lunedì 29 dicembre 2014

Big Eyes

Margaret Ulbrich è una giovane donna priva di mezzi, che licenzia per passione e per necessità dipinti raffiguranti dei teneri marmocchi dagli occhi giganteschi. Allontanatasi da suo marito nella sola maniera  possibile a quei tempi (siamo negli Usa degli anni '50), i bambini più poche cose caricate sull'auto e via, ella s'imbatte, dipoi, in Walter Keane, un "wannabe artist" scaltro e privo di scrupoli. Intuendo, in quelle opere vagamente kitsch ed intrise di sentimentalismo, delle potenzialità commerciali, egli - impalmata la pittrice - inizia a spacciarle per proprie e a prender a venderle con metodi inediti, tuttavia efficaci. In breve tempo, un enorme quanto inatteso successo arride ai lavori, al punto che Walter può edificar un autentico impero su di una colossale menzogna, riuscendo ad abbindolare l'America intera. Sino a che Margaret decide di ribellarsi, intentando al consorte una causa di divorzio in cui sostiene di essere lei, la vera autrice dei quadri...

In un'epoca nella quale l'arte femminile non godeva di alcuna reale considerazione (quella di Margaret O'Keefe essendo l'eccezione tesa a confermar la regola), il plagio che Walter commette ai danni della coniuge è reso possibile dal modo in cui si sviluppavano tantissime storie d'amore allora, prendendo le mosse dalla seduzione adorante e sfociando nella sottomissione più o meno inzuccherata. Tuttavia, il femminismo si avvicinava a passo spedito e Margaret si trovò in qualche modo a esserne un apripista. Nata nel 1927 in una famiglia metodista del Tennesse, reduce da studi artistici, la ragazza - carattere introverso e solitario - principiò a dipingere per esternare "le proprie emozioni più profonde". Oggi ha 87 anni, vive nel Connecticut e Tim Burton, divenutone amico, ha acquistato alcune tra le sue tele, senza mai nascondere ch'esse sono state per lui fonte d'ispirazione.

Lavorando su una solida sceneggiatura di Scott Alexander e Larry Karaswezski, grandi esperti di biopic (il loro script sul comico Andy Kaufman è alla base di "Man on the Moon"; quello sull'editore Larry Flynt, della pellicola omonima; inoltre, hanno prodotto un film sull'attore Bob Crane, "Autofocus"), Burton ha messo in scena un racconto sempre illuminato dalla luce solare, nel quale i personaggi indossano delle mise pastello in abitazioni color pastello dotate di piscina e di angolo bar. Fedele agli avvenimenti reali sino alla pignoleria, il regista ha poi lasciato mano libera a Christoph Waltz, attore dotatissimo al quale però bisogna tener la briglia corta (e qui, di fatti, più d'una volta gigioneggia, lasciandosi trascinare dall'istrionismo del personaggio); un poco del Maestro lo si trova in certe scene, a esempio negli occhi di Amy Adams che piange e guida nell'unica scena notturna. Per il resto del metraggio, il cineasta californiano sparisce, quasi questa pellicola nascesse dal bisogno di rendere omaggio ad una persona "presente" con i suoi soggetti in tutto il proprio percorso artistico. Intendiamoci, l'insieme possiede una sua piacevolezza e non ci si annoia: ma siamo ben lontani dai capi d'opera burtoniani, e riferire d'una piccola delusione non ci sembra invero fuori luogo.

BIG EYES. REGIA: TIM BURTON. INTERPRETI: CHRISTOPH WALTZ, AMY ADAMS, TERENCE STAMP, KRYSTEN RITTER, JASON SCHWARTZMAN, DANNY HUSTON. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 104 MINUTI.

mercoledì 24 dicembre 2014

American Sniper

Chris Kyle, appartenente al corpo d'élite militare degli U.S. Navy SEAL, viene inviato in Iraq con una missione ben determinata: guardar le spalle ai propri commilitoni, proteggerli dalle insidie preparate dal nemico. La sua straordinaria precisione di cecchino salva le vite di innumerevoli compatrioti sul campo e, mentre i racconti della sua glaciale determinazione si diffondono, viene soprannominato "Leggenda". Frattanto, la sua reputazione è cresciuta anche sul fronte avverso, a tal punto che viene messa una taglia sulla sua testa: egli è divenuto il bersaglio numero uno per gli insorti. Allo stesso tempo, Chris si trova a combattere una battaglia in casa propria nel tentativo d'essere sia un buon marito sia un buon padre, pur trovandosi per tanto tempo dall'altra parte del mondo. Nonostante il pericolo e l'elevatissimo prezzo che dovrà pagare la sua famiglia, la rischiosa missione in Iraq si svolge per i previsti quattro anni, nel corso dei quali egli riesce a tener sempre fede al motto dei SEAL, "che nessun uomo venga lasciato indietro". Ritornato infine a casa dalla moglie e dai figli, il reduce scopre che ciò che proprio non riesce a lasciarsi alle spalle è la guerra...

Avrebbe dovuto dirigerlo sulle prime David O.Russell, questo "American Sniper"; dipoi era subentrato, anch'egli decidendo di rinunciare, Steven Spielberg; infine è stato l'ultimo cineasta "classico" degli Usa,  Clint Eastwood, a raccogliere il testimone ed a condurre il progetto in fondo. Fondato sull'autobiografia di Chris Kyle (ha venduto un milione di copie), tiratore scelto accreditato di almeno 160 bersagli umani colpiti, il film colloca al centro della vicenda un ragazzone figlio della tradizione texana, cui il padre ha insegnato sin da bambino l'uso del fucile da caccia, ed al quale è parso dipoi naturale andare a servire il proprio paese, eliminando quelli che lui e i suoi compagni chiamano "selvaggi". Fosse uscita negli anni '70,  una pellicola così sarebbe stata considerata reazionaria e guerrafondaia, liquidata magari perfino in poche righe; oggi, in tempi meno ideologizzati di quelli, sarà oggetto - si spera - di analisi un poco più approfondite.

Intendiamoci, "American Sniper" è opera per nulla priva d'ambiguità: mettere assieme la disumanità del cecchino con il dramma di un nucleo familiare che attende per mille giorni, in Texas, un consorte ed un genitore affettuoso, è compito azzardoso e dall'esito incerto. Vero è che Eastwood si tiene, saggiamente, lontano da ogni tentazione eroicizzante: il rosario delle uccisioni è sgranato senza musiche, dentro ad un silenzio che agghiaccia, con lo schiocco del colpo che arriva dopo il proiettile, dato che esso viaggia al doppio della velocità del suono. Non v'è cameratismo allegro, tra questi assassini di guerra assoldati con mercede: ma a dire dell'odiosità di un conflitto priva di necessità che non fossero bassamente mercantili, basti citar l'episodio di un commilitone del nostro che vuole portare a casa un bel brillante per la propria fidanzata, comprato a poco prezzo da infelici iracheni costretti alla fuga. Altro che libertà, democrazia o Costituzione! Il conservatore Eastwood non ci fa assistere a prese di coscienza mirabolanti (che, d'altro canto, nella realtà non vi furono),  però dissemina il racconto di piccole, allarmanti tracce: il fratello del cecchino, divenuto Marine, che grida "voglio lasciare questo posto di merda"; Chris supplice a sperare che un bimbo non raccolga un'arma pesante da terra, per non doverlo poi freddare; e l'uccisione del suo doppel di parte contraria, "Il macellaio", freddato a due chilometri di distanza, con il viso che scoppia in mezzo ai panni stesi su un muretto, un attimo prima del lontanissimo "punf".

In sottofinale il nostro, di nuovo alle prese con la vita civile, si trova da uno psichiatra che gli domanda se per caso egli non provi rimorsi nell'aver cagionato tanti lutti, nell'aver stroncato un così alto numero d'esistenze. Egli risponde che no, ha fatto il suo dovere ed è pronto a presentarsi davanti al Creatore con la certezza di potere giustificare ogni singola morte: c'è, però, come un'incertezza, un lieve sperdimento, mentre egli pronuncia queste parole (ed è eccezionalmente bravo Bradley Cooper, a coronamento d'una superlativa prova d'attore, a saperlo rendere). Chris Kyle, il killer infallibile, soccomberà a una peculiare forma di fuoco amico: un ex-marine, tormentato da turbe psichiche e che egli stava cercando di aiutare, lo sopprime mentre stanno facendo il tiro al bersaglio. Sopravvissuto ai sunniti ed agli sciiti, fatto fuori dal giovane della porta accanto: uno scherzo crudele del destino, o la conferma che l'America - suprema giustiziera arrogantemente autonominatasi - è, forse, la nazione più di ogni altra necessitante di cure.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

AMERICAN SNIPER. REGIA: CLINT EASTWOOD, INTERPRETI: BRADLEY COOPER, SIENNA MILLER. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 134 MINUTI.

giovedì 11 dicembre 2014

The Imitation Game

1939, Inghilterra. Le sorti della guerra sono negative per la Gran Bretagna: i tedeschi stanno avendo la meglio su tutti i fronti e, nel governo, c'è preoccupazione. L'autentico asso nella manica del nemico è il cosiddetto "Codice Enigma", un linguaggio cifrato che viene considerato pressoché inviolabile. E' per questa missione impossibile che viene radunato un gruppo di specialisti, formato dal campione degli scacchi Hugh Alexander; dal matematico scozzese John Cairncross; da Peter Hilton, precoce laureato di Oxford; da Furman e Richards, linguisti. A costoro si aggiunge una ragazza, Joan Clarke (una Keira Knightley sempre più brava), laureata in matematica a Cambridge; e, per ordine di Winston Churchill, a capo del progetto si colloca il geniale matematico Alan Turing. Il manipolo di studiosi opera a Bletchley Park, nel Buckinghamshire: infiniti sono i tentativi di sciogliere il rompicapo, ma il leader nutre speciale fiducia in una propria macchina di decrittazione elettro-meccanica, da lui denominata Christopher... 

