - risulta adeguato: ma non si può non sottolineare che a Tom Cruise difetta il carisma da protagonista che, in altre epoche, possedevano Paul Newman o Clint Eastwood; e che Rosamund Pike - nei panni della legale - inalbera un'aria di cotal stupefazione da lasciare perplessi.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

lunedì 24 dicembre 2012

The Master

Usa, inizio degli anni '50. Freddie Quell è un uomo alla deriva. Lo sconvolgimento, provocato in tanti, dalla Seconda Guerra Mondiale, ha fatto di lui un individuo allo sbando, scentrato come il suo parlare quasi inintelligibile, sbilenco come la sua camminata sguincia. Codesto girare in tondo, galleggiando in un malsano quanto confortante oblio, pare doversi interrompere con l'incontro di Lancaster Dodd, capo d'uno tra i grandi gruppi spirituali alternativi che, in epoche di smarrimento collettivo, trovano terreno assai fertile. Il guru, che millanta di aver scoperto alcune inconfutabili verità su come il genere umano possa sconfiggere gli animal istincts più abietti, mette Freddie sotto la propria protezione, con il neppur troppo celato intento di farne domani il proprio successore. Freddie compensa come può la benevolenza del demagogo: pesta a sangue un giornalista che ne confuta pubblicamente le idee, mena le mani con le forze dell'ordine giunte ad arrestare Dodd per truffa. Tra atti di ribellione ed appassionati slanci di lealtà, il confronto tra i due finisce per diventare uno scontro viscerale, perfino violento, tra volontà opposte...

La drammaturgia borghese ci insegna che l'eroe - laddove esiste - non può che essere negativo. Orson Welles ha shakespearianamente condotto tale assunto all'estrema conseguenza, specificamente trattando di soli eroi del male. Ma detto eroe borghese intriso di malvagità necessita, per essere credibile, di un background sociale fortemente contrastato, significativo e - per dirlo in una parola - grandioso. Sono, tutte, caratteristiche proprie di "The Master", ultima fatica cinematografica del talentoso Paul Thomas Anderson: che pure nello stile registico, barocco e immaginifico, ripercorre le orme del geniale cineasta del Wisconsin. In particolare, questo Lancaster Dodd ben figurerebbe nella galleria di ritratti apertasi  con Charles Foster Kane, proseguita con Grigory Arkadin e giunta con Hank Quinlan ad una sorta di punto d'approdo e sintesi; quanto a Freddie Quell, egli è più un consanguineo del kafkiano Josef K, personaggio finito negli ingranaggi di un meccanismo che non comprende, tuttavia non potendo egli definirsi del tutto innocente. A differenza dei wellesiani d'accatto, tuttavia, Anderson possiede il polso registico per tenere insieme i fili della storia, conferendo all'amalgama una misura d'ambiguità che si dispiega, in tutto lo spettro, nel faccia a faccia preludio allo straniante scioglimento.

Ci sono, in questo racconto zigzagante e survoltato, momenti indimenticabili: detto del denso prefinale, basti citare la sequenza in cui Fred, invitato da Lancaster a provare una moto in pieno deserto, sparisce all'orizzonte, metaforicamente sfuggendo al "padrone". Ma pure la descrizione degli Usa postbellici, nazione trionfatrice ma popolata di reduci perdenti, ciarlatani inveterati, fanciulle divise tra ambizioni e pulsioni, è perfetta, un vero saggio di storia del costume. Quanto alle psicologie, Anderson si conferma maestro nel dipingerle: qui, in verità, sostenuto nello sforzo da due attori superlativi, premiati ex-aequo giustamente all'ultima Mostra di Venezia. Joaquin Phoenix si conquista un posto di primo piano, con un ritratto in piedi di reduce degno del Dana Andrews de "I migliori anni della nostra vita" (1946) o del Brando di "Uomini"(1950); quanto a Philip Seymour Hoffman, ci sembra di poter dire che nessuno,
fra gli interpreti contemporanei, possegga altrettanta duttilità istrionica, una tale capacità di lavorar di bulino sulle figure nelle quali, di volta in volta, si cala. Agli Oscar, statene pur certi, se ne ricorderanno.
                                                                                                                                   Francesco Troiano


mercoledì 12 dicembre 2012

La parte degli angeli

Robbie, un ragazzo di Glasgow non privo di qualità ma che, a volte, s'impiglia in delle situazioni che lo cacciano nei guai, sta per diventare padre. Di problemi, ne ha parecchi: il padre della sua ragazza gli intima brutalmente di uscire dalla vita della figlia; condannato - assieme a tre suoi amici - a 300 ore di lavori socialmente utili per aver picchiato due tizi che non volevano lasciarlo in pace (motivo, una vecchia faida familiare), è sotto tiro dei medesimi, che intendono fargliela pagare a loro modo; infine, malgrado egli abbia tutte le buone intenzioni di cambiare strada, verifica ogni giorno che non
ne esistono le condizioni, in primo luogo perché nessuno si fida tanto da offrirgli un lavoro. Mentre sta scontando la pena conosce Harry, un sorvegliante dall'indole generosa, non ignaro delle traversie che possono capitare nel corso dell'esistenza. Quasi per gioco, quest'ultimo porta i quattro ad una degustazione di whisky di malto di qualità, ove si scopre che Robbie ha un particolare talento: un palato fine, che lo rende assai abile nel riconoscere le varie marche. Da qui - e dalla ghiotta notizia dell'imminente messa in vendita, ad un prezzo stratosferico, d'una botte di un whisky d'introvabile livello - parte un piano dei quattro che pare pazzesco: spillare qualche bottiglia con l'inganno, per venderla a un ricco appassionato e ricavare, così, i quattrini per procacciarsi una seconda chance...

Due sono, com'è noto, le corna dell'arte di Ken Loach: da un lato i film d'impegno politico e sociale diretto, con connotazioni fortemente drammatiche (diciamo, per fare degli esempi, "Terra e libertà" e "Ladybird Ladybird"); dall'altro, pellicole che - pur confermando la vocazione sua per un cinema calato decisamente nel reale, con spiccata simpatia per le classi meno privilegiate - contengono degli elementi umoristici e posseggono caratteristiche di commedia (si va da "Riff-Raff" al più recente "Il mio amico Eric"). "La parte degli angeli" appartiene a questo secondo gruppo, ed è da considerare tra le più felici collaborazioni tra l'ultimo dei cineasti marxisti ed il suo sceneggiatore abituale, Paul Laverty.

Favola di sinistra, infatti, si potrebbe definire l'operina. Se la scaturigine - ha dichiarato lo stesso Loach - è il preoccupante tasso di disoccupazione dei giovani in Inghilterra (nel 2011, oltre un milione), la vicenda incornicia la crudezza del dato reale in un amabile balletto che pare Capra corretto da Brecht; vivificato, inoltre, da un cast semplicemente strepitoso. Cantore degli ultimi, tuttavia descritti senza infingimenti, il regista di "Piovono pietre" si muove con l'abituale maestria
tra diversi registri, lentamente lasciando prevalere quello lieto. E se le peripezie di codesti simpatici antieroi fan pensare a quelle de "I soliti ignoti" nostrani quanto a pressappochismo e stoltezza, deve esserci pure per loro un Dio che, infine, preserva quanto basta perché i sogni non vadano sprecati.
Un Dio moderatamente etilista, magari; che, assieme agli angeli, consuma quel 2% di whisky che
ogni anno esala l'anima per evaporazione. E la dà vinta, per eccezione, a quelli votati alla sconfitta.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

martedì 4 dicembre 2012

Moonrise Kingdom

New England, estate del '65. In un isoletta sull'Atlantico, a pochi chilometri dalla costa, si verifica una situazione imprevista. Dall'accampamento dei boyscout è sparito il piccolo Sam, non proprio il più popolare del suo gruppo. Alla stesso tempo, da casa Bishop scompare anche la coetanea Suzy. I vari adulti non lo sanno, ma i due - da molto amici di penna - si erano innamorati via lettera, poi premeditando e combinando la fuga insieme. Lui, un orfano dalle insospettate risorse, vuole scappare dagli arroganti compagni scout; lei - che scruta il mondo col binocolo "per vedere tutto più vicino" - dai detestati fratelli. Così si procurano una tenda, del cibo, qualche utensile e voilà, il gioco è fatto. Per nulla adusa ad accadimenti che sconvolgano l'amata routine, la piccola comunità - dai genitori della ragazzina allo sceriffo, dalla rappresentante dei servizi sociali al peculiare capo scout (fuma in faccia ai ragazzi e davanti ai fuochi artificiali) - si getta alla ricerca della coppia, che non ha invece alcuna intenzione di farsi trovare. Frattanto, si prepara nei cieli quella che sarà ricordata come una delle più spaventose tempeste mai viste...

Piaccia o meno, il cinema di Wes Anderson è tra quelli inconfondibili nel panorama contemporaneo. Vivificato sin dagli inizi da una verve di lunatica e strampalata originalità, esso prende le movenze assai spesso della fiaba, mutuandone i colori pastello come l'andamento vagamente surreale. Non sempre il nostro l'azzecca, va detto ("Le avventure acquatiche di Steve Zissou", nel 2005, ne è esempio eloquente), ma il suo modo teneramente serio di raccontare improbabili vicende, di mettere in scena bizzarri personaggi, coinvolge lo spettatore, lasciandolo poi sospeso tra risata e commozione. "Moonrise Kingdom" è un esempio da manuale dell'arte sua: pur se le coordinate nelle quali va a collocarsi sono ben precise, potrebbe dirsi acronotopica questa storia dolcemente favolistica, dove i cattivi mai sono totalmente cattivi (beh, quasi tutti, almeno), i fulmini dai quali si viene colpiti non folgorano, il più inaspettato degli happy end è pronto inaspettatamente a verificarsi.

