lunedì 28 gennaio 2013

Zero Dark Thirty

La caccia ad Osama Bin Laden è l'impresa che più ha impegnato gli Stati Uniti d'oggi, nel corso di due lustri e d'altrettanti mandati presidenziali; e, inoltre, maggiormente ha esposto il paese in termini di ricatti e di minacce, tanto dentro i propri confini quanto sulla scena internazionale. La guerra al terrore, negli anni immediatamente successivi all'attentato dell'11 settembre 2001, ha occupato buona parte del tempo e dell'attenzione degli agenti CIA: tra di loro Maya, giovane analista specializzata nella cattura dei terroristi, all'inseguimento di una pista che fa capo al corriere di Bin Laden. Al termine d'una indagine durata per più d'un decennio, la donna - coinvolta anche personalmente dalla morte d'una persona amica - condurrà i Seals a individuare il nascondiglio del leader di Al Qaeda in Pakistan e ad ucciderlo.

Cineasta dal talento grande quanto discontinuo, la Bigelow -  ben poco prolifica: solo dieci film in trent'anni di carriera - era un po' che deludeva con le sue opere: perfino l'assai premiato - ben sei Oscar, tra cui quelli per la miglior regia e il miglior film - "The Hurt Locker",  war movie zeppo di personaggi stereotipati e ambiguo nella sua attrazione per quei soldati adusi a vivere pericolosamente, non onorava la reputazione della californiana. Con "Zero Dark Thirty" - e molto ci allieta dirlo - la regista di "Near Dark"(1987) torna alla sua forma più convincente, mettendo in scena un complesso plot che fa incrociare la vicenda di Maya, trovatasi ad operare in un mondo eminentemente machista, con l'avvincente resoconto di una perigliosa partita immersa nell'ambiente di coloro che l'hanno condotta. Di tal braccare, la Bigelow si guarda bene dal nascondere gli aspetti più controversi o esplicitamente censurabili (la discussa sequenza delle torture ai prigionieri, che tuttavia - a quanto risulta da documentati testi - furono assai più feroci): ed è interessante notare come allo sguardo degli spettatori sian mostrate le reazioni di Maya, utili per fornire un suo ritratto psicologico a tutto tondo.

Ispirata ad un personaggio realmente esistito, la protagonista è un segugio implacabile, ossessionato dal raggiungimento del proprio obiettivo, ma attenta a mai smarrire la lucidità. Il risultato conclusivo dev'essere apparso assai convincente, se l'uscita del film in patria - in un primo momento prevista per l'autunno - è stata spostata a dopo le presidenziali, per tema di poter influenzare l'esito del voto. Ciò che sorprende, sopra ogni cosa, è che la Bigelow, fautrice d'un cinema elegante e stilizzato, abbia qui preferito intraprendere la via del racconto classico, realistico, giungendo ad un esito di prim'ordine
 - in virtù pure di uno splendido lavoro al montaggio - sia sul registro formale sia su quello politico.  Nelle belle sequenze dei giochi al campo, o nel silenzio tragicamente eloquente in elicottero, vibra la cifra umana della storia, mentre il raid di Abbottabad (ricostruito meticolosamente fino nei dettagli), superbo pezzo di cinema, mette in circolo l'adrenalina all'insegna di una suspense insostenibile.

In sottofinale, quando Maya indossa il chador sopra le All Star, si chiarisce meglio il senso della pellicola. Concluso l'inseguimento del nemico, resta una creatura femminile in qualche modo svuotata (a proposito, l'intepretazione di Jessica Chastain è semplicemente strepitosa), ma capace di intuire come - attraverso la ricerca del nemico - ella fosse sulle tracce di se stessa. Come tante delle magnifiche ossessioni del grande schermo, il labirinto è dentro chi vi si avventura e lo scioglimento porta a una duplice agnizione. Dell'altro da sé, di sé. L'incipit, forse, d'una nuova vertigine senza fine.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

ZERO DARK THIRTY. REGIA: KATHRYN BIGELOW. INTERPRETI: JESSICA CHASTAIN, JASON CLARKE, JOEL EDGERTON, JENNIFER EHLE. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 157 MINUTI.

giovedì 24 gennaio 2013

Lincoln

Sul grande schermo, sino ad oggi la figura del sedicesimo presidente degli Stati Uniti era legata in modo indissolubile alla bella raffigurazione che ne fornì Henry Fonda in "Alba di gloria" (1939). Diretto da John Ford, il film possiede grandi meriti (si pensi solo alla sequenza della traversata a dorso di mulo), ma è "un ritratto mitico più che una biografia" (Lourcelles) del suo protagonista. Così non accade nell'attesissimo "Lincoln" di Steven Spielberg, che restituisce il cineasta dell'Ohio alla sua forma migliore, dopo il mezzo passo falso di "War Horse". In due ore e mezza di durata che vanno via in un lampo, il film si sofferma sugli ultimi mesi di vita del personaggio - sino alla di lui morte, avvenuta in teatro per mano d'un attore antiabolizionista, il 15 aprile del 1865 - impegnato nella battaglia per far varare il Tredicesimo Emendamento alla Costituzione dal Congresso, che aboliva dopo 250 anni la schiavitù nel paese: l'ampia visione dello statista dovette, nell'occasione, andar di pari passo con le doti del politico, aduso a confrontarsi con una platea di deputati sovente mossi da ben miseri interessi.