Basato su un libro di Andrew Hodges, "The Imitation Game" è, in primo luogo, il racconto veritiero della vita di Alan Turing: nato nel 1912, venne snobbato ed ostracizzato - nonostante i contributi che diede allo studio della logica e della matematica - per la sua omosessualità (che, non dimentichiamolo, era annoverata fra i reati penali, nel suo paese, fino al 1967). L'incipit del film ci mostra appunto le forze dell'ordine che - penetrate nell'abitazione del nostro per indagare su una segnalazione di furto con scasso - finirono invece per arrestare lo stesso con l'accusa di "atti osceni", incriminazione che lo avrebbe portato a una devastante condanna, appunto, per pederastia. Morì suicida il 7 giugno 1954, dopo aver subito la feroce umiliazione della castrazione chimica, ingerendo una mela avvelenata con del cianuro di potassio.

La narrazione procede per salti temporali, avanti ed indietro, mostrandoci il periodo dell'adolescenza del protagonista, vittima del bullismo dei compagni e amico del solo Christopher, pure egli interessato ai temi prediletti dal sodale ed a lui legato da una tenero rapporto. La sceneggiatura di Graham Moore, abilmente congegnata, costruisce la ricerca della chiave per disserrar l'uscio di Enigma in guisa di un thriller psicologico; particolare cura è riservata al tratteggio delle psicologie dei personaggi, anche di quelli secondari, e alla resa del clima di quegli anni, dominato dalla logica del sospetto (difatti v'è, nel gruppo di ricercatori, chi lavora per i russi). "E' una storia che insegna il valore della comunicazione - ha dichiarato Benedict Cumberbatch, inarrivabile nei panni del protagonista - e quanto sia importante, attraverso il dialogo, celebrare le differenze, ricercando quello che ci unisce anziché lasciarci dividere dalla paura delle diversità". Diretto dal norvegese Morten Tydlum - reduce dai trionfi di "Headhunters", purtroppo inedito da noi in sala, adrenalinica trasposizione in celluloide del poliziesco di Jo Nesbo "Il cacciatore di teste" - con un gran senso del ritmo e una rara attenzione alle sfumature emotive, "The Imitation Game" è uno tra i film - assieme a "Big Eyes" di Tim Burton e ad "American Sniper" di Clint Eastwood - capaci di far sì che il 2015 cinematografico si apra, davvero, sotto i migliori auspici.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

THE IMITATION GAME. REGIA: MORTEN TYDLUM. INTERPRETI: BENEDICT CUMBERBATCH, KEIRA KNIGHTLEY, CHARLES DANCE. DISTRIBZIONE: VIDEA. DURATA: 120 MINUTI.

mercoledì 10 dicembre 2014

St.Vincent

Dopo la separazione dei genitori, il dodicenne Oliver si è trasferito in una nuova casa assieme a sua madre, un'infermiera oberata di lavoro e in attesa del divorzio. Nell'abitazione accanto vive Vincent de Van Nuys, pensionato alcolista e misantropo, scommettitore accanito di corse di cavalli e fidanzato con una spogliarellista russa incinta. Tra il piccolo ed il suo - all'apparenza - scorbutico vicino di casa, si stabilisce un bizzarro sodalizio: la madre del ragazzino lo assume per fare il baby-sitter ad ore, ed è così che Oliver scopre come il suo nuovo amico sia, in realtà, un veterano di guerra; un reduce dal Vietnam, che nasconde un triste passato e ha dedicato svariati anni ad assistere la moglie, ricoverata in un istituto a causa della gravità della sua malattia...

Serata d'onore per uno dei più grandi attori viventi, "St.Vincent" offre a Bill Murray il destro per una ulteriore variazione della sua nota maschera estroversa. Bel modo di coronare una carriera iniziata con la notorietà portatagli dalla partecipazione al televisivo "Saturday Night Live" ed esplosa con la presenza nel trio dei "Ghostbusters" (1984), pellicola campione d'incassi firmata da Ivan Reitman, che consacra la straordinaria vis comica del nostro. Da qui, prende però il via un tragitto in cui egli ha, più di una volta, rifiutato le strade più facili, per azzardare scelte impegnative: sono indimenticabili le sue prove in "Ricomincio da capo" (1993), metafisico gioco narrativo concepito da Harold Ramis; "Lost in Translation" (2004) di Sofia Coppola, in cui è un attore in decadenza che vive in un albergo di Tokyo; "Broken Flowers" (2006), diretto da Jim Jarmusch, dove si cala nei panni di un maturo e stralunato dongiovanni che si mette in cerca, tra le donne del suo passato, della madre d'un figlio che neppure immaginava di avere.

In "St.Vincent" (coadiuvato da un'ottima Melissa McCarthy, la madre di Oliver, e da Naomi Watts, convincente nel ruolo della spogliarellista russa), Murray padroneggia la vicenda con rara maestria: se è vero che la storia del cinema, da "Il monello" a "Nuovo Cinema Paradiso", da "Up!" a "Il sesto senso" è piena di opere che s'incentrano sulla speciale funzione cognitiva ed autocognitiva che il rapporto fra il grande ed il piccino figlia, è fuori di discussione che qui (grazie pure alla felice alchimia fra i due attori: l'undicenne Lieberher è irresistibile),  tra la "rieducazione" di Oliver a furia di pomeriggi all'ippodromo e frequentazioni di "signore della notte", il ritmo è travolgente, al di là di alcune situazioni più prevedibili e sfruttate (la lotta con i bulli della scuola, il ballo al ritmo del juke-box). La vena di malinconia, lo spleen sotterraneo che permea tutta la vicenda si scioglie nella commozione di un finale che non riveleremo: ma alla furbizia dell'esazione della lacrima si rinuncia, in fin dei conti per uno come St.Vincent finanche la santità è di tipo peculiare.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ST.VINCENT. REGIA: THEODORE MELFI. INTERPRETI: BILL MURRAY, JAEDEN LIEBERHER, MELISSA McCARTHY, NAOMI WATTS. DISTRIBUZIONE: EAGLE. DURATA: 102 MINUTI.



Jimmy's Hall

Nel 1921, in un'Irlanda dilaniata da una sorta di guerra civile, Jimmy Gralton aveva creato nel suo paesino un locale in cui era possibile danzare, tirare di boxe, apprendere il disegno, partecipare ad altre attività culturali. Accusato di comunismo, era stato obbligato ad abbandonare il proprio paese per recarsi negli Stati Uniti. Due lustri più tardi, Jimmy decide di tornare, e sono i giovani a convincerlo a riaprire il locale. Gralton è inizialmente incerto sul da farsi; però, dopo poco, cede alle richieste. Coloro che in passato gli si erano contrapposti, tornano puntuali a contrastarlo. 

"Fare cinema implica una fatica fisica e non so se io ho ancora tutta l'energia necessaria. Prima di decidermi a girare questo film, pensavo che il mio precedente sarebbe stato l'ultimo. Per cui... Chissà!". Speriamo proprio che Loach receda dal proposito di ritirarsi dall'attività registica, dopo questa ultima fatica: il 78enne autore inglese appare in magnifica forma e - pensando ai ritmi di lavoro d'altri suoi coetanei, da Allen a Eastwood - c'è da augurarsi che la vitalità non lo abbandoni sin da ora. Certo che il percorso da lui compiuto è impressionante: dall'esordio nel lungometraggio con "Poor Cow" (1967), che ancora oggi colpisce per vigore ideologico e suggestione visiva, il suo cinema già nel '71 toccava un vertice con "Family Life" (1971), storia d'una ragazza dei sobborghi popolari affetta da schizofrenia,  narrata ispirandosi alle teorie di Ronald Laing. Dopo essersi dedicato per un lungo periodo alla forma del documentario, scontrandosi puntualmente con la censura del governo Thatcher, il nostro fa ritorno negli anni '90 al cinema di fiction, con una serie di splendide opere sempre legate alla realtà della sua patria: si va da "Riff Raff" (1991) a "Piovono pietre" (1993), da "Ladybird Ladybird" (1994) a "Terra e libertà" (1995), da "My name is Joe" (1998) a "Il vento che accarezza l'erba" (2006, Palma d'oro a Cannes), per citare solo i titoli più significativi.