In tinte calde e solari, assistiamo al delicato passaggio dall'infanzia all'adolescenza nella convivenza fra i due protagonisti: lei legge ad alta voce, ascolta la musica di Françoise Hardy, si fa fotografare in bikini; lui, ovviamente meno maturo della sua fidanzatina, si adegua come può, ma è determinato nel considerarla addirittura sua moglie. Ed è proprio così che andrà a finire: dopo ore di tregenda segnate dalla furia degli eventi naturali, Sam è adottato dal melanconico sceriffo locale, i genitori di Suzy accettano la situazione e, addirittura, l'ineffabile duo viene fatto sposare con cerimonia scout. Il tutto straordinariamente godibile, irresistibilmente avvincente, definitivamente toccante. Insomma, anche se al cinema cercate l'impegno ad ogni costo, il brivido della suspense, l'adrenalina del film d'azione, prendetevi una pausa con Wes Anderson. Anche grazie ad un cast superlativo, non ve ne pentirete.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

MOONRISE KINGDOM. REGIA: WES ANDERSON. INTEPRETI: BRUCE WILLIS, EDWARD NORTON, BILL MURRAY, FRANCES McDORMAND, TLIDA SWINTON, JASON SCHWARTZMAN. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 94 MINUTI.


giovedì 29 novembre 2012

Ruby Sparks

Calvin, genio precoce, da giovanissimo aveva esordito con un un romanzo in breve tempo divenuto - oltre che un bestseller - un classico della letteratura americana. Dopo, due lustri di silenzio: blocco creativo che, invano, lui tenta di superare con l'aiuto d'uno psicanalista. Il nostro sta da solo, ha rotto da un po' con una ragazza, lascia che la vita sia scandita dalla fisiologia di Scotty, un cagnolino così chiamato in omaggio a Francis Scott Fitzgerald. La maggior parte del proprio tempo la trascorre alla macchina da scrivere, inchiodato davanti ad un foglio bianco. Ma l'ispirazione, repentina come se ne era andata, gli torna all'improvviso quando sogna di una ragazza: la mette su carta e voilà, quasi per magia, i polpastrelli procedono per conto loro, il nuovo libro prende velocemente corpo. Nel senso letterale della parola: un bel giorno, egli si trova per casa la protagonista della narrazione in carne ed ossa. Ruby Sparks è lì, dolce, remissiva e, soprattutto, a sua disposizione: basta ch'egli scriva quanto deve fare, e lei parla francese senza accorgersene o cucina in maniera divina. A questo punto, Calvin decide di gestire la storia senza ricorrere all'artifizio letterario, ma presto si presentano i problemi che affliggono la maggior parte delle coppie...

Erano sei anni che Jonathan Dayton e Valerie Faris non dirigevano un film: dall'epoca, cioè, di "Little Miss Sunshine", che li aveva imposti all'attenzione generale col suo umorismo sinistro ed il ritratto di una famiglia sui generis. Adesso mutano registro e, affidatisi ad un'altra coppia di protagonisti, Paul Dano e Zoe Kazan (quest'ultima, qui, anche impeccabile sceneggiatrice), licenziano una commedia d'aspetto tradizionale, tuttavia più sottile e complessa di quello che può a prima vista sembrare. Se la relazione uomo-donna vi è il tema principale, difatti, è altrettanto vero che esso viene sviluppato in un modo alquanto atipico: si parte da un racconto fantasy, ricco di trovate, e, senza preavviso, il tono diventa serio - sino a lasciar presagire una possibile tragedia - mano a mano che si procede verso il termine. E pazienza se l'amaro prefinale viene corretto in extremis dallo scioglimento che si rifà a uno dei più resistenti miti Usa, quello della seconda possibilità (laddove, paradossalmente, era giusto Scott Fitzgerald ad ammonire che "non vi sono secondi tempi nelle esistenze americane").

Qual'è il nocciolo, insomma? Risiede, a nostro avviso, nella natura polimorfa del maschilismo. Calvin è certo un bravo ragazzo, ma, al pari d'altri come lui, si sente vittima delle donne che di volta in volta gli stanno a fianco, senza domandarsi se sia esattamente così. Sta di fatto che, quando per miracolo la compagna dei suoi sogni per miracolo gli si presenta, finisce per abusare del potere che la sorte gli
ha riservato: sino a dover concludere che una relazione amorosa non ha da essere asimmetrica, che la volontà di una delle due parti non può esser conculcata dall'altra, che voler bene comporta dei rischi.  Quella che corre sottotraccia, insomma, è la storia d'una educazione sentimentale: alla conclusione, il protagonista digita delle parole che ridanno la libertà a Ruby. La sua Ruby: forse, chissà, potrà tornare un giorno ad esserlo. A patto però che egli sia capace, ora, di evitar di raccontare in anticipo il finale.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

RUBY SPARKS. REGIA: JONATHAN DAYTON, VALERIE FARIS. INTERPRETI: PAUL DANO, ZOE KAZAN, CHRIS MESSINA, ANNETTE BENING, ANTONIO BANDERAS, ELLIOTT GOULD. DISTRIBUZIONE: 2OTHCENTURY FOX. DURATA: 104 MINUTI.


mercoledì 21 novembre 2012

Il sospetto

Lucas, ex-maestro elementare reduce da un divorzio di cui porta ancora i segni, vuole rifarsi una vita inserendovi pure il figlio adolescente, Marcus, che lo preferisce alla madre. Stimato dalla comunità nella quale vive e da chi lo conosce bene, il nostro ha trovato lavoro in un asilo, dove i bambini lo adorano. Su tutti, gli porta un particolare affetto Klara (la figlioletta del suo migliore amico), che un giorno lo bacia sulla bocca in modo innocente e gli regala un piccolo cuore. Lucas, seppure con estremo garbo, invita la bimba a girare il dono a qualche compagno di giochi e la ammonisce a non dare baci ad altri, se non ai genitori. Piccata e, in qualche modo, offesa, ella sostiene con la direttrice dell'asilo d'avere subito molestie sessuali da Lucas. Partita in sordina, l'accusa diviene rapidamente qualcosa di molto serio: intorno all'uomo, del tutto innocente, si scatena una sorta d'isteria collettiva che non si placa neanche quando il giudice - dopo un inverosimile arresto - stabilisce il non luogo a procedere per insussistenza degli indizi. Umiliato da tutti, finanche picchiato, Lucas verrà, dopo un certo periodo, riammesso nella comunità: ma non per tutti egli è senza colpa...

Cineasta ampiamente sopravvalutato, Thomas Vinterberg fu cofondatore del movimento "Dogma 95" assieme a Lars von Trier e conobbe una certa notorietà con "Festen" (1998), opera ferocemente antiborghese ma di grana grossa (malgrado i presuntuosi riferimenti a Bunuel ed al Renoir de "La regola del gioco"), sorprendentemente premiata a Cannes. Dopo una manciata di altre pellicole delle quali ben poco ci si ricorda, con questo "Il sospetto" Vinterberg si pone con decisione nel solco di una drammaturgia più tradizionale, abbandonando i solipsismi stilistici di un tempo: e manco a farlo apposta firma il suo film migliore, grazie pure alla magnifica interpretazione di Mads Mikkelsen (giustamente gratificata da un riconoscimento a Cannes).

Gli argomenti trattati, intendiamoci, non sono nuovi: sulla cecità crudele e schizofrenica figliata dal pregiudizio ci sono stati infiniti capolavori, da "Furia" (1936) di Lang a "Il corvo" (1943) di Clouzot a "Scene di caccia in Bassa Baviera" (1969) di Fleischmann; quanto al potere devastatore di talune fantasie infantili, un classico come "La calunnia" (1936) di Wyler aveva già detto tutto, oltre 75 anni fa. D'interessante - e nuovo - nel film di Vinterberg, c'è la descrizione di un gruppo di persone dove la ferinità va dai riti d'iniziazione - quello del figlio di Lucas alla caccia, che vedrà partecipe il padre pur consapevole, ormai, di cosa si nasconda dietro codeste apparenze - ai pestaggi nei supermercati, fino alle fucilate sparate ad altezza d'uomo. Che tutto questo avvenga nella civile e progredita Danimarca rende più inquietante la cosa ed offre materia di riflessione a quanti vorrebbero andare per le spicce di fronte ai mostri presunti. Sfiorando con coraggio il tema della pedofilia fuori dall'ottica scandalizzata e digrignante oggi diffusa, Vinterberg racconta sottotraccia la fine dell'innocenza d'un individuo mite, gentile, incapace di accorgersi dell'orrore che lo circonda. E continuerà, come si vede, a circondarlo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL SOSPETTO. REGIA. THOMAS VINTERBERG. INTERPRETI: MADS MIKKELSEN, THOMAS BO, ANNIDA WEDDERKOPP. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 115 MIN.

domenica 18 novembre 2012

Festival di Roma 2012

Seconda parte di questa panoramica dedicata al settimo Festival di Roma. La presenza statunitense alla manifestazione è stata all'insegna del cinema indipendente. Marfa Girl di Larry Clark, autore dei controversi Kids e Ken Park, affronta ancora una volta il mondo dell'adolescenza con un ritratto tagliente della gioventù americana. Ambientato in una cittadina del Texas la pellicola è un racconto di formazione a base di sesso, droga e rock and roll, incentrato su una giovane comunità di eccentrici artisti. Prodotto per una distribuzione solo sul web il film è una riuscita riflessione sulle contraddizioni della società astatunitense. A Glimpse Inside The Mind of Charles Swann III è l'opera seconda di Roman Coppola, figlio di Francis, e vede Charlie Sheen nei panni di un art director sciupa femmine che, lasciato dalla sua fidanzata Ivana, cade in crisi depressiva. Charles, questo il nome del protagonista, intraprende allora un delirante percorso di autoanalisi nel tentativo di rassegnarsi all'idea di una vita senza Ivana. Visivamente interessante (il film è ambientato nella Los Angeles degli anni '70) la pellicola è un divertissement riuscito, prossimo allo stile surreale di Wes Anderson, di cui Coppola è stato sceneggiatore per Il treno per il Darjeeling. Ottimi i comprimari, su tutti Jason Schwartzman e Bill Murray. The Motel Life è un'opera prima firmata dai fratelli Gabriel e Alan Polsky, tratta dall'omonimo romanzo (pubblicato da Fazi) del celebre cantante country Willy Vautlin, leader della band Richmond Fontaine. La pellicola esplora l'intenso legame tra due fratelli (rispettivamente Emile Hirsch e Stephen Dorff) segnati da una tragica infanzia. Ambientata a Reno, la vicenda di questi due reietti in cerca di una speranza si snoda fra le strade gelide e innevate del Nevada in un viaggio che rimanda al mitico Jack Kerouach. Chiudiamo con Bullet To The Head del redivivo Walter Hill, autore di culto della fine degli anni '70 e '80 con titoli quali I guerrieri della notte, Strade di fuoco e 48 ore. La pellicola, prodotta dal tycoon Joel Silver, vede un Sylvester Stallone, più iconico che mai, nel ruolo di un killer con un suo particolare codice d'onore, intenzionato a vendicarsi della morte del suo partner, ucciso in un'imboscata da un altro sicario, il monumentale Jason Momoa (già interprete del nuovo Conan). Nel corso delle indagini egli s'imbatte in un poliziotto coreano (Sung Kan), anch'egli sulle tracce dell'assassino. L'inedita coppia è costretta a collaborare insieme ma con due idee diametralmente opposte della giustizia. Mentre, infatti, Stallone persegue il suo obiettivo eliminando tutti i criminali che incontra sulla sua strada, lo sbirro vorrebbe procedere secondo la legge. Survoltato e divertente il film, ambientato in Louisiana, è un omaggio al cinema degli anni '80 che Hill dirige con mano sicura. Sorprendenti i premi. Il Marco Aurelio per Migliore Film è andato proprio a Marfa Girl di Larry Clark mentre il contestatissimo E la chiamano estate ha ottenuto addirittura due premi, alla Migliore regia a Paolo Franchi e alla Migliore attrice a Isabella Ferrari. Due scelte che la stampa, a ragione, ha giudicato incomprensibili. Meritato il Premio della Giuria a Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, così come quello alla sceneggiatura a The Motel Life.

Festival Roma - Premi & Commento

La Giuria Internazionale presieduta da Jeff Nichols e composta da Timur Bekmambetov, Valentina Cervi, Edgardo Cozarinsky, Chris Fujiwara, Leila Hatami e P.J. Hogan, ha assegnato i seguenti premi:

- Marc’Aurelio d'Oro per il miglior film: Marfa Girl di Larry Clark
- Premio per la migliore regia: Paolo Franchi per E la chiamano estate
- Premio Speciale della Giuria: Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi
- Premio per la migliore interpretazione maschile: Jérémie Elkaïm per Main dans la main
- Premio per la migliore interpretazione femminile: Isabella Ferrari per E la chiamano estate
- Premio a un giovane attore o attrice emergente: Marilyne Fontaine per Un enfant de toi
- Premio per il migliore contributo tecnico: Arnau Valls Colomer per la fotografia di Mai morire
- Premio per la migliore sceneggiatura: Noah Harpster e Micah Fitzerman-Blue per The Motel Life 


Dunque, si è finalmente conclusa la settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Tutto vi è stato combattuto, le difficoltà sono iniziate - come si ricorderà - fin dalla direzione affidata a Marco Muller,  tra mille controversie (il presidente Gian Luigi Rondi, favorevole alla conferma di Piera Detassis, s'è dimesso in polemica con la decisione assunta). Insediato solo a giugno, Muller ha fatto quanto ha potuto nei mesi che aveva a disposizione: è stato incauto ad annunciare una manifestazione composta da prime mondiali, ma il linciaggio che gli è stato riservato - durante la presentazione di un'edizione che di glamour ne aveva ben poco - forse è suonato eccessivo. Veniamo ai film. Durante le giornate, si è più volte sottolineato - in maniera composta in sede critica, assai meno nel corso delle proiezioni per la stampa - l'inadeguatezza, o presunta tale, di taluni titoli in concorso. Premesso che il livello generale delle pellicole di sicuro non può essere considerato alto, si sa pure che i festival sono come le vendemmie: a volte vanno bene, altre sono meno favorevoli. Aver dovuto comporre una selezione in tempi relativamente brevi, come dicevamo, ha di certo avuto la sua parte, ma un ruolo l'ha giocato ugualmente la formazione - e le conseguenti scelte - del direttore. Ci spieghiamo meglio: Marco Muller è uno tra i migliori nel suo campo in Italia (se non proprio il migliore), ma è più adatto a mostre di altro tipo. A Venezia ha senz'altro fatto bene, tuttavia la dimensione ideale per lui rimane - ad avviso di chi scrive - Locarno: "il più grande dei festival piccoli, il più piccolo dei grandi", secondo una felice definizione a suo tempo coniata da Tullio Kezich. Ora, Roma è partita come una festa del cinema (ha scelto di mutarne la dizione in festival Rondi), da collocarsi nelle ottobrate romane (e non nel piovoso novembre inoltrato di questa volta), guardando alla Hollywood dei grandi registi e con un occhio al red carpet. Pian piano, dette caratteristiche sono andate sfumando, senza che la manifestazione ne assumesse di nuove. Lo stallo cui ora si è giunti vorrà preludere - noi speriamo - a un ritorno al passato che restituisca alla kermesse romana il glamour che aveva all'inizio e del quale, a quanto sembra, non può fare a meno.

I premi: la scelta di "Marfa Girl" come miglior film, non foss'altro quale riconoscimento ad un cineasta non allineato ed azzardoso nella scelta dei temi come Larry Clark, è giusta. Il riconoscimento per la migliore regia a Paolo Franchi ed alla migliore attrice per Isabella Ferrari gratificano entrambi il film più discusso in concorso, "E la chiamano estate" (accolto da sonori fischi durante la proiezione stampa): antonioniano fino al midollo, esso è tutto calato negli anni Sessanta, per stile ed ispirazione. Ed è proprio questo suo essere volutamente, in un certo senso, obsoleto, che conferisce alle immagini un fascino obliquo. Bene anche il Premio Speciale della Giuria a Claudio Giovannesi per "Alì dagli occhi azzurri": un lavoro intenso, sentito, che riesce a parlare del tema degli immigrati raccontando una storia forte e credibile. Nulla da dire pure su Jérémie Elkaim miglior interprete maschile: ha figurato bene nel delizioso "Main dans la main", che conferma Valérie Donzelli tra le migliori registe in attività. Infine, "The Motel Life" di Gabriel e Alan Polsky, molto apprezzato dalla critica tutta, è stato ricompensato per la sua cosa più indovinata, la sceneggiatura. 

Dei film che non hanno trovato posto nella premiazione, ci piace segnalarvi il grintoso, violentissimo "A Bullet To The Head" del redivivo Walter Hill, uno dei vertici del Festival; ed il delizioso "Populaire" di Régis Roinsard, gli anni '50 mai così tali in una commedia romantica e divertente. Ne parleremo estesamente in sede di recensione, quando i due film approderanno nelle nostre sale. Arrivederci alla ottava edizione!
 



martedì 13 novembre 2012

Festival Internazionale del Film di Roma 2012

Dopo quattro giorni di proiezione si possono in parte tirare le somme di questo settimo Festival Internazionale del di film di Roma, diretto per la prima volta da Marco Muller. La manifestazione sta offrendo buoni film ma niente di memorabile, manca totalmente il glamour, pressoché assenti il cinema statunitense e i suoi divi. Il film di apertura, Aspettando il mare, del kazako Bakhtyar Khudojanazarov è un metaforico (e non solo) viaggio in una terra arcaica e dimenticata. Un melò esotico che non ha entusiasmato i critici e il pubblico. Mental di Paul J. Hogan (già autore de Le nozze di Muriel e Il matrimonio del mio migliore amico) è, invece, una commedia incentrata su una famiglia disfunzionale australiana composta da un padre, sindaco di una cittadina australiana (Anthony La Paglia), una madre che adora Tutti insieme appassionatamente e cinque figlie, convinte di essere fuori di testa. Ci penserà una tata sui generis, Shaz (interpretata dalla brava Toni Colette), a convincerle che in realtà loro sono assolutamente normali e i vicini i veri psicopatici. La pellicola è una scoppiettante commedia, ironica e commovente, che ha divertito molto. Al contrario Back to 1942 del cinese Xiaogang Fen è un polpettone di quasi tre ore che ha messo a dura prova gli spettatori. Ambientato in Cina durante il drammatico 1942, il film narra la terribile carestia nella regione dell'Henan che causò circa tre milioni di vittime, nel disinteresse del generalissimo Chiang Kai Shek, impegnato nella guerra contro il Giappone. Nel kolossal, costato oltre 30 milioni di dollari, sono presenti anche Adrien Brody, nei panni di un giornalista del Time, e Tim Robbins in quelli di un sacerdote cattolico. Il cinema italiano è presente con ben 21 film alla selezione. Alì ha gli occhi azzurri, opera prima di Claudio Giovannesi, offre uno spaccato realistico di una generazione quasi perduta che s'aggira annoiata e in cerca di emozioni forti tra Ostia e Acilia, due località del litorale romano. Il protagonista Nader è un sedicenne egiziano nato in Italia con l'anima divisa in due tra le sue radici musulmane e il suo sentirsi italiano. Un ragazzo che non sa bene a quale cultura appartiene e che non è accettato interamente né dai suoi compagni né dai suoi familiari. Lo stile del film è documentaristico, ben fotografato da Daniele Ciprì, e i toni del racconto rimandano sopratutto a Pasolini e ai suoi ragazzi di vita. Manca una struttura drammaturgica e il regista si fa vanto della sua tradizione documentaristica affermando nel press book che "L'obiettivo della scrittura era l'assenza di finzione.". La pellicola, infatti, è la naturale prosecuzione di Fratelli d'Italia, un documentario diretto dallo stesso autore nel 2009. Gli interpreti, presi tutti dalla strada, sono bravissimi ma Giovannesi dovrebbe capire che la finzione spesso è una metafora drammaturgica potente della realtà. Se il giovane regista vedesse Mean Streets di Martin Scorsese, forse capirebbe che è possibile fare un cinema realistico senza rinunciare allo spettacolo. Deludente L'isola dell'angelo caduto, opera prima del romanziere Carlo Lucarelli. Tratta dal suo omonimo lavoro la pellicola mette in scena un giallo ambientato in piena era fascista su un'isola sperduta del mediterraneo. Indeciso su quale stile adottare il film alterna il thriller all'horror con incursioni nel fumettistico. Un'invasiva presenza di effetti digitali rende il tutto patinatissimo e senza una precisa visione stilistica. Il cecchino di Michele Placido è invece un polar, ben diretto dal nostro attore italiano che mette in scena una caccia all'uomo tra Daniel Auteuil e Matthieu Kassovitz, rispettivamente un commissario di polizia e un rapinatore di banche, ex cecchino dell'esercito francese. Ben fotografato da Arnaldo Catinari Il Cecchino è un Romanzo criminale in salsa francese, un film di genere nel senso più nobile del termine. Un pasticcio trash è invece Il volto di un'altra di Pappi Corsicato, un melò a metà strada tra Douglas Sirk e Pedro Almodovar. Il regista napoletano (I buchi neri, I vesuviani) dirige una vicenda improbabile che ha come protagonista la star televisiva di un programma di bellezza (Laura Chiatti), vittima di un incidente stradale che le sfigura il volto. Suo marito, chirurgo plastico (Alessandro Preziosi), primario della clinica Belle Vie, la ricovera per operarla ma scopre che in realtà sua moglie ha solo delle lievi escoriazioni. Per ingannare l'assicurazione e intascare i dieci milioni di indennizzo i due architettano un piano diabolico a colpi di botox. Tra numeri musicali e citazioni che vanno da Hitchcock a Bunuel, Il volto di un'altra è una delirante e sgangherata critica alla televisione e alla società dell'apparire. Divertente ma davvero camp.