In questo "Jimmy's Hall", torna a quell'Irlanda che aveva già messo al centro del suo interesse ne "Il vento che accarezza l'erba" e lo fa in modo del tutto peculiare. Perché i protagonisti di questa vicenda sono persone che difendono quello che si sarebbe potuto all'epoca definire un dancing. Scritto dal fidato cosceneggiatore abituale Paul Laverty, ispirato ad una pièce teatrale di Donal O'Kelly, il film racconta con sostanziale fedeltà la parabola del rivoluzionario James "Jimmy" Gralton: ma, sotto una scorza più "leggera" del consueto, è una specie di catalogo di temi e convincimenti del cineasta del Warwickshire. C'è un popolo, con la sua cultura e i suoi bisogni, in primis quel senso della socialità che altri vorrebbero irreggimentare (i fascisti, il potere, la Chiesa: i nemici di sempre): la motivazione di tale avversità risiede nel convincimento che la libera circolazione delle idee sia un pericolo, e vada perciò sempre ostacolata per conservare un comodo - per le classi dominanti, naturalmente - status quo. La maestria di Loach consiste nel non fare una pellicola ideologica o a tesi: pure la figura del protagonista è presentata con le sue fragilità e debolezze, laddove quella del sacerdote suo fiero oppositore mostra di comprendere perfettamente il valore etico del suo avversario, che arriva in privato a paragonare ai protomartiri cristiani. Lo scioglimento prevede la sconfitta di Jimmy, ma il finale è in qualche modo lieto: i giovani del luogo, al momento dell'espulsione, gli si fanno intorno, lo circondano d'affetto. Il seme del pensiero, se non della rivolta, è stato gettato: le rivoluzioni sono imperfette, è per questo che bisogna continuare a farle.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

JIMMY'S HALL. REGIA: KEN LOACH. INTERPRETI: BARRY WARD, SIMONE KIRBY, JIM NORTON, AISLING FRANCIOSI. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 109 MINUTI.

lunedì 8 dicembre 2014

Pride

Siamo nell'Inghilterra thatcheriana, nel periodo in cui - tra il 1984 e l'85 - la lady di ferro sta cercando di piegare la resistenza dei minatori, impegnati in un lungo, drammatico sciopero a difesa dei loro posti di lavoro. Alcuni attivisti del movimento omosessuale, mossi dalla solidarietà verso quanti - proprio come loro - sono in lotta contro un sistema che emargina gli ultimi, scelgono di dare il via ad una raccolta di fondi per sostenerli. In particolare, tra gli undici gruppi LGSM (Lesbians and Gay Support the Miners) si rivela attivo quello operante a Londra e sorto intorno alla libreria Gay's the World in Marchmont Street: capitanato dal carismatico Mark Ashton (morto di Aids nel 1987, è ricordato nella storia gay come un santo ed un eroe), esso decise di aiutare i minatori della valle di Dulais, nel sud del Galles...

Nato dall'incontro fra l'entusiasmo dell'autore teatrale e sceneggiatore Stephen Beresford e del regista d'opera e teatro Matthew Warchus (neodirettore del prestigioso Old Vic Theatre di Londra), "Pride" è stato presentato all'ultima edizione del Festival di Cannes, ricevendo il plauso della critica e l'applauso del pubblico. Basato su di una storia vera, il film mescola con sapienza gli accadimenti reali, una certa dose di finzione e tutti quegli elementi di piacevolezza che fanno di un film del genere un sicuro cult. Delle durezze dell'epoca, ben poco è mostrato: le cariche di centinaia di poliziotti, anche a cavallo, e le feroci bastonature di manifestanti sono confinati ad un documento artigianale d'epoca, che funziona da incipit per la pellicola. Per il resto, salvo qualche parola di sdegno dei passanti durante il Gay Pride, la bontà prevale: e ciò aiuta il film ad assumer quel tono favolistico che tanto successo gli sta fruttando nei paesi anglosassoni.

Sia ben chiaro, la nostra non vuol essere una critica: opere del genere arrivano con più facilità a platee ampie, ed in fin dei conti il loro scopo vuole essere, pure, di suscitare il più vasto riverbero di simpatia possibile nei confronti di tematiche o vicende come queste. A render la pietanza prelibata, d'altra parte, vi è una compagine di attori straordinaria: i due mondi e le due generazioni trovano, rispettivamente, in Ben Schnetzer (il già citato leader dei gay) e Dominic West (il ballerino Jonathan Blake, al centro d'una travolgente sequenza di danza sulle note di "Shame Shame Shame") da una parte, Imelda Staunton (la irresistibile Hefina, colei che dà lo slancio a superare i pregiudizi nei confronti degli omosessuali diffusi anche tra i minatori e le loro famiglie) e Bill Nighy (un elegante, vecchio minatore, segretamente gay da una vita) delle perfette incarnazioni. Contrapponendo il bene di tutti all'interesse del singolo, la società all'individuo, il capitalismo al socialismo, "Pride" è una scanzonata commedia marxista che - qualcosa prendendo in ispirazione da "Full Monty"(1997) o da "Billy Elliott" (2000) - parla al cuore e al cervello come poche altre: un bel modo di passar due ore, investendo in un divertimento gradevole e intelligente.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

PRIDE. REGIA: MATTHEW WARCHUS. INTERPRETI: IMELDA STAUNTON, BILL NIGHY, DOMINIC WEST, PADDY CONSIDINE, ANDREW SCOTT, BEN SCHNETZER. DURATA: 120 MINUTI. DISTRIBUZIONE: TEODORA FILM.

domenica 7 dicembre 2014

Storie pazzesche

Un uomo si vendica di quanti nella vita gli hanno fatto del male, riunendoli in un aereo; un gangster capita casualmente nella tavola calda dove è impiegata la figlia di una delle sue vittime; una lite fra automobilisti assume l'aspetto di un massacro iperbolico; un ingegnere, specializzato in demolizioni, perde la testa per via di varie multe; un miliardario conduce trattative clandestine al fine d'evitare una tragedia familiare; una sposa tradita alla cerimonia di nozze dà il via ad una escalation di efferatezze.


Presentata all'ultima edizione del festival di Cannes, dove è divenuta un instant cult, "Storie pazzesche" è una pellicola geniale e truculenta, bizzarra e sfrontata, che l'argentino Damian Szifron ha diretto con talento pari alla scaltrezza. La scaturigine pare essere la commedia all'italiana, ma ugualmente serie tv sul genere di "Storie incredibili" (prodotta da Spielberg), pellicole a episodi come "New York Stories", un libro di novelle quale "Nove Storie" di J.D.Salinger, o quelle antologie dai titoli così simili fra loro, da "I racconti dei maestri del crimine" a "I racconti dei maestri del terrore". In più, c'è una wilderness forte e la vendetta è l'elemento cardine, più nel senso tarantiniano del termine che in quello chanwookiano: il tutto, per soprammercato, è saldamente agganciato alla realtà del paese che vi viene rappresentato.

"Spesso penso alla società capitalistica occidentale come a una specie di gabbia trasparente che ci rende insensibili e distorce i nostri rapporti con gli altri. Questo film racconta le storie di alcuni individui che vivono dentro questa gabbia senza esserne consapevoli. E quando arrivano al punto di rottura, anziché reprimersi - o deprimersi - come facciamo quasi tutti, partono in quarta senza più fermarsi". La bravura di Szifron consiste nel dissimulare fra le pieghe della narrazione codesto sottotesto ideologico, lasciando che le sue "storie" si snodino scattanti fra impulsi ribellistici, furiose rese dei conti, reazioni survoltate ed implosioni esplosive (l'episodio con lo strepitoso Ricardo Darin). Un montaggio serrato, infine, dà al tutto una compattezza ed un nitore travolgenti: giusto a mezza via fra cinema d'autore e commerciale, pulp e pop, farsa e kitsch, l'operina felicemente si situa, corroborata da una formidabile colonna sonora di Gustavo Santaolalla.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

STORIE PAZZESCHE. REGIA: DAMIAN SZIFRON. INTERPRETI: RICARDO DARIN, LEONARDO SBARAGLIA, DARIO GRANDINETTI, ERICA RIVAS. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 115 MINUTI.



mercoledì 3 dicembre 2014

Magic in the Moonlight

Berlino, 1928.  Il famoso prestigiatore cinese Wei Ling Soo, in grado di fare sparire un elefante o di teletrasportarsi entusiasmando la platea, è nella vita reale Stanley Crawford, un gentiluomo inglese sentenzioso cui è affidato da un vecchio amico un curioso incarico: indagare su una sedicente medium (impegnata a circuire una ricchissima famiglia americana in vacanza sulla riviera francese), per stabilire se ella possieda autentiche doti divinatorie o, come qualcuno vorrebbe dimostrare ad ogni costo, sia solo una fascinosa ciarlatana . Fattosi passare per un uomo d'affari, Stanley incontra la giovane Sophie Baker e se ne innamora subito: ma per un uomo razionale e alquanto sprezzante come lui è difficile accettare il sentimento, peraltro ricambiato. Un temporale ed il ricovero della zia adorata faranno, infine, crollare le sue resistenze: forse il soprannaturale non esiste, però l'amore, innegabilmente, sì. 

Per la seconda volta in Francia dopo "Midnight in Paris", Allen torna con questo suo 44esimo film ad un tema che l'ha da sempre affascinato: la magia ed i suoi corollari, coma la divinazione, l'illusionismo e l'ipnosi (titoli? Si va da "Stardust Memories" ad "Alice", da "Ombre e nebbia" a "La maledizione dello scorpione di giada", da "Scoop" a "Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni"). La confezione di lusso - la luce della Riviera Francese anni Venti pare quella dei quadri impressionisti, i costumi ce li saremmo immaginati indosso ai protagonisti di "Tenera è la notte" di Scott Fitzgerald - non inganni: dietro lo scintillio generale, tra le eleganti decappottabili ed i cappellini a cloche, si consumano gli scampoli della Jazz Age mentre la Germania sta incubando il nazismo (non a caso, la pellicola si apre proprio a Berlino, tra un pubblico che non potrà ignorare a lungo gli effetti della Repubblica di Weimar). Insomma, le promenade lungo la Costa Azzurra, il gusto della comédie au champagne hanno un retrogusto malinconico, ben incarnato dal blend agrodolce della storia

Il cinema di Allen, come giunge sempre all'alternativa tra "orribile o miserrimo" di "Io e Annie", sovente s'arrovella pure attorno allo iato tra la realtà e la sua illusione. Una risposta precisa non v'è, e non la troverà neppure Stanley Crawford, perché per il cineasta-demiurgo l'importante è continuare a far domande. Tra un riferimento cinematografico e l'altro (si va da "My Fair Lady" di George Cukor a "Un amore splendido" di Leo McCarey), Allen continua a diteggiare su una tastiera ormai ben conosciuta dai suoi estimatori, che tuttavia non si stancano di ascoltarne le infinite variazioni. Qui, gli esecutori sono tra i più ispirati: Colin Firth gioca con raffinatezza tra cinismo e arroganza, per mascherare le intermittenze del cuore; Emma Stone è in perfetta sincronia con il tempo comico del regista. Insomma, per dirla col Maestro, se "l'eternità è troppo lunga, specialmente verso la fine", non resta che gettare la maschera cartesiana ed abbandonarsi all'illusione. Ricordando che - e lo sapevamo già dagli oramai remoti tempi di "Manhattan" - fra le cose per le quali vale la pena di vivere, di sicuro ci sono gli occhi di un'incantevole ragazza.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