giovedì 8 novembre 2012

Venuto al mondo

Ancora tormentata dalle immagini della guerra, Gemma decide di recarsi a Sarajevo, col figlio Pietro, per vedere una mostra in memoria delle vittime dell'assedio, su invito dell'amico poeta Gojko. Nella capitale bosniaca ospitante i Giochi Olimpici Invernali del 1984, era stato lui a presentarle Diego, squattrinato fotografo da subito divenuto l'amore della sua vita. Altre figure sono, a quell'epoca,  importanti nella vita della donna: ad esempio Aska, una ragazza musulmana musicista e ribelle; o Sebina, la sorellina di Gojko. L'amore per Diego, pur grande, non riesce a colmare in Gemma il dolore per la propria sterilità. Rivelatasi impercorribile la via dell'adozione, ella accetta di servirsi dell'utero di Aska per avere un bimbo: a tal scopo, getta Diego fra le braccia di quest'ultima, salvo
poi venir assediata dalla gelosia e dai sensi di colpa. Ma nella città che ancora porta visibili i segni delle distruzioni, l'attende ora una verità imprevedibile, destinata a sconvolgerle l'esistenza...

Quarto lungometraggio diretto da Sergio Castellitto, come il fortunato "Non ti muovere" (2004) tratto da un romanzo di sua moglie Margaret Mazzantini, "Venuto al mondo" ha impostazione assai simile al predecessore: confezione e cast pensati per un mercato più ampio di quello indigeno, struttura da melodramma all'antica, scioglimento coinvolgente. E' un modo di far cinema per certo non nuovo o rivoluzionario, tuttavia di sicura presa e, probabilmente, dotato d'un proprio pubblico.
Il problema, con Castellitto, è però sempre lo stesso: il nostro s'innamora dei personaggi, non prende alcuna distanza emotiva da loro, spinge il pedale sino ad una forzosa esazione della lacrima. Nella fattispecie, poi, la situazione è estremamente delicata: siamo nel territorio del romance ai tempi delle bombe, un genere che ha prodotto sovente - si pensi al bellissimo "Un anno vissuto pericolosamente" (1982) di Peter Weir od all'intenso "Sotto tiro" (1983) di Roger Spottiswoode - pellicole di vaglia. Solo che qui, Sarajevo, è mero sfondo su cui collocare la vicenda: la Storia e la storia entrano in rotta di collisione soltanto nella scena madre, in modi discutibili e - soprattutto - a fini discutibili.

Ci spieghiamo meglio. Non detto, il tema del film è quello di varie opere recenti: la maternità veduta quale condizione fondamentale e imprescindibile per la donna. Un argomento nell'aria: lo si trova, in termini di commedia, nel recentissimo "Tutti i santi giorni" di Paolo Virzì; oppure, virato al dramma, nello splendido "Thy Womb" di Brillante Mendoza (in concorso all'ultima edizione di Venezia), dove la protagonista accetta una nuova moglie per il marito, purché giunga il figlio che lei non è stata capace di darle. Quest'ultima frase l'abbiamo usata volutamente. In "Venuto al mondo", Gemma sacrifica senza colpo ferire il suo sentimento per Diego, la dignità dell'altrui corpo oltre che quella personale, il futuro proprio e del compagno: il tutto, in difesa di ciò che il cattolicesimo più retrivo definirebbe "l'amore più grande". Non albergano dubbi, nelle immagini: persino un orrendo stupro etnico è presentato alla stregua d'una ferita in qualche modo sanabile, a fronte di una vita che deve nascere. La recitazione di tutti s'adegua al disegno registico, trovando - prevedibilmente - in Penelope Cruz un'interprete adeguata e sensibile; tuttavia troppe volte survoltata, enfatica. Giusto come il film.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

VENUTO AL MONDO. REGIA: SERGIO CASTELLITTO. INTERPRETI: PENELOPE CRUZ, EMILE HIRSCH, ADNAN HASKOVIC, LUCA DE FILIPPO, SERGIO CASTELLITTO. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DURATA: 132 MINUTI.


mercoledì 31 ottobre 2012

Argo

Teheran, 4 novembre 1979. Mentre la rivoluzione iraniana è al culmine, alcuni militanti irrompono nell'ambasciata statunitense, prendendo 52 ostaggi. Nella confusione generale, però, sei funzionari riescono a fuggire e si nascondono in casa dell'ambasciatore del Canada. Certi che, presto o tardi, essi saranno individuati e con ogni probabilità uccisi, il governo americano ed il canadese chiedono alla Cia d'intervenire in maniera rapida ed efficace, per riportarli in patria. L'Agenzia si mette, allora, nelle mani del proprio migliore specialista in fatto d'infiltrazioni, Tony Mendez. E costui s'inventa un piano assai azzardoso: far passare i rifugiati per membri d'una troupe canadese impegnata a preparare una pellicola di fantascienza, "Argo". A tal scopo, Mendez prende contatto con il truccatore John Chambers ed il produttore Lester Siegel, perché il tutto abbia un aspetto assolutamente professionale e credibile...

Ispirato al libro omonimo di Antonio Mendez "The Master Of Disguise" e ad un articolo di "Wired", "Argo" prende le mosse da una storia vera, l'operazione CIA nota come Canadian Caper: nella realtà, vi furono coinvolti Roger Zelazny, collaboratore di Philip K.Dick, e uno dei massimi disegnatori di fumetti, Jack Kirby (quello di Hulk, Thor e gli X-Men, per capirci). Quanto al finto film, esso venne pubblicizzato con gran risalto su "Variety" e "Hollywood Reporter": insomma, ogni cosa fu curata nei minimi dettagli. La vicenda rimase segreta per volere della Cia fino al 1997; il presidente Jimmy Carter, all'epoca, non se ne potè servire durante la campagna elettorale, che si concluse con la propria non rielezione.

Alla terza regia, dopo due prove sorprendenti quali "Gone, Baby, Gone" (2007) e "The Town" (2010), Ben Affleck si conferma cineasta fra i più interessanti della sua generazione, nella scia d'una tradizione di attori/registi che trova in Robert Redford il suo riferimento più plausibile: entrambi sono liberal e appassionati d'un cinema classico, ben fatto, basato su solidi script ed eccellenti cast. Inoltre, in "Argo" spira un'aria seventies - lo stesso Affleck ha dichiarato di aver voluto fare il suo "Tutto gli uomini del presidente" - che lo rende piacevolmente rétro, tra l'acconciatura alla Bee Gees del protagonista e le canzoni che scorrono (si va da "Sultans Of Swing" dei Dire Straits a "Little T&A" dei Rolling Stones, passando per "When The Levee Breaks" dei Led Zeppelin). Prodotto da George Clooney (e si sente, ché il ruolo americano nel sostenere i crimini dello Scià persiano vi è descritto senza infingimenti), il film è un adrenalinico thriller a sfondo politico non privo di pungente ironia (John Goodman e Alan Arkin, rispettivamente nei panni di John Chambers e di Lester Siegel, sono impagabili).

Insomma, siamo di fronte ad uno di quei non frequenti casi in cui le ragioni dello spettacolo e dell'arte risultano perfettamente armonizzate: il cinema di genere incontra quello d'impegno civile (come anche in Italia capitava sovente nel corso degli anni Settanta, ed ora purtroppo non più), dando vita ad un appassionante spettacolo. Ben Affleck è abile nel conferire al suo Mendez la necessaria incoscienza, sempre però corretta da un profondo rispetto per le vite che sono nelle sue mani; e merita una nota di plauso Bryan Cranston che, dopo una carriera da caratterista, sta ora imponendosi all'attenzione generale con una serie d'interpretazioni - qui, quella del grintoso Jack O'Donnell - davvero di vaglia.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ARGO. REGIA: BEN AFFLECK. INTERPRETI: BEN AFFLECK, BRYAN CRANSTON, ALAN ARKIN, JOHN GOODMAN. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 120 MINUTI.

lunedì 29 ottobre 2012

Skyfall

Nell'anteprima per la stampa, la proiezione di "Skyfall" è preceduta da un breve filmato celebrativo, che riunisce alcuni tra i momenti più famosi d'un percorso cinematografico giunto, quest'anno, al suo cinquantenario. Scatta l'applauso, nel pur compassato pubblico specializzato, al momento in cui taluni oggetti (le supercar Aston Martin e Lotus, gli orologi subacquei Rolex ed Omega, il celebre Martini, gli avveniristici - per l'epoca - marchingegni di Q) e personaggi (su tutti le più note Bond girl, a iniziare dalla Ursula Andress di "Licenza di uccidere") compaiono: il protagonista, quanto meno sul grande schermo, è tutto ciò. Al termine del film, ci rendiamo conto che, in apertura, abbiamo assistito ad un epicedio commosso e ben dissimulato di quanto l'agente 007 è stato nel corso di questi cinque decenni: il link col passato pare, oggi, esser rimasto soltanto l'immancabile "il mio nome è Bond, James Bond".

Come per certi personaggi di fumetti ormai entrati nel mito (ad esempio, il Tex rivisto da Magnus, opera ultima di un grandissimo disegnatore), 007 è ormai un'icona che ciascuno inquadra sotto una particolare luce, che rilegge a modo proprio. Pur nell'esigenza principale di questo "Skyfall", vale a dire d'esser un  reboot che rilancia il nostro nel futuro, Sam Mendes - regista avvezzo a tutt'altre fatiche firmare, da "American Beauty" a "Revolutionary Road" - ha dato un'impronta assai peculiare al proprio episodio, che resterà certo tra i più riusciti dell'interminabile saga. Il tema della pellicola è lo scorrere del tempo, l'inevitabile invecchiamento, lo scoramento di chi comincia a non trovare più uno scopo per tanto rischioso, frenetico agitarsi: nell'incipit di prammatica Bond, colpito, precipita nell'acqua ed è dato per morto dallo M16.

Egli invece, ferito gravemente, si è poi ripreso e vegeta più o meno piacevolmente lontano dal lavoro e dal proprio paese: solo un fatto di estrema gravità - l'identità di molti suoi colleghi sotto copertura in tutto il mondo viene resa pubblica, costringendo M a cambiare la sede dell'agenzia e a difendersi dagli attacchi politici, e non solo, al lavoro che sta svolgendo - convince il disperso volontario a fare ritorno all'attività (dopo aver dovuto affrontare i test di prammatica, per verificarne l'attitudine psicofisica). Ma delle cose sono, frattanto, cambiate. Il suo capo (una sempre straordinaria Judi Dench) ha sul collo il fiato di Mallory - il nuovo direttore dell'Intelligence and Security Committee - e rischia il posto, mentre si fa avanti Silva, un sinistro nemico di cui nessuno conosce le motivazioni.

Non aggiungeremo altro: il film riserva varie sorprese, pur se gioca le carte migliori su uno script abile a fare ripartire, ogni volta, la tensione. Vi diremo però che, se ovviamente non mancano le tradizionali sequenze d'azione, "Skyfall" diviene col passar dei minuti una riflessione autunnale, immalinconita sul trascolorare delle cose, sull'inevitabilità di scontare i propri errori, sul dolore dal quale neanche il più duro carapace interiore può preservarci. Si sfiorano, addirittura, toni da tragedia shakespeariana, in uno straziato prefinale mai così cupo: dopo, repentinamente, la "nuova linea". Il cast è eccellente, da Daniel Craig - il più convincente erede di Sean Connery, l'unico ad aver azzardato un approccio tutto suo al personaggio - alla Judi Dench di cui s'è detto, da Javier Bardem - straordinario nel suo essere luciferino e suadente al tempo medesimo - a Ralph Fiennes, bravo ad inserirsi subito con autorità nella squadra. Insomma, la serie più longeva della storia del cinema pare, davvero, avviata verso un secondo mezzo secolo di mirabolante vita.
                                                                                                                                     Francesco Troiano


mercoledì 24 ottobre 2012

Oltre le colline


Nella regione della Moldavia rumena si trova un piccolo convento ortodosso, dove si vive all'insegna della privazione: niente elettricità, niente acqua corrente, cibi poco attraenti, povertà assoluta. Un pope giovane e barbuto governa su un gruppetto di suorine anch'esse giovani, che hanno trovato nell'obbedienza e nella ripetizione di gesti sempre eguali - acqua da prendere al pozzo, stufe da accendere, legna da tagliare - una misura per la propria esistenza. Dalla Germania, ove lavora da inserviente, fa ritorno Alina, al fine di convincere Voichita ad emigrare con lei. Cresciute assieme in orfanotrofio, prive dell'amore di chiunque, si erano strette l'una all'altra per non sentirsi sole al mondo. Ora, Voichita si è data all'amore per Dio, e non intende rinunciarvi. Alina ingaggia, così, una strenua battaglia per convincere l'amica: ma - minata, probabilmente, dalla malattia - tiene comportamenti rabbiosi e violenti che, non curati in ospedale, persuadono il pope a praticare su di lei pratiche di esorcismo... 

Alla sua terza opera, Cristian Mungiu si conferma regista di primissimo ordine. Certamente molti ricorderanno il suo precedente "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni" (2007), vincitore di una meritata Palma d'oro a Cannes: attraverso la vicenda di un aborto da praticare, dava conto dell'abbrutimento morale, dell'indifferenza etica vigente nel regime di Ceausescu, mai indulgendo al compiacimento per codesto degrado, bensì comunicandolo allo spettatore tramite dettagli o fuori campo. In "Oltre le colline", con una vicenda drammatica ricca di suspense hitchcockiana, Mungiu pare, invece, proporre in filigrana una riflessione su quanto avviene nei paesi dell'Est: orfane del comunismo, varie persone si son rifugiate nella fede che, incapace di comprendere e gestire il nuovo, si ripiega su se stessa e sui propri crismi.

Tuttavia, per ammissione dello stesso cineasta rumeno, il film è "una riflessione sulle azioni che si compiono in nome di Dio, e che spesso portano a conseguenze catastrofiche". Molti sono i titoli che hanno dissodato codesti terreni: da "I diavoli" (1972) di Ken Russell, pregno di una isteria sessuale figliata dalla repressione dei sensi, a "Magdalene" (2002) di Peter Mullan, impietosa ispezione sugli orrori figliati dalla "espiazione" dei peccati. Ma si tratta di riferimenti di comodo, l'intenzione di Mungiu è diversa: egli si prende i propri tempi - due ore e mezza - per mostrare come da un presunto luogo di preghiera e riflessione possa scaturire l'orrore. Non vi sveleremo il finale, ma riflettendo su come una tanto terribile tragedia abbia potuto aver luogo senza parere, viene spontaneo annotare che nella lista dei peccati (464) stilati dalla Chiesa Ortodossa non compare quello d'indifferenza. E quando l'ufficiale di polizia, venuto per ricostruire i fatti, si domanda quando il gelo cesserà d'imbiancare il panorama, non si può far a meno di pensare ch'egli alluda ad una nazione in ginocchio, ed auspichi che trovi al più presto la forza per rialzarsi.
                                                                                                                                 Francesco Troiano

OLTRE LE COLLINE. REGIA: CRISTIAN MUNGIU. INTEPRRETI: COSMINA STRATAN, CRISTINA FLUTUR. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 150 MINUTI.

lunedì 22 ottobre 2012

Amour

Georges e Anne sono due anziani professori di musica oramai in pensione. Anche la loro figlia, Eva, è una musicista: si è sposata, e vive all'estero con la propria famiglia. La vita dei due ottantenni è serena, tenuta assieme da un legame forte e vitale. Un mattino, Georges si accorge con spavento che Anne è vittima di una prolungata assenza, non riuscendo ella più a sentirlo, neppure a percepirne la presenza. Spaventato, egli la costringe a fare degli accertamenti: l'intervento al quale la donna viene rapidamente sottoposta non dà, purtroppo, l'esito sperato. Lentamente, Anne perde l'uso dei movimenti, della parola, della capacità di comprendere. E' l'inizio di un lungo, penoso periodo nel quale Georges - liquidata un'infermiera che gli pare troppo brutale - finisce per occuparsi da solo della sua sventurata compagna. Alla fine, una scelta difficile quanto dolorosa porrà fine al tormento di ambedue.

Amour, recita il titolo. E' così: questo bellissimo film di Haneke sembra inverare, per vie ben diverse, il Bataille che rivendicava "l'appropriazione dell'amore fino alla morte". Raramente, ci sembra, con tanta intensità è stato coniugato l'amore, rivendicato proprio allorquando più difficile si fa l'affermazione del sentimento: fino al momento in cui la pietas s'incarica d'interrompere quel che è divenuto un "in limine mortis" interminabile, inutilmente straziante. Qui, però, c'interessa sottolineare quanto "Amour" - pur in apparenza diverso dalle precedenti opere di Haneke - s'inserisca invece in modo armonioso nella filmografia del regista di Monaco.

Pochi ricordano, probabilmente, che George e Anna si chiamavano pure i protagonisti del primo lungometraggio per il cinema del nostro, "Der siebente Kontinent" (1989): avevano, i due, finanche una figlia chiamata Eva. Ebbene, ivi marito e moglie si chiudevano in casa assieme alla figliola, demolivano l'alloggio, distruggevano il denaro e infine si suicidavano. Le lunghe inquadrature sugli sguardi apatici dei protagonisti, su oggetti d'arredamento, sul televisore acceso anche dopo che la famiglia s'è spenta, sono momenti d'una radicalità quasi insostenibile. Non ci sembra azzardato immaginare "Amour" come una variante sul tema: quasi Haneke avesse voluto immaginare per i suoi personaggi quale avrebbe potuto essere la vita, se non avessero compiuto scelte tanto radicali.

Una cosa, in ogni caso, accomuna le due pellicole e, in generale, l'opera tutta di Haneke: la morte e la sua presenza. "Medea non muoia in scena" ammonivano gli antichi, e sapevano quel che dicevano: la dipartita è momento sacrale e tragico, è "la fine" e la sua rappresentazione l'insostenibile confronto con essa. In contrasto con quanto si è vieppiù venuto con il tempo affermandosi, vale a dire l'agonia come spettacolo e metafora d'una civiltà degenerata, Haneke restituisce al momento estremo la propria dignità, a partire dalla pacata ma ferma constatazione che esso è laddove la vita - pur nell'esistenza dei segni biologici - non si dà più. Dalle stragi "fuori campo" di "Funny Games" (1997) alla comminata interruzione d'una sofferenza priva di significazione, corre il filo rosso d'uno sguardo etico prima ancora che registico, nel solco d'una tradizione che ha un solo, illustre precedente: Robert Bresson. Non credo si possa far ad Haneke complimento migliore dell'affermare ch'egli è pienamente all'altezza del maestro, né a Riva e a Trintignant del definire questa loro la migliore interpretazione nella carriera di entrambi.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

AMOUR. REGIA: MICHAEL HANEKE. INTERPRETI: JEAN-LOUIS TRINTIGNANT, EMMANUELLE RIVA, ISABELLE HUPPERT. DISTRIBUZIONE: TEODORA FILM. DURATA: 127 MINUTI.


giovedì 18 ottobre 2012

Io e te

Quattordicenne e introverso, Lorenzo si trova a disagio con i propri coetanei. Approfittando della settimana bianca a scuola, egli si chiude in cantina per una sorta di vacanza forzata. Approvvigionatosi di generi commestibili e di libri horror, s'appresta a vivere in completo isolamento, quando non annunciata si presenta - in cerca di oggetti che le appartengono - la sorellastra Olivia. E', costei, una ragazza di 25 anni inquieta e problematica, con ambizioni artistiche e una dipendenza dall'eroina che la rende fragile. La convivenza in uno spazio così angusto si fa da subito assai difficile: ma, alla fine, i due scoprono le proprie affinità e, su tutto, trovano l'uno nell'altra lo stimolo a crescere e il motivo per farlo.