MAGIC IN THE MOONLIGHT. REGIA: WOODY ALLEN. INTERPRETI: COLIN FIRTH, EMMA STONE, MARCIA GAY HARDEN. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 98 MINUTI.

martedì 25 novembre 2014

Viviane

Son due lustri che Viviane Amsalem sta tentando di ottenere il divorzio da suo marito Elisha. Da diversi  mesi la donna ha lasciato il tetto coniugale ed è andata vivere da un fratello sposato; non chiede danaro (è economicamente indipendente, dato che è parrucchiera), desidera solo separare il proprio destino da quello del consorte. Ma siamo in Israele, dove soltanto una specifica autorità (il tribunale rabbinico) può concederle quanto vuole, e ad una particolare condizione: il consenso del coniuge, che in codesto caso,  purtroppo, manca. La battaglia fra i due sposi e i difensori (per lui il fratello Shimon, per lei il fascinoso avvocato Carmel) si svolge in una piccola stanza bianca, con due tavolini e quattro sedie, sulla destra il cancelliere col computer, di faccia il tavolo coi tre giudici rabbini: è in detto claustrofobico palcoscenico che, anno dopo anno, si snoda il calvario della disperazione di Viviane, con un marito tetragono a ogni apertura, finanche dopo una settimana di carcere subita per non essersi più volte presentato alle sedute...

Si prova una singolare sensazione, a recensire un'opera come "Viviane" giusto nella giornata dedicata a stigmatizzare la violenza sulle donne. Forse perché si tende ad identificare quest'ultima con le percosse, lo stalking, le minacce. Forse perché non si associa uno stato democratico (presunto, verrebbe da dire) a cotali situazioni. Fatto sta che, in maniera diversa ma non meno valida dal bellissimo "Una separazione" (2011), questo film - opera terza dell'attrice Ronit Elkabetz, inoltre pannello finale d'un trittico iniziato da "Take a Wife"(2004) e proseguito con "Shiva" (2008) - descrive una situazione ed una mentalità, partendo dall'analisi di un caso singolo, con straordinaria pregnanza. "Il tempo perduto in questi procedimenti ha valore solo per la donna che supplica - ha dichiarato la Elkabetz - di tornare a vivere. Fino a quando non ottiene il divorzio non potrà mai ricostruirsi una famiglia e i figli fuori dal matrimonio non avranno riconoscimenti giuridici. Una donna in attesa di divorzio è condannata a una sorta di prigione".

Il miracolo compiuto dall'attrice-cineasta è quello di trasformare una pellicola in cui sembra non accada alcunché in qualcosa di vivo e avvincente. Merito d'una sceneggiatura densa e palpitante (scritta ancora da lei, assieme al fratello Shlomi, pure co-regista); di un cast strepitoso, capitanato tanto per cambiare dalla nostra; ma, su tutto, dell'intensità di alcune scene, girate con mano maestra, e della bellezza nobile ma non altezzosa, austera ma non rifuggente la femminilità - indimenticabile la sua apparizione con una fiammeggiante camicia rossa, le belle gambe nude, i capelli sciolti e accarezzati: una cosa, quest'ultima, equiparabile per una donna, ad un'impudica provocazione - della protagonista. Quando, infine, il marito s'acconcia ad acconsentire al divorzio facendole cadere nelle mani il "Gett", il foglio col suo consenso, pronunciando la frase "da ora sei permessa a qualunque uomo", tutto si riavvolge come in un incubo e la situazione ritorna al punto di partenza. E' allora che Elisha perde la calma, urlando contro i rabbini "Siete senza misericordia, ma vi toglieranno il potere, tribunale di merda". Interdetta all'ingresso in un tribunale per sei mesi, l'intrepida non si arrende: solo attraverso un'ennesima umiliazione, giungerà a un risultato che sa di sconfitta malgrado l'apparenza. Sì, è assai lungo il cammino che le donne dovranno ancora percorrere per ottenere dignità senza pagar lo scotto di amare, inique lacrime.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

VIVIANE. REGIA: RONIT E SHLOMI ELKABETZ. INTERPRETI: RONIT ELKABETZ, MENASHE NOY, SIMON ABKARIAN. DISTRIBUZIONE: PARTHENOS. DURATA: 115 MINUTI.

domenica 23 novembre 2014

Trash


Rafael e Gardo, due quattordicenni che sbarcano il lunario smistando rifiuti nelle favelas di Rio, trovano un giorno nella discarica un portafoglio che contiene dei soldi, una foto con alcuni numeri sul retro, un calendario con l'immagine di San Francesco ed una chiave. Subito dopo la polizia locale, per la quale i ragazzini non nutrono fiducia o simpatia, piomba sulle favelas in cerca dell'oggetto smarrito: quando è offerta una somma di danaro per il ritrovamento, i due capiscono di essere finiti in un gioco più grande di loro; ma non per questo scelgono di demordere. Coinvolto un altro loro compagno, Rato, i nostri eroi - dribblando gli sbirri corrotti e violenti, capitanati dal pericoloso Federico - risalgono al proprietario del portafoglio, Angelo; ma i guai non cessano, e le sole persone su cui il trio può fare affidamento sono il disilluso padre Julliard e la sua assistente Olivia...

Adattamento per il grande schermo del romanzo omonimo scritto da Andy Mulligan, sceneggiato da Richard Curtis ("Quattro matrimoni e un funerale", "Love Actually") e diretto da Stephen Daldry ("Billy Elliott", "The Hours"), "Trash"- presentato con successo all'ultima edizione del Festival di Roma -  è un lavoro di puro entertainment, dalla confezione formale impeccabile. La presenza quale produttore di Fernando Mereilles e del compositore Antonio Pinto aggiungono garanzie all'etnicità dell' insieme. La pellicola, inscenando lo scontro fra poliziotti venduti e giovani ladruncoli, non si allontana dalla realtà, pur presentandola attraverso lo sguardo del benessere di marca angloamericana. A mezza via tra le atmosfere realistiche di "City of God"ed il favolistico "The Millionaire", col passar dei minuti "Trash" s'adagia supinamente sul secondo modello, correndo il rischio di venir accusato di colonialismo culturale, ché il Brasile delle favelas è qui trattato in maniera assai simile all'India degli slum messa in scena da Danny Boyle.

Ciò precisato, dal punto di vista meramente cinematografico, "Trash" è un'operina assai godibile, a principiar dai tre giovanissimi protagonisti presi dalla strada: i riferimenti letterari vanno da Oliver Twist a Huck Finn, sicché le avventure picaresche, dal sapore antico, non mancano di coinvolgerci e farci trepidare per le sorti dell'improbabile terzetto. La cinepresa di Daldry compie miracoli nell'intercettarli in velocità, catturandone magistralmente gli occhi sgranati ed i sorrisi strafottenti. Il montaggio si adegua con abilità al disegno registico, che predilige - come d'uso, nel nostro - la decostruzione temporale, per mezzo d'un sapiente uso di flashback e flash forward atto ad imprimere alla vicenda un ritmo incalzante. Insomma, "Trash", s'è detto, è una vera gioia per gli occhi, a condizione di superare il disagio d'adoprar come fonte di svago la miseria delle bidonville del Terzo Mondo e l'esistenza dei "bambini spazzatura" che, nella vita vera, al posto delle peripezie mirabolanti qui inscenate corrono ogni giorno il rischio di beccarsi una pallottola vagante. Che il tutto vada visto alla stregua di una fiaba, oppure di una parabola sul potere salvifico della fede, è palese; sarebbe tuttavia meglio, più adeguato e politicamente corretto - espressione odiosa, che qui per una volta trova un suo senso - affidare operazioni di tal fatta ad una narrazione autoctona, per smarcarsi dal sospetto di una poco simpatica scaltrezza commerciale.

                                                                                                                                    Francesco Troiano

TRASH. REGIA: STEPHEN DALDRY. INTERPRETI: MARTIN SHEEN, ROONEY MARA, WAGNER MOURA, RICKSON TEVEZ, EDUARDO LUIS, GABRIEL WEINSTEIN. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 114 MINUTI

martedì 18 novembre 2014

My Old Lady

Il newyorkese Mathias si reca a Parigi per liquidare un lussuoso appartamento, sito nel quartiere del Marais, che il padre gli ha lasciato in eredità: deve farlo in fretta perché non ha un soldo e, coi denari della vendita, spera di potersi rifare una vita. Giunto nella capitale francese, l'attende però una poco gradita sorpresa: la casa è occupata da una novantenne, Mathilde, assieme alla figlia Chloé, e Mathias non potrà disporne sino alla scomparsa dell'anziana signora. A completare il quadro, egli è obbligato a corrisponderle un assegno mensile di 2.400 euro, come prima di lui aveva fatto suo padre per 40 anni. Obbligato ad ingegnarsi per dipanare la matassa, si rivolge ad un immobiliarista interessato; ma il fatto che Mathilde conosca fatti troppo intimi del defunto, gli apre nuovi squarci sull'esistenza e sul passato del medesimo, fino a rimettere in discussione le sue stesse certezze... 

Per il suo esordio nella regia cinematografica, Israel Horovitz (a suo tempo, sceneggiatore di "Fragole e sangue") ha scelto di tradurre in celluloide una delle pièce per le quali egli è considerato, da gran tempo, drammaturgo tra i più apprezzati. Si inizia con un cozzo di mentalità, che vede da una parte l'usanza tutta francese del viager (il vitalizio ipotecario dell'immobile, variante della nuda proprietà) e dall'altra lo sprovveduto anglosassone, che ritiene un simile accordo incomprensibile ed inaccettabile, salvo tentare poi di volgerlo a proprio vantaggio. Lo scontro tra i due sembrerebbe inevitabile, ma c'è il personaggio di Chloé - magnificamente interpretato da Kristin Scott Thomas - che, dotato di spessore maggiore rispetto al testo d'origine, diviene, non casualmente, il link tra Mathilde e Mathias ed il punto d'equilibrio della sceneggiatura.
 
Si potrebbe ipotizzare che ciò faccia della pellicola una sorta di "Green Card" rovesciata, ma non è così: se il racconto parte sui toni della commedia brillante, ben presto assume, di contro, i tratti del dramma di psicologie. Non si finiscono, però, per battere i prevedibili sentieri del mélo; in luogo, si assiste ad una serie di confronti dove i personaggi hanno modo di mettersi a nudo, senza tuttavia indulgere a una eccessiva crudeltà. Gestito con pietas e tenerezza, l'intreccio di ricordi e risentimenti
si scioglie alla fine in una tarda primavera amorosa tra il protagonista e Chloé, che prelude ad uno scioglimento quasi nel segno della serenità. Seppur intravista per rapidi scorci, la Parigi di "My Old Lady" deve qualcosa a quella di Woody Allen e, andando ancor più indietro nel tempo, a quella di "French Kiss". Anche lì al centro della vicenda c'era Kevin Kline: qui fa un numero di sicura classe, all'altezza di quello di Maggie Smith, superba in una perfezione interpretativa che divide con poche altre "old ladies" dello schermo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

MY OLD LADY. REGIA: ISRAEL HOROVITZ. INTERPRETI: KEVIN KLINE, MAGGIE SMITH, KRISTIN SCOTT THOMAS, DOMINIQUE PINON. DISTRIBUZIONE: EAGLE. DURATA: 107 MINUTI.:

lunedì 17 novembre 2014

Scusate se esisto!

Serena Bruno è un architetto di talento fuori dal comune. Forte d'anni di carriera e successo fuori dai confini patri, un bel giorno decide di tornare a casa, nella speranza di trovare il modo di far rilucere le proprie qualità anche in Italia. Le cose, però, non si rivelano facili: cameriera per sbarcare il lunario, ha un progetto qualificato per ammodernare un quartiere periferico romano, il Corviale; però, per vederlo accettato, è costretta a farsi passare per un uomo. Nel frattempo, ha incontrato Francesco, padrone del ristorante ove ella lavora. Bello, sensibile, dotato di fascino, pare proprio il compagno ideale: purtroppo,  a lui non piacciono le donne. I due stringono comunque un rapporto di tenerezza ed affetto, ed è giusto a lui che Serena chiede di spacciarsi per se stessa declinata al maschile...

Dopo "Il posto dell'anima" (2003), "Piano, solo" (2007) e il fortunato "Benvenuto, presidente!" (2013),   Riccardo Milani torna a dirigere sua moglie Paola Cortellesi in una commedia che la vede, oltre che nel ruolo di protagonista, pure al debutto come sceneggiatrice. "Il film - ha dichiarato il regista - racconta in chiave ironica una stortura del nostro tempo, ossia dover sempre fingere di essere qualcun altro oppure nascondere qualcosa di se stessi, per poter raggiungere i propri obiettivi". Con uno sguardo a "Tootsie" e un altro al recente "Albert Nobbs", Milani conferma di ben conoscere i ritmi della commedia un poco svalvolata, di possedere la gentilezza del tocco, di saper evitare le volgarità infinite volte presenti nelle produzioni indigene similari.

Tutto bene in "Scusate se esisto!", quindi? Beh, lo spunto - come capitava nella precedente e già citata fatica di Milani, "Benvenuto, presidente!"- ci pare troppo esile per reggere la durata (oltre a tutto, di ben 106 minuti, nella fattispecie) di un lungometraggio. Certi sviluppi narrativi sono poco credibili: come si può sostenere, per un tempo così lungo, il cambio di segno sessuale senza ingenerare sospetti? Infine, dispiace verificare che talune abitudini sono dure a morire: lungi dall'essere sostenitori del politically correct ad oltranza, è proprio necessario che se c'è un personaggio omosessuale, egli sia affamato di incontri con individui caricaturati proprio nel senso delle checche che tanto fanno ridere i reazionari, rassicurandoli nei propri pregiudizi? Ciò detto, la pellicola scorre godibile ed abbastanza divertente, scansando la facile via della parolaccia e le scivolate nella beceraggine: Paola Cortellesi si conferma la migliore comedian della propria generazione e Bova, se tenuto a freno, sa svolgere il proprio compito; perfetti, infine, tutti i comprimari. Qualche cedimento in meno a certe logiche commerciali, e il gap che separa i prodotti nostrani dai migliori d'oltralpe sarà agilmente colmato.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SCUSATE SE ESISTO! REGIA: RICCARDO MILANI. INTERPRETI: PAOLA CORTELLESI, RAOUL BOVA, CORRADO FORTUNA, LUNETTA SAVINO, MARCO BOCCI, ENNIO FANTASTICHINI. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 106 MINUTI.

mercoledì 12 novembre 2014

Due giorni, una notte

Reduce da un periodo di severa depressione, che ne ha comportato il momentaneo allontanamento dal posto, al ritorno Sandra scopre sulla propria pelle come per il lavoratore "sospeso" il rientro in azienda non sia tra le cose più facili del mondo. Nella fattispecie, il titolare ritiene che la sua presenza non sia più indispensabile (sotto traccia, scorre la convinzione discriminatoria che la persona già "depressa" non sia in grado di assolvere come prima ai propri compiti): ella potrà evitare il licenziamento, tuttavia, qualora riesca a convincere i colleghi a rinunciare al bonus loro promesso; se rimarrà, essi perderanno il diritto all'emolumento aggiuntivo. Tentata dal ricadere nella morsa depressiva, Sandra trova prezioso sostegno in suo marito Manu, che la ama e combatte affinché non si arrenda: è sua l'idea di andare a trovare uno ad uno coloro che hanno votato per allontanarla, e tentare di far loro cambiare idea, esponendo le proprie motivazioni...

Le tematiche di "Due giorni, una notte" sono centrali nel cinema dei fratelli Dardenne: già per l'esordio nel lungometraggio, "La promesse" (1996), l'argomento era il lavoro clandestino; la fatica successiva,  l'indimenticabile"Rosetta" (1999), era il ritratto d'una ragazza in lotta per mantenere la madre alcolizzata e pagare l'affitto della roulotte ove vive. In realtà, ai due registi belgi interessano le contraddizioni di un capitalismo rapace e fuori controllo, che azzanna le esistenze degli individui incurante di qualunque conseguenza. Ciò che risulta di particolare interesse in questa loro ultima opera è l'aver puntato il faro sulla guerra fra poveri che corre sotterranea in tutta la vicenda: Sandra ha le migliori ragioni del mondo per difendere la propria posizione, ma pure per taluni colleghi i 1.000 euro sono manna per risolvere, o tamponare, situazioni finanziarie difficili se non disastrate.

Ecco, la grandezza dei Dardenne sta nell'evitare, appunto, ogni manicheismo. La rappresentazione che viene data del conflitto è assai sfumata, ci si sforza di comprendere il punto di vista di tutti, avendo presente che il vero problema risiede altrove: nell'assenza di una reazione collettiva, d'una forma di lotta che abbia le proprie radici nell'ormai smarrito concetto di solidarietà. Non a caso, l'azienda scelta è una di piccole dimensioni, nella quale i dipendenti non sono tanto numerosi da poter contare su di una rappresentanza sindacale. Presentato con successo a Cannes, il film trova un ulteriore punto di forza nel testo asciutto, in una mise-en-scène rigorosa e senza fronzoli: nessuno, nemmeno lo spettatore, esce indenne da una visione che genera un senso d'incolmabile angoscia. E se lo scioglimento pare essere più che in passato aperto alla speranza, ciò suona come un omaggio all'ottimismo della volontà e promana dall'espressione di una Marion Cotillard maiuscola, capace di esprimere al meglio patimenti e dignità del suo complesso personaggio.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

DUE GIORNI, UNA NOTTE. REGIA: JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE. INTERPRETI: MARION COTILLARD, FABRIZIO RONGIONE, OLIVIER GOURMET. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 95 MINUTI.

martedì 11 novembre 2014

Lo sciacallo

Louis Bloom è un vagabondo senza lavoro, un disadattato sociopatico che vive di piccoli furti e abita in uno squallido locale suburbano. Pur essendo nella realtà un reietto emarginato, non cessa di pensare in grande: arrivista, sfrontato, presuntuoso, crede nel web e ne è una sorta di maniaco, intuendo che da lì potrà spuntare qualche atout che gli consenta di emergere. Una notte, di fronte ad un incidente stradale, vede all'opera dei "serpenti della notte" (nightcrawler, come recita il titolo originale), gente che passa il  tempo ad inseguire sciagure da riprendere per poi venderle ai network locali. Non essendo egli riuscito a farsi assumere dal cameraman Joe, si procura un'attrezzatura completa di radio sintonizzata sui canali della polizia per poter accorrere il più rapidamente possibile sui luoghi dei disastri, con tanto di scanner e videocamera. Dopo aver assunto un assistente, e stabilito un rapporto preferenziale con la produttrice senza scrupoli d'un tv locale, Lou si lancia a capofitto nel business del giornalismo senza regole: sino al punto da spostare i cadaveri sull'asfalto perché vengano meglio in ripresa, da ignorare tutte le regole di soccorso ai feriti prima dell'arrivo delle forze dell'ordine, di procurare le condizioni affinché avvengano omicidi e stragi...