Pochi cineasti al mondo sono capaci di estrarre mirabilie dal kammerspiel quanto Bernardo Bertolucci: basti pensare allo stupendo uso degli spazi in funzione narrativa de "L'assedio" (1999), e finanche di "Ultimo tango a Parigi" (1972). Quanto agli adolescenti, egli li dirige in modo da cavarne il massimo, come "The Dreamers" (2003) s'incaricava di dimostrare senza possibilità di smentita. E' nato, quindi, sotto i migliori auspici questo ritorno all'attività registica del nostro, dopo quasi un decennio di silenzio: la scaturigine è un bel romanzo breve di Niccolò Ammaniti, rispettato nelle sue linee principali con solo una significativa divergenza nel finale, qui aperto, quasi lieto (sulle note della "Space Oddity" di Bowie, prima citata pure nella versione nostrana con testo di Mogol, "Ragazzo solo, ragazza sola").

Applauditissimo all'ultima edizione del Festival di Cannes, dove è passato fuori concorso, "Io e te" è una completa riuscita, un piccolo capolavoro e - ad avviso di chi scrive - la migliore pellicola indigena dell'annata. Il modo in cui l'ingranaggio solipsistico di Lorenzo muta pian piano in viaggio iniziatico a due è descritto da Bertolucci con finissime intuizioni psicologiche e grande delicatezza di tocco. Claustrofilo e dolcemente malinconico, "Io e te" è un poemetto sulla scoperta della necessità dell'altro, sul valore della solidarietà concessa, sulla gioia della commozione provata: novello Arthur Gordon Pym (il personaggio di Poe che s'infilava nella stiva d'una nave per trascorrervi tutto il tempo del viaggio), Lorenzo "scopre" la sorella e, attraverso di lei, si scopre.

E veniamo ad Olivia, il personaggio più bello del film (ed uno tra i femminili più intensi del cinema nostrano tout court). Questa spaventata guerriera, sospesa fra disperazione e spavalderia, rabbiosa nei confronti della seconda moglie del padre e incerta nel sentimento verso il fratellastro, evolve col dolore, in un percorso di crescita quasi impercettibile. Il luogo dell'incontro/scontro, la cantina rigurgitante di memorie e ciarabattole (neppure il passato del paese manca, si veda la testa mussoliniana di Renato Bertelli), passa anch'essa senza parere da camicia di Nesso per un duo d'inconciliabili a luogo elettivo per un affetto da scoprire - o da riscoprire. Resa lode al magistero del cineasta parmense, si dovrà dire che merito speciale va dato al brufoloso Jacopo Olmo Antinori, un Lorenzo toccante e credibile, e ancor più a Tea Leoni, superba semiesordiente che incarna Olivia diteggiando su una tastiera d'emozioni vasta quanto l'infinito.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IO E TE. REGIA: BERNARDO BERTOLUCCI. INTERPRETI: JACOPO OLMO ANTINORI, TEA FALCO, SONIA BERGAMASCO. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DURATA: 97 MINUTI.

martedì 16 ottobre 2012

Il comandante e la cicogna

Leo - idraulico con due figli da crescere, Maddalena ed Elia - svolge la propria attività con l'assistente cinese Fiorenzo e, per quel che riguarda le cose domestiche, aiutato dalla moglie Teresa, che scompare e riappare. Diana è una giovane pittrice, tanto ricca di idee e di progetti quanto squattrinata; suo padrone di casa è il signor Amanzio, che s'è ritirato dal lavoro per ritagliarsi un ruolo da moralizzatore urbano. Leo e Diana s'incontrano dall'avvocato Malaffano, un leguleio abile e truffaldino: il primo desidera far togliere dalla rete un filmato che vede la figliola, contro la di lei volontà, protagonista; l'artista, invece, si guadagna qualche soldo affrescando una parete dello studio del legale (ed assecondandone le sciagurate manie di grandezza). Il ragazzino Elia, dal canto suo, insegue il volo della cicogna Agostina, giungendo a recarsi sino in Svizzera per verificarne la ritrovata salute...

Due sono le corna dell'arte di Silvio Soldini, com'è noto; da un lato, una robusta vena di facitore di film drammatici a sfondo sociale (da "L'aria serena dell'Ovest" a "Cosa voglio di più"); d'altro canto, una parallela di cesellatore di commedie dal tono aggraziato e un poco surreale ("Pane e tulipani", "Agata e la tempesta"). E' a quest'ultima che "Il comandante e la cicogna" è riconducibile, con una differenza: al contrario delle altre due sue opere similari, qui si è assai legati al momento storico che stiamo vivendo, alla realtà contemporanea. Procedendo in detta direzione, il nostro s'è inventato l'espediente - ispirato a un vecchio film di Alain Tanner, "Jonas che avrà vent'anni nel 2000" - di far parlare delle statue di italiani famosi (da Garibaldi a Verdi, da Leonardo a Leopardi) per far loro dire cosa di questo paese potrebbero pensare, oggi...

Ma veniamo al dunque. L'idea è quella di seguire le varie vicende facendo incrociare, man mano che ci s'avvicina alla conclusione, i personaggi. Fin qui tutto bene, gli snodi sono fluidi, lo scorrere degli avvenimenti è in qualche modo credibile, i personaggi paiono strambi ma suonano veri. Tuttavia, il risultato finale è inferiore alla somma delle parti. Innanzitutto, il discorso sull'orribilità di un presente fangoso, soffocante, volgare è troppo diretto, quasi declamatorio. Inoltre, tale specificità mal si lega a figure aeree e vagamente magiche, in qualche modo autoreferenziali (e, purtroppo, a volte costrette nel letto di Procuste della macchietta). A ciò s'aggiunga che qui latita la malinconica dolcezza di "Pane e tulipani", e s'avrà il ritratto d'una pellicola apprezzabile per il suo garbo, per la sua levità, ma priva di  altri meriti. Tra gli attori, il migliore è Giuseppe Battiston, capace di conferire al suo Amanzio una ruvida bonomia che lo rende irresistibilmente simpatico.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL COMANDANTE E LA CICOGNA. REGIA: SILVIO SOLDINI. INTERPRETI: VALERIO MASTANDREA, ALBA ROHRWACHER, GIUSEPPE BATTISTON, CLAUDIA GERINI, MARIA PAIATO, LUCA ZINGARETTI. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 108 MIN.

giovedì 11 ottobre 2012

Tutti i santi giorni


Dalle acciaierie di Piombino de "La bella vita" alla provincia pisana di Casale Marittimo in "Baci e abbracci", il cinema di Paolo Virzì s'è mostrato ogni volta attento - attraverso storie e personaggi differenti - a comporre un puzzle dell'Italia contemporanea, a tracciar il profilo di un paese sempre uguale e sempre diverso. In "Tutti i santi giorni" (stavolta siamo ad Acilia, ai margini di Roma), al centro della narrazione troviamo una coppia dai caratteri all'apparenza incompatibili e dai ritmi di vita difficilmente conciliabili: Antonio, timido e colto, fa il portiere di notte in un albergo di prima categoria; Antonia, inquieta ed irritabile, lavora di giorno in un autonoleggio e di sera s'esibisce in un locale come cantante. Il desiderio di avere un bambino - da orologio biologico per lei, più razionale e meditato in lui - li porta a far l'amore senza esito tutti i santi giorni e a trasmutare, pian piano, la loro esistenza in un vero e proprio incubo...

Parlando del bell'esordio nel romanzo di Simone Lenzi (Dalai editore), da cui Virzì ha liberamente tratto il proprio film, il sottoscritto scriveva sul quotidiano "La Stampa" (28/4/2012): "sullo sfondo, come in dissolvenza, si scorge il tema della ricerca di un'impossibile felicità". Ecco, il problema di questa trasposizione sta proprio nell'opzione del cineasta livornese: limitandosi a prender dal libro
lo spunto e poco d'altro, egli ha scelto la rassicurante via d'una commedia a lieto fine. Naturalmente,
i riferimenti alla tradizione filmica indigena ci sono, eccome (ad esempio, troviamo pure qui "le copule compulsive, a orari prefissati" ch'erano il refrain in "Alfredo Alfredo" di Germi): manca però, di contro,
il ritratto di "una realtà puntuta e sgradevole" che emergeva invece, con puntualità, dalla pagina scritta. Insomma, da materia simile Marco Ferreri avrebbe cavato una variazione sui temi de "L'ape regina"; Virzì pare preferire, al contrario, il terreno di talune fiction televisive.

E' un peccato, perché la prima parte della pellicola, sostenuta da un gran ritmo e da interpreti adeguati - Luca Marinelli conferma la buona impressione suscitata dalla sua prova ne "La solitudine dei numeri primi", la cantautrice siciliana Thony fa un convincente debutto come attrice - promette molto; poi, la storia perde d'interesse e si disperde in mille rivoli (la visita dei genitori di lei, francamente pleonastica) pure disomogenei sotto il profilo stilistico (si veda la parte in ospedale, con toni quasi slapstick che stridono con tutto il resto). Insomma, esiti diseguali che lasciano alquanto interdetti, conoscendo l'indubbio talento del nostro. Oppure, chissà, Virzì è soltanto il Monicelli che si meritano la società capitalistica odierna e i mezzi di comunicazione di massa: per adeguarsi ai parametri obbligati del successo e del consumo, mortifica la propria vena più autentica, smorza i cattivi pensieri
e simula di credere che omnia vincit amor.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

TUTTI I SANTI GIORNI. REGIA: PAOLO VIRZI'. INTERPRETI: LUCA MARINELLI, THONY, MICOL AZZURRO. DISTRIBUZIONE. 01. DURATA: 102 MINUTI.



lunedì 8 ottobre 2012

Le belve

Laguna Beach, California del Sud. Gli amici per la pelle Ben e Chon, reduce dall'Afghanistan il primo, intellettuale pacifista il secondo, si dividono tutto, nella vita. Innanzitutto, il commercio di marijuana, la migliore qualità disponibile sul mercato; inoltre la fidanzata O, abbreviativo di Ophelia, oltre che di orgasmo. Ma in un sistema di capitalismo avanzato, ovviamente, una simile attività economica non può restare a lungo in sordina. La loro celebrata erba finisce per attirar l'attenzione del Cartello dei trafficanti messicani di Bahia, capeggiato dalla spietata Elena "La Reyna": per costringere il duo a lavorare per lei, la donna fa rapire O e lascia briglia sciolta al più sadico dei suoi scagnozzi, Lado. E' l'inizio di una guerra senza esclusione di colpi, proprio sotto gli occhi dell'ambiguo agente dell'antidroga Dennis...