E' Dan Gilroy - sceneggiatore, fra l'altro, di uno dei capitoli della serie "Bourne", con Matt Damon - ad esordire dietro la macchina da presa con questo "Lo sciacallo" (ed è sua moglie, Rene Russo, a recitare  con bravura nei panni della spietata dirigente televisiva). L'argomento non è nuovo almeno dai tempi de "L'asso nella manica" (1951) di Billy Wilder, capo d'opera del genere in cui un reporter cinico sfruttava il caso di un minatore sepolto vivo per montare uno scoop e risollevare la propria carriera. Diversi sono i mezzi, ora, in epoca in cui ciascuno può improvvisarsi operatore per agire in un regime di concorrenza che non conosce remore. Il tutto in una Los Angeles notturna e solitaria: nella città degli angeli, Michael Mann aveva immaginato - nel suo splendido "Collateral" (2004) - che un coyote attraversasse la strada; qui, gli animali tanatofagi sono in tanti ed in carne e ossa, pur se metaforicamente li si potrebbe definire come delle infime "mosche del capitale".

Proveniente dalla scrittura, Gilroy disegna con efficacia il sottobosco di predatori umani che a rotta di collo si gettano sulle strade della metropoli: lo scopo, arrivare primi a catturare delle immagini shock da propinare nel corso dei notiziari ad un pubblico desideroso d'abbeverarsi di sangue e di lutti. E la trama, pur escludendo una morale differente da quella che si evince dalla mera rappresentazione, non può non stimolare delle riflessioni sull'accettazione di compromessi etici in nome del lavoro (la figura di Rick, l'accompagnatore di Lou nelle scorribande, è in tal senso emblematica). Tuttavia, l'autentica carta vincente di questa intensa pellicola di debutto è Jake Gyllenhaal, formidabile nel tratteggiare l'ambiguità di un personaggio al tempo medesimo servile e feroce, subdolo e fascinoso: messosi in luce in diversi film (da "Zodiac" di Fincher a "I segreti di Brokeback Mountain" di Ang Lee), qui si rivela un attore oramai maturo, capace di reggere un'intiera storia sulle proprie spalle. I suoi occhi da lupo affamato e ferito, la sua parlantina sciorinata ad ogni pie' sospinto sono particolari che non si dimenticano: e fanno comprendere che le interpretazioni del nostro segneranno, per certo, gli anni a venire.

LO SCIACALLO. REGIA: DAN GILROY. INTERPRETI: JAKE GYLLENHAAL, RENE RUSSO, BILL PAXTON, JENNIFER FOX, TONY GILROY. DISTRIBUZIONE: NOTORIOUS. DURATA: 117 MINUTI.

martedì 4 novembre 2014

Torneranno i prati

"Mio padre aveva 19 anni quando venne chiamato alle armi. A quell'età, l'esaltazione dell'eroicità infiamma menti e cuori, soprattutto dei più giovani. Scelse l'Arma dei bersaglieri, battaglioni d'assalto, e si trovò dentro la carneficina del Carso e del Piave, che segnò la sua giovinezza e il resto della sua vita".
Non è la prima volta che Ermanno Olmi affronta il tema della guerra: già nel remoto "I recuperanti" (1970, girato anch'esso sull'Altopiano di Asiago, il medesimo luogo di questa sua ultima fatica), ad esempio, dove aveva descritto le conseguenze delle ostilità belliche su quelle genti ed il modo in cui, per paradosso, dal dolore fosse poi scaturita una fonte di sostegno. O nel bellissimo "Il mestiere delle armi" (2001), in cui il transito dall'epoca dei cavalieri a quella delle armi da fuoco in qualche modo lasciava che una guerra disumanizzata prendesse il posto di scontri contraddistinti, quanto meno, dal coraggio e dal senso dell'onore.

Mai, però, il maestro ci aveva dato un'opera dalla scaturigine tanto personale: nella dedica al papà "che, quand'ero bambino, mi raccontava della guerra dov'era stato soldato", si trova il segno di un'emozione lontana nel tempo eppur vivida, un suggerimento da non lasciar cadere soprattutto quando la vecchiaia e la salute t'incalzano nel riconsiderare l'esistenza tutta, verificandone le cose davvero importanti. Sulla scorta di una suggestione letteraria (lo splendido racconto di Federico De Roberto "La paura"), il film ci porta sul fronte Nord-Est, zona Altipiano dei Sette Comuni, in quei giorni del 1917 che precedettero la sconfitta di Caporetto.

In una trincea d'alta montagna, giunge un ordine insensato che un tenente si rifiuta di eseguire perché non vuole mandare al massacro i propri uomini. E' a questo punto che arriva un maggiore, mandato lì "per tenere alto lo spirito" e "non far poltrire nell'ozio" le truppe. Sotto l'imposizione di quest'ultimo, si va a morire: c'è chi prima si fa benedire dal cappellano e bacia la fetta di pane che porta con sé, chi decide di spararsi, chi prende un topolino nella mano per sentirne il calore vitale, chi guarda da una feritoia quasi incantato la corsa di una lepre, il muso di una volpe. C'è poi il tempo, tanto lento che pare non trascorra: qualcuno intona una canzone, "Tu ca nun chiagne" o "Fenesta ca lucive", toccando il cuore finanche del nemico. E c'è, improvviso, il succedersi delle cannonate preceduto da razzi che rischiarano la notte: corpi martoriati, feriti che non vogliono soccorso, croci che si aggiungono ad altre. Dio manca, "ma vuoi che se non ha ascoltato il figlio ascolti noi, poveri cani?".

Per mettere in scena la tragedia quotidiana della guerra, Olmi ha scelto di desaturare i colori sino ad ottenere un impasto di bianchi, neri e grigi che danno sentore di polvere e abbandono; la neve, vera protagonista, sembra aver smarrito il biancore per assumere delle tonalità plumbee; ed i corpi che cercano riparo dal gelo sotto improbabili mantelline, paiono strumenti velati dal dolore, prigionieri di filo spinato e cavalli di Frisia. Mai, ci sembra, la Grande Guerra ha trovato toni così desolati al cinema (in letteratura, magari, nelle pagine di Lussu e Jahier, di Comisso e Gadda); e solo l'immenso "Orizzonti di gloria" (1957) di Kubrick regge il confronto, per intensità e potenza, con questa pellicola di ottanta minuti. Spesi all'insegna di un'indignazione che trasmuta, nascendo, in pietas.

TORNERANNO I PRATI. REGIA: ERMANNO OLMI. INTERPRETI: CLAUDIO SANTAMARIA, ALESSANDRO SPERDUTI, FRANCESCO FORMICHETTI, ANDREA DI MARIA. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 80 MINUTI.

Sils Maria

Maria Enders, diva quarantenne al culmine della propria carriera internazionale, è assurta alla fama oltre quattro lustri prima interpretando a teatro il ruolo di Sigrid, giovane ambiziosa che induce al suicidio la più matura Helena, innamoratasi di lei. La scomparsa di Wilhelm Melchior, autore del dramma che tanto ha significato per il suo percorso professionale, la induce a rifare il testo, però calandosi questa volta nei panni della coprotagonista. A ricoprire il ruolo che un tempo le era appartenuto, il giovane regista della nuova versione chiama una starlet hollywoodiana, Jo-Ann Ellis, predisposta in maniera sgradevole allo scandalo. Recatasi assieme alla sua inseparabile assistente Valentine a Sils Maria, un remoto paese delle Alpi ove si preparerà per il cimento, Maria si trova ad affrontare un periglioso bilancio della propria vita giusto mentre è alle prese con un divorzio, e la paura dell'età che passa diviene più incalzante...

Entrambi all'inizio della propria vicenda artistica, Olivier Assayas e Juliette Binoche si incontrarono per la prima volta al tempo di "Rendez-vous"(1985), esordio dietro la macchina da presa di André Téchiné: lui coautore del testo, lei attrice principale, dipoi intraprendono due strade parallele e fortunate, senza però più riuscir a incrociarsi. "Sils Maria" deve, perciò, essere parso ad entrambi un'occasione da non lasciarsi sfuggire. Nato da un'idea della stessa Binoche e da un documentario di Arnold Frank, "Cloud Phenomena of Maloja" (1924), in cui viene ripreso il singolare fenomeno atmosferico del "serpente del Maloja" (vale a dire, lo scorrere autunnale di una catena di nuvole lungo tutta l'Engadina), esso ritorna su temi cari al cineasta parigino: già "Irma Vep" (1996) era la storia di un "film nel film", con la star del cinema orientale Maggie Cheung nella parte di se medesima, e un abile intrecciarsi della passione per la settima arte con l'autobiografismo.

Qui, il gioco si fa, se possibile, ancora più vertiginoso. Mentre "Kowalski" dei Primal Scream risuona rabbiosa in colonna sonora, Assayas costruisce un racconto matrioska ch'è un ininterrotto rifrangersi di specchi. Il rapporto fra Maria e Jo-Ann riproduce quello fra Helena e Sigrid, ma anche l'interazione fra Maria e Valentine scaturisce da dinamiche similari. Si tratta di un esercizio di metacinema, dove Kristen Stewart tiene botta muovendosi fra una complicità amicale ed un'ostilità da deuteragonista nei confronti di Binoche. Per cui, nelle meravigliose scene della prova del testo, Maria/Helena/Juliette si scontra e più raramente s'incontra con Valentine/Sigrid/Kristen, dando luogo a uno spettacolo recitativo d'alta classe. Il modo in cui Maria cerca di collocarsi in una zona acronotopica che prescinda dall'anagrafe è il cuore della vicenda: la modalità, di contro, è l'attenzione di chi guarda, la sua capacità di sfuggire alla pania dell'autoreferenzialità. Ed è per questo che l'evento fondamentale è una sparizione silente, che suscita un interrogarsi doloroso sull'incapacità di porsi in ascolto, di "soffermare lo sguardo solo un istante in più". Per paradosso bildungsroman, nel senso del viaggio verso il raggiungimento della maturità da parte di una donna incapace di non restar ancorata ai privilegi della giovinezza, "Sils Maria" adopera come mezzo comunicativo la parola in modo torrenziale, implacabile, staremmo per dire sfinente. Ma quanto d'attenzione, fatica, concentrazione il regista chiede allo spettatore, viene infine ripagato dalla visione di un'opera di cristallina bellezza che ha la forma di un oggetto filmico nitido, a tratti contundente, sempre ammaliante.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SILS MARIA. REGIA: OLIVIER ASSAYAS. INTERPRETI: JULIETTE BINOCHE, KRISTEN STEWART, CHLOE GRACE MORETZ. DISTRIBUZIONE: GOOD FILMS. DURATA: 124 MINUTI.

lunedì 27 ottobre 2014

La spia - A Most Wanted Man

Amburgo. Dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre Issa Karpov, un giovane uomo dalle origini russo-cecene, approda nel porto con l'intento di recuperare il denaro che suo padre, feroce criminale di guerra, ha accumulato nel corso dell'esistenza. In allarme i servizi segreti tedeschi e statunitensi, tocca a Günther Bachmann verificare se il nuovo arrivato sia una persona innocente coinvolta in una vicenda più grande di lui od un pericoloso terrorista pronto a commettere attentati. Cinico e deluso, gravato dal vizio dell'alcol e dalla solitudine, Bachmann non può permettersi errori, dato che deve riscattarsi da un pesante fallimento del passato. Obbligato suo malgrado a lavorare sotto il controllo di un agente americano, con la quale pare poter nascere un'intesa sentimentale e professionale, Günther Bachmann vorrebbe discernere il bene dal male e consegnare alla giustizia soltanto i malvagi: coloro che si celano dietro ad una facciata di mitezza e di filantropia...

John Le Carré è tra gli autori letterari che il cinema ha maggiormente amato. Se il suo adattamento più noto, quello de "La spia che venne dal freddo" (1965) operato da Martin Ritt, fu giovevole a restituire al mestiere di spia un grigiore e una malinconia che all'epoca del lancio di 007 erano per nulla scontati, di poi molti film hanno tradotto in immagini suoi romanzi: si va da "La tamburina" (1984) di George Roy Hill, bene interpretato da Diane Keaton, a "La casa Russia" (1990) di Fred Schepisi, sceneggiato da Tom Stoppard, da "Il sarto di Panama" (2001) di John Boorman, guastato da un finale più morbido dell'originale, a "The Constant Gardener" (2005) di Fernando Meirelles, polemico con le malefatte di certe multinazionali farmaceutiche. Nessuna di codeste pellicole, anche se accurate, poteva però dirsi specialmente valida. Solo di recente, con "La talpa" (2011), Tomas Alfredson riusciva al medesimo tempo nell'impresa di non sfigurare di fronte alla celebrata serie tv interpretata da Alec Guinness nel '79 ed a restituire con efficacia e realismo il quadro d'un lavoro ben poco avventuroso o gratificante.

Segue le orme di quest'ultimo, "La spia": sulla scorta del dato di fatto che tre degli attentatori alle Twin Towers erano di base ad Amburgo, facendo così della città portuale tedesca un luogo ad alto rischio, il regista Anton Corbijn cala in detto contesto geopolitico dei personaggi che si muovono dentro ad un  universo popolato da dilemmi morali e reso mortifero dall'ingerenza dei Servizi americani negli affari mondiali. Günther Bachmann, corpo sovrappeso e sguardo intriso di sconforto, è la figura centrale di questo scenario, nel quale l'inganno è sempre in agguato e può provenire da qualsiasi direzione. Pur sforzandosi di svolgere il proprio compito in maniera impeccabile e rigorosa, egli si rivelerà alla fine incompatibile con loschi figuri mossi da esigenze estranee ad ogni correttezza o dirittura morale. Spy story peculiare, che predilige all'azione l'introspezione, "La spia" riposa in buona misura sulle ampie spalle di Philip Seymour Hoffman, qui alla sua ultima interpretazione. E' difficile, dopo la sua tragica fine, resistere alla tentazione di vedere nel dolore senza condivisione e senza lacrime del protagonista una sottolineatura personale; un senso di lutto indefinito che lo percorre senza dargli requie. Inutile, in ogni caso, indulgere a riflessioni di tal fatta: resta che l'attore newyorkese ci ha lasciato con una prova maiuscola, quasi presagisse che sarebbe stato, pure, il suo mesto epicedio.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA SPIA - A MOST WANTED MAN. REGIA: ANTON CORBIJN. INTERPRETI: PHILIP SEYMOUR HOFFMAN, WILLEM DAFOE, ROBIN WRIGHT, RACHEL McADAMS. DISTRIBUZIONE: NOTORIOUS PICTURES. DURATA: 121 MINUTI. 

giovedì 23 ottobre 2014

The Judge

Specialista nel sottrarre colletti bianchi alla giustizia dello stato dell'Illinois, il rampante penalista Hank Palmer torna a casa, nel piccolo borgo di Carlinville, Indiana, perché la madre è morta, dopo una lunga malattia. Da gran tempo egli non ha alcun contatto con i genitori, e la defunta era l'unica persona con la quale, quanto meno, si sentiva per telefono. Ripiombato nell'atmosfera gelida e sgradevole che l'aveva fatto allontanare, egli è già sulla via della fuga quando viene chiamato a difendere suo padre che - dopo essere stato per oltre quarant'anni uno stimato giudice del luogo - si ritrova d'improvviso sul banco degli imputati, gravato da un'accusa di omicidio. Divisi da un diverso modo d'intendere la professione, oltre che da rancori personali ardui da sciogliere, i due dovranno trovare un modo per superare le difficoltà, che si ripresentano puntuali ad ogni tentativo di colloquio...

"Questa famiglia è un maledetto dipinto di Picasso", dice ad un certo punto Hank, esasperato da quanto si trova a vedere e sentire nella sua visita obbligata a casa. Sta qui la chiave del film: nel ritratto amaro di una famiglia disfunzionale, travagliata da dolorosi rapporti padre-figlio, con una perigliosa quantità di cose non dette e risentimenti a lungo covati. E', ovviamente, un veicolo privilegiato per prove attoriali di classe: sono già in odore di nomination all'Oscar i due protagonisti Robert Downey Jr. (che ne ha già avute tre) e Robert Duvall (ben sette, con una vittoria per "Tender Mercies"). E i due, in effetti, danno vita a uno spettacolo di prim'ordine, sulla falsariga d'un sofferto cinismo il primo, in apparenza burbero e intrattabile il secondo, fino all'inevitabile riconoscimento reciproco nel finale. E lodi vanno, pure, al resto di un cast impeccabile, da Vera Farmiga a Vincent D'Onofrio, da Leighton Meester a Billy Bob Thornton.

Ciò detto, il film non convince fino in fondo, ché nei suoi interminabili 141 minuti di durata il regista David Dobkin - dedicatosi sinora alla commedia, maggiore successo "2 single a nozze" - impone alla trama di seguir troppe vie. La giustapposizione tra vicende di famiglia e plot giudiziario risulta poco o punto convincente: le prime ne vengono annacquate, il secondo non produce la dovuta suspense. Ne consegue che, poco alla volta, l'interesse dello spettatore finisce per scemare e pare, a tratti, d'assistere ad un telefilm pantografato ed in confezione di lusso. Se a ciò si aggiunge che i risvolti narrativi sono, in buona misura, prevedibili, si comprenderà facilmente che la pellicola - a parte, come sottolineato, l'eccellenza delle interpretazioni - è di quelle destinate a non lasciar traccia alcuna nella memoria dello spettatore.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

THE JUDGE. REGIA: DAVID DOBKIN. INTERPRETI: ROBERT DOWNEY JR., ROBERT DUVALL, VINCENT D'ONOFRIO, VERA FARMIGA, LEIGHTON MEESTER, BILLY BOB THORNTON. DISTRIBUZIONE: WARNER. DURATA: 141 MINUTI.

 

lunedì 20 ottobre 2014

L'amore bugiardo - Gone Girl


Nick Dunne e Amy Elliott s'incontrano nel corso di una serata newyorkese molto chic. Sono ambedue giovani, brillanti, attraenti: sembrano davvero fatti l’uno per l’altra. Si innamorano, si sposano e, allorquando stanno per decidere di metter su famiglia in piena regola, la crisi economica li colpisce e d’un tratto, perduto entrambi il loro lavoro, sono costretti a lasciare l’amata New York per il meno attraente Missouri. Li attendono il babbo di lui, ricoverato con l’Alzheimer, la madre ammalata di un tumore giunto allo stato terminale, e l’inizio di una crisi di coppia, forse prevedibile. Ma è solo laddove, alla mattina del loro quinto anniversario di matrimonio, Amy sparisce nel nulla che l'esistenza di Nick si trasforma in una sorta d'incubo. La sorella, assieme alla quale è proprietario d'un bar comprato coi soldi della moglie, cerca di aiutarlo in tutti i modi, ma viene, addirittura, arrestata per favoreggiamento; una sua alunna - Nick è, pure, insegnante - rende pubblica la relazione che ha con lui; e l'opinione pubblica, fomentata dalle morbose ipotesi avanzate durante telegiornali e talk show, gli è ferocemente ostile, sino a che l'accusa di omicidio viene formulata e le porte della galera si spalancano dinanzi a lui...