Girato in economia per i canoni hollywoodiani (solo 40 milioni di dollari), "Le belve" prende le mosse dall'iperviolento - Stone ha dovuto comprarne i diritti in prima persona, poiché gli studios lo ritenevano  troppo sanguinario - romanzo omonimo dell'ex detective Don Winslow (da noi lo pubblica Einaudi). Siamo dalle parti, lo si sarà capito, dell'universo letterario d'un James Ellroy, pane per i denti del regista di "Assassini nati" (1994) e "UTurn - Inversione di marcia" (1997): e difatti, anche stilisticamente, i vezzi del nostro - alterazioni di colore, saturazioni, passaggi al bianco e nero, immagini da webcam e cellulari - ci sono tutti.

Mix parossistico di generi, noir e thriller, love story e snuff movie, "Le belve" - pur imperfetto - è l'esito migliore dello Stone più recente. Sostenitore della liberalizzazione delle droghe leggere, nostalgico dello spirito sessantottino, il cineasta newyorkese mette in scena una ballata iperbolica e lisergica punteggiata di sangue e di morti, sorta di mix fra "Bonnie and Clyde" (1967) ed "Alice's restaurant" (1969). Tutto sopra le righe, volutamente e, a tratti, gioiosamente; con pungenti caratterizzazioni dei personaggi (la palma del migliore va, a nostro avviso, all'imbolsito e tuttavia scintillante Travolta nel ruolo di Dennis), sequenze survoltate quanto imprevedibili (il rutilante scioglimento, che ammicca a "Duello al sole" prima di distendersi in un atipico happy end), un clima generale da West Coast d'antan - il rapporto che lega i protagonisti ad O pare visualizzare un classico d'epoca di David Crosby, "Triad" - che riscalda il cuore dei nostalgici, e speriamo non soltanto il loro.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LE BELVE. REGIA: OLIVER STONE. INTERPRETI: TAYLOR KITSCH, AARON TAYLOR- JOHNSON, BLAKE LIVELY, SALMA HAYEK, BENICIO DEL TORO, JOHN TRAVOLTA, EMILE HIRSCH. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 131 MINUTI.

giovedì 4 ottobre 2012

Killer Joe


Il ventiduenne Chris Smith è un piccolo spacciatore, al quale la madre ha rubato la droga andandosene con un altro uomo. I fornitori gli stanno alle calcagna e lui non saprebbe come fare fronte al debito, se non venisse a sapere che la mamma ha una polizza sulla vita da 50.000 dollari. D'accordo con il padre, la di lui nuova donna e la sorellina decidono d'ingaggiare il fascinoso sicario Killer Joe - un poliziotto che arrotonda la paga con delitti su commissione - per uccidere la genitrice ed incassare il denaro. Non potendo, però, pagare la somma di 25.000 dollari richiesti in anticipo dall'assassino su commissione, Chris accetta di dargli quale caparra la sorella minore Dottie, nell'attesa d'incassare i soldi dell’assicurazione. Joe porta a termine la missione, ma si scopre che a prendersi tutto il malloppo sarà il nuovo fidanzato della morta...

Tratto da una piéce teatrale di Tracy Letts, "Killer Joe" è una commedia pulp nera e cinica, a metà strada fra gli allegri massacri di Tarantino e l'ironia sulfurea dei fratelli Coen. Sono, questi, semplici punti di riferimento, ché il quasi ottantenne William Friedkin non ha davvero bisogno di numi tutelari: per un'intera carriera in bilico tra alto artigianato e finezze autoriali, egli è cineasta quasi cartesiano nel suo mettersi al servizio della storia e nel non lasciar tregua allo spettatore (si pensi a "Vivere e morire a Los Angeles": che è, insieme a questo, il suo risultato migliore, oltre a quello che più gli si avvicina per l'iperrealistico pessimismo).

Lo sfondo è tra i protagonisti della vicenda narrata: un Texas assolato e deprimente, abitato da redneck ottusi e sovente poveri, privi di valori che non siano la preghiera collettiva prima del desinare, di legge che non sia quella del dollaro. E' l'egoismo, la rapacità a guidarli: non esistono legami familiari che tengano, amicizie che valgano o ruoli che garantiscano. Dietro l'uomo di legge si cela il delinquente, dietro il fratello un sensale dei favori sessuali della sorella, dietro il padre uno che sacrifica il figlio per salvarsi la ghirba. Traditori di tutti, direbbe Scerbanenco, gente comune che può farti fuori da un minuto all'altro senza che tu neppure ne immagini il motivo.

In questo universo totalmente negativo, si muovono figure indimenticabili: la ragazzina Dottie, ad esempio, con l'ambiguità di una Lolita ed il candore d'una Cenerentola; o Killer Joe (un superlativo Matthew McConaughey; ma il cast tutto, precisiamolo, fa faville), non sai sino a che punto sbirro infedele, psicopatico ossessivo, pervertito sessuale. Friedkin rappresenta ciascuno evitando la scorciatoia d'uno sguardo "morale", che temi tuttavia venga recuperato al termine: invece nulla, il convulso scioglimento segna solo un ulteriore precipitar nel caos, tra cosce di pollo brandite a mo' di membri virili, scoperchiamenti di verità malcelate, colpi di pistola all'impazzata. Sotto un cielo indifferente; posto che esista, da quelle parti, un cielo.
                                                                                                                                        Francesco Troiano

KILLER JOE. REGIA: WILLIAM FRIEDKIN. INTERPRETI: MATTHEW McCONAUGHEY, EMILE HIRSCH, JUNO TEMPLE. DISTRIBUZIONE: BOLERO FILM. DURATA: 100 MINUTI.

mercoledì 3 ottobre 2012

Cogan

New Orleans, 2008. Mentre la sfida per le presidenziali tra Obama e McCain è nella sua fase più calda, con radio e televisioni impegnate a render conto del duello, due giovani delinquenti di mezza tacca - ma sicuri d'esser in gamba - rapinano una partita di poker pensando che la colpa ricadrà sul gestore, di già sospetto agli occhi della mafia. I capi di quest'ultima, per scoprire i colpevoli e far recuperare il denaro sottratto, scelgono di rivolgersi ad un assassino professionista, Jackie Cogan. Poiché una delle persone da eliminare lo conosce, il killer assolda a sua volta un collega, Mickey. Costui si rivela, però, schiavo dell'alcol e tormentato da problemi personali; talché il nostro decide, alla fine, di fare tutto da solo...

Non si può certo dire che il neozelandese Andrew Dominik sia un cineasta prolifico: tre film in dodici anni, il notevole "Chopper" (2000), il crepuscolare "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford" (2007) e, ora, questo "Cogan" (2012). Pur in un numero così limitato di opere, il suo stile è riuscito a farsi strada, le sue peculiarità a imporsi: attenta caratterizzazione psicologica dei personaggi, narrazione piana intervallata da repentini attimi di ferocia, una forte propensione ad affrontare in modo critico il capitalismo ed i suoi meccanismi. Sono dette caratteristiche, probabilmente, ad aver spinto Pitt - qui protagonista - a dargli fiducia, sino al punto da coprodurre il film.

"Cogan" è tratto dall'omonimo romanzo scritto nel 1974 da George V.Higgins: "maestro di stile" secondo Elmore Leonard, "uno dei grandi innovatori del crime" per Scott Turow, egli ha esordito con il magistrale "Gli amici di Eddie Coyle" (1972), portato sul grande schermo l'anno dopo da Peter Yates. Per molti anni procuratore distrettuale prima d'intraprendere la carriera di scrittore, Higgins - nella trentina di romanzi e nelle due raccolte di racconti usciti a sua firma - ha esaminato con lucida precisione tecniche e linguaggio delle infrastrutture criminali, sovente inserendoli nel contesto di
un più ampio sistema di soprusi e malversazioni, dominato dalla bramosia del denaro.

La polemica anticapitalistica, che fa di "Cogan" un film marxista nei significati ultimi e brechtiano nell'esposizione ("che cos'è la rapina di una banca al confronto della fondazione di una banca?", si chiedeva il drammaturgo tedesco), corre lungo tutta la vicenda, per farsi esplicita nella conclusione (memorabile il monologo di Pitt contro Thomas Jefferson, ambiguo "padre della patria"). Merito di Dominik è quello di aver saputo inserire la sua invettiva politica - che sottolinea con amarezza il fallimento del nuovo sogno obamiano - in una solida struttura di "noir", con tanto di scene action
e survoltati momenti di violenza, conseguenti ad uno scenario di disincanto e dissoluzione etica.

Cast strepitoso, infine. Pitt guida le danze, disegnando la figura di Cogan con sfumature e sottotoni; Ray Liotta è abile a restar sospeso tra stupefazione e furbizia; Gandolfini, infine, rende memorabile il suo personaggio, impasto di dolore e volgarità, giocando pressoché da fermo, con mimica imbattibile.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

COGAN. REGIA: ANDREW DOMINIK. INTERPRETI: BRAD PITT, JAMES GANDOLFINI, RAY LIOTTA, RICHARD JENKINS, BEN MENDELSOHN. DISTRIBUZIONE: EAGLE. DURATA: 97 MINUTI.
                                                                                                                                                      

martedì 2 ottobre 2012

Un giorno speciale

Oltre la periferia romana, in uno sperduto quartiere fuori dal raccordo anulare, Gina si sta preparando ad un appuntamento per lei importante: deve incontrare un parlamentare che potrebbe procurarle un posto alla televisione. Marco è, invece, l'autista inviato da quest'ultimo per accompagnare la ragazza: anch'egli di origini umili, è al suo primo giorno di lavoro e, quindi, ugualmente emozionato un poco.
Un intoppo - il politico è impegnato in una lunga seduta, tutto viene rinviato ad un orario imprecisato - consente ai due giovani di conoscersi meglio. Pian piano, vinta l'iniziale diffidenza, essi entrano in sintonia, finendo per recuperare l'allegria, la sventatezza lieve proprie dell'età. Sembra poter nascere qualcosa fra loro, ma il telefono squilla perentorio: è ora di andare, l'incontro può realizzarsi. Di poi, scesa la notte, le distanze che parevano essersi colmate ridiventano siderali: in un breve lasso di tempo, le loro esistenze sono mutate. Per sempre?