Tratto dall'omonimo best-seller di Gillian Flynn (in Italia, lo ha pubblicato Rizzoli), "L'amore bugiardo" va ad arricchire il numero di quelle pellicole giocate sulla scomparsa di uno tra i personaggi. E' un filone più ricco di quanto si può ipotizzare: s'inizia col classico "La signora scompare" (1938, rifatto nel '79 da Anthony Page come "Il mistero della signora scomparsa") e si arriva sino ai due "The Vanishing" (1988 e 1993), diretti entrambi dall'olandese George Sluizer, passando per B-movie come "Breakdown" (1997) di Jonathan Mostow o blockbuster come "Frantic" (1988) di Roman Polanski. Ogni volta, dietro la sparizione misteriosa, si cela un qualche progetto messo in atto da dei gruppi criminali, o la follia d'un singolo maniaco; insomma, è la struttura del thriller a fungere da ossatura di ciascun film (magari in chiave di commedia, come nell'archetipo hitchcockiano).

Fincher, invece, ha preso una strada diversa: quella della riflessione sulla crisi d'una coppia, e le possibili conseguenze. O, ancora, per usar le sue parole, si tratta di un'opera che parla di narcisismo, che riflette "su come noi ci mostriamo per attrarre qualcuno che pensiamo   valga la pena. Come costruiamo il nostro personaggio, il nostro make up, e lo difendiamo contro le evidenze. Il sottotema è il vampirismo dei sentimenti". In definitiva, "Gone Girl" - il titolo originale è assai migliore di quello italiano - è un dramma che, nel finale, diviene a forti tinte, non qualcosa che si basa sulla suspense. Calcolando che esso si estende per due ore e mezza, non è difficile capire come soffra di vistosi cali di tensione, che inutilmente il regista di "Seven" cerca di ridurre proponendo un lavoro di "tutta trama": ne soffrono, a scorno della durata, le psicologie dei personaggi e l'interesse dello spettatore, che cala sempre di più. Ma il difetto principale del film, peraltro confezionato con una professionalità che va dalle valide scelte di casting agli ottimi contributi tecnici, sta nel cercare pubblico proprio - se capite cosa intendiamo dire - nella tipologia di persone che esso pare stigmatizzare: gente che, magari, si riconosce in certe degenerazioni coniugali e, comunque, è morbosamente attratta dai fatti di cronaca ove abbondi sangue e sesso. Certe rubriche televisive han costruito sulla formula le proprie fortune; ed è un poco deprimente che un cineasta delle capacità di Fincher diriga sul grande schermo una vicenda "che sembra vera", per solleticare i peggiori istinti in luogo di dare i sani brividi di sempre.
                                                                                                                                 Francesco Troiano

L'AMORE BUGIARDO - GONE GIRL. REGIA: DAVID FINCHER. INTERPRETI: BEN AFFLECK, ROSAMUND PIKE, NEIL PATRICK HARRIS. DISTRIBUZIONE: FOX. DURATA: 145 MINUTI.

giovedì 16 ottobre 2014

Soap Opera

Gianni e Mario sono fratelli che vivono assieme: il secondo è su una sedia a rotelle, ed abitano sotto lo stesso tetto da quando il primo lo ha investito. Francesco ama ancora la sua ex, Anna, ma lei lo informa d'essere incinta di un altro. Pure la moglie di Paolo, amico di Francesco, è in dolce attesa, ma il consorte nutre dei dubbi sui propri gusti sessuali. Poi c'è Francesca, bella quanto addolorata perché il fidanzato si è tolto la vita, per ragioni non meglio chiarite. Quanto ad Alice, attrice in una soap opera televisiva di successo, ha un'irresistibile propensione per le avventure amorose, di preferenza con uomini in divisa: la sua ultima conquista è il maresciallo dei carabinieri Cavallo. Tutti, infine, vivono nello stesso palazzo, e le loro storie s'intrecciano inestricabilmente...

Partendo da un copione che aveva scritto per il teatro, senza poi riuscire a metterlo in scena, Alessandro Genovesi firma con "Soap Opera" un oggetto filmico atipico in più di un senso. In primo luogo, si tratta di un progetto ambizioso: l'interno dei diversi appartamenti è stato ricostruito interamente nel teatro 8 di Cinecittà, mentre gli esterni - con le opportune modifiche - sono stati ricavati sulla scenografia della strada d'epoca che fece da sfondo prima a "Concorrenza sleale" di Scola e poi a "Gangs of New York" di Scorsese. Inoltre, si tratta di un racconto corale, con una congerie di personaggi che s'alternano e le cui vicende coesistono, un po' come nella vita: infine il cast, composto da attori non nuovi al cinema del nostro, fa molto compagnia teatrale e si ricollega alla scaturigine di palcoscenico, appunto, del regista.

Resta da dire degli esiti. L'ambizione di Genovesi, lo si sa, è quella di svecchiare i modelli del comico italiano con una confezione "globalizzante", addirittura esportabile, sulla scorta d'un umorismo di grana più sottile; magari, guardando a modelli quali Woody Allen e Blake Edwards. Da "La peggior settimana della mia vita" (2011) al sequel "Il peggior Natale della mia vita" (2012), già il tiro veniva aggiustato e gli esiti parevano meno abborracciati, meno sfilacciati. Qui, il meccanismo risulta ulteriormente oliato e messo a registro ottenendo una certa compattezza, capace di andare al di là della semplice infilata di sketch. Rinunciando a pretese slapstick e puntando su una comicità orientata verso il sorriso in luogo dell'esazione della risata (salvo che in un paio di battute sessuali, decisamente fuori registro), si può dire che "Soap Opera" sia un risultato per nulla disprezzabile, nella linea d'un dignitoso cinema di consumo. Purtroppo, averlo piazzato come titolo d'apertura dell'edizione 2014 del Festival di Roma non è stata davvero una buona idea: caricare di eccessive aspettative un'operina fragile, che si regge su un filo di grazia, non è rendere un buon servizio né alla manifestazione né alla pellicola.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SOAP OPERA. REGIA: ALESSANDRO GENOVESI. INTERPRETI: FABIO DE LUIGI, CRISTIANA CAPOTONDI, RICKY MEMPHIS, CHIARA FRANCINI, ALE & FRANZ, DIEGO ABATANTUONO, ELISA SEDNAOUI, CATERINA GUZZANTI. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DUARATA: 86 MINUTI.

lunedì 13 ottobre 2014

Frank

Nell'universo della musica alternativa, i Soronpfrbs sono una tra le band più apprezzate e conosciute. Geniale, sgangherato e irresistibile, il gruppo ruota intorno a Frank, bizzarro talento delle sette note instabile però carismatico, che indossa di continuo una gran testa finta di cartapesta, con lineamenti disegnati in maniera grossolana. Collaboratrice più stretta ne è Clara, che alterna dolcezza e durezza nel gestirne la complessa personalità; completano la formazione Nana, batterista alla Moe Tucker, e Baraque, bassista francese. A questo singolare mix d'individui si unisce, un bel giorno, il sostituto tastierista Jon, dopo che il titolare è stato ricoverato in seguito ad un tentativo di annegamento; per il giovane, è l'occasione che aspettava, da sempre desiderando d'emergere nel mondo della musica...

Scritto da Jon Ronson e Peter Straughan (in duo, autori dello script de "L'uomo che fissava le capre"), "Frank" è basato su un memoir di Jon Ronson. Liberamente ispirato a Frank Sidebottom, alter ego del comico e musicista britannico Chris Sievey, oltre che ad altri musicisti outsider quali Captain Beefheart (che compariva con una singolare bardatura sulla copertina del suo album più celebrato, "Trout Mask Replica") e Daniel Johnston (aduso a celarsi dietro ad un sorriso cartoonesco), il film del dublinese Lenny Abrahamson è una celebrazione della vita ai margini, impaginata senza indulgere a prevedibili sentimentalismi.

Il nocciolo della storia sta nello scontro tra Jon e Clara per il controllo di Frank, narra dell'influenza che il primo riesce ad ottenere all'interno dell'ensemble e di come, dopo tanto agitarsi, egli finisca quasi per distruggere ciò che ha imparato ad amare così tanto ("each man kills the things he loves": chi si ricorda di Jeanne Moreau?). E, ovviamente, "Frank" ha al centro l'ineffabile, sfuggente, adorabile protagonista: il motivo del dolore che lo ha portato a tanto riserbo resta ignoto (a un certo punto, i genitori affermano che egli è sempre stato malato, punto e basta): tuttavia, in quell'arresa tenerezza che sa farsi scontrosità, in quella pena che non ha la forza d'appalesarsi, vive un mistero che affascina ed intriga, sia una donna come Clara, con evidenza innamorata del nostro, sia un giovane come Jon, alle prese con un talento che non è pari alle proprie ambizioni. Il racconto, che sembra in un primo momento consegnare l'antieroe a una nuova stagione di mutismo e assenza, vira d'improvviso verso un finale lieto e credibile: a rendere possibile tutto ciò dà un contributo incalcolabile la prova, immensa, d'un Michael Fassbender in stato di grazia.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

FRANK. REGIA: LENNY ABRAHAMSON. INTERPRETI: MICHAEL FASSBENDER, DOMHNALL GLEESON, MAGGIE GYLLENHAAL. DISTRIBUZIONE: I WONDER. DURATA: 95 MINUTI.