Nel pamorama dei cineasti indigeni, Francesca Comencini occupa un posto alquanto peculiare. Dal tempo dell'esordio ("Pianoforte", 1984), pur avendo lei diretto pochi lungometraggi di fiction, ha dato vita a una filmografia ricca: diversi sono, infatti, i documentari da lei firmati, che testimoniano d'una passione civile oramai desueta. Basti citare "Carlo Giuliani, ragazzo" (2002), analisi toccante d'una morte ingiusta e vergognosa, o "In fabbrica" (2007), ricostruzione delle lotte operaie realizzata con materiali delle Teche Rai. Non bastasse, Francesca rientra pure nel ristretto numero di cineasti che affrontano di petto l'Italia contemporanea: più ancora di "Mi piace lavorare" (2004), si pensi ad "A casa nostra" (2006), dove l'indignazione per il degrado del tessuto morale del paese va, in maniera esemplare, di pari passo con la capacità di narrare varie storie, intrecciandole in maniera credibile.

A maggior ragione, duole ora dire che con "Un giorno speciale" la regista romana è incappata in un autentico infortunio. Adattando un romanzo di Claudio Bigagli, "Il cielo con un dito" (Garzanti), ha cercato di raccontare una vicenda tipica della contemporaneità di casa nostra: all'uopo, eleggendo a protagonisti due figli della precarietà, indecisi fra la ricerca del colpo di fortuna ad ogni costo ed il richiamo ad un modo più etico e gioioso di vivere la propria giovinezza. L'idea non era, in verità, peregrina, e nei primi venti minuti pare realizzarsi secondo moduli spiazzanti: dalla vestizione della ragazza, quasi solenne come quella del Papa nel "Galileo" di Brecht, all'abboccamento fra due persone così vicine così lontane, tra ritrosie e piccole ansie: il tutto, filtrato da un montaggio che sta sui personaggi con tenerezza, come se volesse carezzarli. Purtroppo, il prosieguo si smarrisce tra situazioni prevedibili o già vedute, la lingua si fa artificiosa proprio inseguendo una problematica naturalezza, finanche i personaggi hanno un che di stereotipato che l'incipit non lasciava presagire.

L'amarezza dello scioglimento fa riprendere qualche punto al film (ma il repentino gesto di rivolta di Marco suona narrativamente poco credibile), che resta comunqe tra i meno riusciti della Comencini. Le interpretazioni, come tutto il resto, non persuadono più di tanto: così convincente nell'esordio di Francesco Bruni, "Scialla!", Filippo Scicchitano qui sembra non a suo agio in un personaggio che non padroneggia fino in fondo e di cui, forse, stenta ad inquadrare la psicologia; meglio Giulia Valentini, la cui atipica beltà sottolinea a dovere l'ambiguità sofferta, a volte financo struggente, di Gina.
                                                                                                                                    Francesco Troiano 

UN GIORNO SPECIALE. REGIA: FRANCESCA COMENCINI. INTEPRETI: FILIPPO SCICCHITANO, GIULIA VALENTINI. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 90 MINUTI.

martedì 25 settembre 2012

Reality

Pescivendolo e piccolo truffatore, Luciano è anche showman di quartiere a tempo perso: con la moglie ed i tre figlioletti ha una che vita può dirsi, in fin dei conti, serena. Un piccolo tarlo, tuttavia, lo rode, fors'anche a sua insaputa: partecipando al "Grande Fratello", un concittadino ha sfondato nell'universo televisivo ed è assurto a modesta fama, tale comunque da farlo andar presenziando a matrimoni e feste in elicottero. Così, su insistenza della prole, egli decide di darsi un'opportunità partecipando alle selezioni del programma televisivo. Convocato a Roma per una seconda audizione, si convince di aver fatto breccia, di poter entrare nel numero dei partecipanti: la chiamata, però, tarda ad arrivare. A questo punto, il concorrente presunto inizia ad immaginarsi spiato da misteriosi emissari della tv: cede perciò la propria attività, regala gran parte delle suppellettili di casa ai bisognosi; infine, staziona in permanenza dinnanzi all'apparecchio televisivo, immergendosi ogni giorno di più in un mondo di fantasia...

Non era facile, fare un film dopo "Gomorra". Garrone ha tentennato parecchio, prima accarezzando un progetto su Fabrizio Corona, dipoi scegliendo di realizzare una commedia dai toni incubici e surreali. "Reality"trae ispirazione da molto cinema italiano del passato, remoto e prossimo: la formidabile scena iniziale del matrimonio ricorda Ciprì&Maresco e gli esordi di Roberta Torre; il segmento dell'audizione pare una versione postmoderna di "Bellissima" di Visconti; infine, l'atmosfera generale è, con evidenza, debitrice del Fellini più survoltato e barocco, quello di "Ginger e Fred". Come se la cava, Garrone, fra tutte queste suggestioni? Fatica, diremmo. Se è vero che i suoi film sono, in primo luogo, dei viaggi dentro le immagini (stante le sue scaturigini di pittore), è però altrettanto vero che qui resta, al fondo, un che d'inerte, d'irrisolto.

Ci spieghiamo meglio. Lo sguardo freddo, meramente descrittivo,  del cineasta romano s'attagliava alla perfezione a storie incandescenti come quelle de "L'imbalsamatore" o di "Primo amore", persino al paesaggio con figure di "Gomorra". Qui, alle prese con una vicenda esile sino all'impalpabilità, tutto sembra sfumare nell'indefinito: a confronto, il recente "E' stato il figlio" di Daniele Ciprì (un'opera con la quale "Reality" ha vari punti di contatto) mostra come sia necessario scegliere una strada - il dramma, lì - per potere portare a conclusione simili percorsi. Pur se è evidente lo sforzo di Garrone d'assumere lo sguardo del protagonista (e, per detta via, di condurre lo spettatore ad una sorta di condivisione), il coinvolgimento nello smarrimento di Luciano non avviene, anzi risulta - a dirla tutta - difficilmente praticabile.

Così, se la mano registica del nostro rimane felice (dell'incipit s'è già detto; ugualmente straordinario lo scioglimento, che chiude il cerchio nel segno d'una fiaba straniante e straniata), il bilancio della pellicola non può dirsi interamente positivo; è come se, ad un certo momento, Garrone avesse creduto sempre meno all'idea di partenza, affidandosi all'estro ed alla bravura di Aniello Arena per poter proseguire. Contributi tecnici di prim'ordine, ovviamente; e un cast affiatato, che trova nelle prove di Loredana Simioli e di Nando Paone i propri vertici.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

REALITY. REGIA: MATTEO GARRONE. INTERPRETI: ANIELLO ARENA, LOREDANA SIMIOLI, NANDO PAONE. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA. 115 MINUTI.

martedì 18 settembre 2012

Il rosso e il blu

In una scuola superiore di Roma, la vita si svolge regolare, quasi monotona, animata solo dalle diversità umane e professionali. Nel corpo docente, si va dalla disillusione che sfiora il cinismo dell'anziano professore d'arte Fiorito all'entusiasmo del giovane supplente di lettere Prezioso, che manda subito a memoria i nomi degli allievi per stabilire un rapporto d'amicizia con loro. Ad ogni cosa sovrintende la preside Giuliana che spaccia per rigore la paura dei sentimenti, simulando un'anaffettività ed una non oblatività che l'allievo Brugnoli - abbandonato dalla madre, purtuttavia non perduto - svela nella loro inconsistenza. Infine quanti siedono sui banchi, la ragazza che si sente già parte del mondo degli adulti, quella che patisce l'indifferenza della famiglia, il ragazzo rumeno che eccelle nello studio ma ha le sue fragilità...

"Niente periferie estreme, nessuna terra di frontiera, niente di facilmente tematizzato. La scuola, nel mio film, c'è con le sue inadeguatezze e le sue disfunzioni, ma l'attenzione è tutta per le persone, adulti e ragazzi, ognuno a suo modo alle prese con una scelta". C'è, in questa dichiarazione d'intenti, la chiave per intendere come Piccioni si è accostato a "Il rosso e il blu": partendo dall'omonimo libro di Marco Lodoli (Einaudi), ha evitato l'approccio sfaccettato e obliquo del bellissimo "La classe" (2008) di Cantet come pure il grottesco modulato de "La scuola" (1995) di Luchetti. Egli ha preso, di contro, la strada della commedia: la più azzardosa, perché esposta al rischio del macchiettismo e dei luoghi comuni, in una parola della banalità elevata a metodo. Se l'è cavata molto bene, invece, il cineasta marchigiano: al suo undicesimo lungometraggio, ha azzeccato uno dei propri esiti più convincenti, forse il migliore accanto a "Fuori dal mondo" (1999).

Scritto dal nostro assieme a Francesca Manieri e allo stesso Lodoli (la mano di quest'ultimo si sente, eccome), il soggetto calibra bene l'attenzione al disegno dei caratteri quanto la loro collocazione nello sfondo. I personaggi risultano alla fine ben delineati (merito pure degli interpreti, Herlitzka strepitoso, Scamarcio diligente, la Buy tutta mezze tinte), per niente banali (la studentessa Mordini, struggente e criptica: Silvia D'Amico le dà corpo con convinzione), dentro una prospettiva corale che s'illumina nella bizzarria di alcuni episodi (l'affettuoso stalking da parte di un'antica allieva di cui è vittima, non senza compiacimento, Fiorito). La scuola, minata dal disinteresse delle istituzioni, lasciata ad un degrado che si traduce nella mancanza dei più elementari mezzi (fotocopie a pagamento dopo un certo numero: e non è, di sicuro, il peggio), mantiene qui l'importanza che essa si trova a rivestire in una società sana.

Al di là di talune approssimazioni e sfasature, de "Il rosso e il blu" piace assai l'appello alla volontà, al coraggio necessari per andar avanti malgrado le difficoltà: l'attenzione, la pazienza, l'ascolto risultano fondamentali nel non darsi per vinti, nel non cedere alla tentazione della rinuncia. "Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi", per dirla con Brecht: quando il supplente Prezioso è offeso con villania da un ricco arrogante durante l'ora di ricevimento dei genitori, ci si rende conto della validità dell'assioma. E di quanto il paese debba ai tanti come lui che, in situazioni anche più difficili, tengono botta, grazie a cose che si chiamano rispetto, dignità, amore per il proprio lavoro.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

IL ROSSO E IL BLU. REGIA: GIUSEPPE PICCIONI. INTErPRETI: MARGHERITA BUY, RICCARDO SCAMARCIO, ROBERTO HERLITZKA. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 98 MINUTI.