Basandosi sull'ottimo libro di Doris Kearns Goodwin "Team of Rivals", il drammaturgo Tony Kushner - premio Pulitzer per "Angels of America" e già al fianco di Spielberg per "Munich" - ha licenziato una sceneggiatura impeccabile, condensando in pochi convulsi giorni il senso di un'avventura umana oltre che politica; Spielberg, in mirabile sintonia, ha confermato il proprio magistero innervando di riferimenti storici e biografici il succedersi delle immagini. Se la guerra di Secessione americana in celluloide la conosciamo soprattutto "attraverso il romanticismo sudista tutto crinoline e dispetti amorosi di 'Via col vento' " (N.Aspesi), bastano al regista i pochi secondi di guerra cruenta del prologo per rovesciare l'immagine; e altrettanto eloquente è la visita del Presidente sul campo di battaglia a scontro conclusosi, tra cadaveri impilati e distruzione onnipresente. Ma c'è spazio, anche, per pagine di classica bellezza: su tutte, la sequenza iniziale in cui due soldati di colore raccontano a Lincoln delle ingiustizie patite dalla loro gente finanche nell'atrocità bellica, dei privilegi riservati ai bianchi. Qui, Daniel Day Lewis dà già l'idea di quella che sarà la sua maiuscola interpretazione, tesa a rendere in ogni sfumatura la malinconia di fondo d'un uomo risoluto se necessario, capace di fondere in ossimoro intransigenza idealistica e naturale bonomia.

Cos'altro? Il lavoro del direttore della fotografia, Janusz Kaminski, che ha girato praticamente a lume di candela, ci fa venire in mente quello di John Alcott per il "Barry Lyndon"(1975) di Kubrick, termine di paragone che ritenevamo ineguagliabile. Nei ruoli secondari tutti vibrano all'unisono: menzione speciale per Tommy Lee Jones, impagabile nei panni del radicale repubblicano che finisce per accettare la poco amata diplomazia di Lincoln, in ossequio al risultato da ottenere. Lezione scritta coi mezzi della settima arte ai politicanti, improvvisati o attenti a volger ogni cosa a proprio vantaggio, "Lincoln" coniuga lo spettacolo all'arte ai massimi livelli: è, questo, il cinema che amiamo, che sempre ameremo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LINCOLN. REGIA: STEVEN SPIELBERG. INTERPRETI: DANIEL DAY-LEWIS, SALLY FIELD, TOMMY LEE JONES, JOSEPH GORDON-LEVITT. DISTRIBUZIONE: FOX. DURATA: 150 MINUTI.

Quartet

L'esistenza a Beecham House, residenza per cantanti lirici e musicisti in pensione, scorrerebbe quieta e serena, se in amministrazione non si dovesse combattere per far quadrare il bilancio: malgrado gli sforzi della dottoressa Cogan, il rischio di dover mollare si fa di giorno in giorno più concreto. Ad eccitar gli animi giunge, dipoi, la notizia che una nota diva del passato sta per aggiungersi al numero degli ospiti: si tratta di Jean Horton, un tempo sposa di Reggie Paget, col quale aveva - assieme a Wilfred Bond ed a Cecily Robson - dato vita ad un prestigioso quartetto canoro. Il pezzo forte del loro repertorio d'allora era il "Rigoletto": una riproposizione del cavallo di battaglia, in occasione del gala annuale, potrebbe rimpinguare le casse dell'istituto ed allontanare lo spettro della chiusura. Ma antiche ferite mai sanate, gelosie professionali, ripicche, invidie, scatti d'ira minano l'anelata rentrée: riusciranno i componenti ad anteporre l'interesse comune ai propri privati dissidi e alle diversità di carattere?

Di pellicole sulla vecchiaia ce ne sono parecchie, tante da rendere auspicabili ormai delle tesi di laurea sull'argomento (ci risulta, peraltro, che più di qualcheduno ci abbia già pensato). Da classici quali "Luci della ribalta" (1952) e "Il posto delle fragole" (1957) a chicche come "Harold e Maude" (1971) e "I ragazzi irresistibili" (1975), da gemme del cinema d'essai ("Providence", 1977; o il recentissimo "Amour") alle splendide variazioni eastwoodiane  ("Million Dollar Baby", 2004; "Gran Torino", 2008), "l'età della pace" - l'espressione, desunta da una lettera di Sigmund Freud, è pure il titolo di un bel film sul tema, diretto nel 1974 da Fabio Carpi - ha trovato sul grande schermo raffigurazioni interessanti e alle volte peculiari (un esempio: "Vivere alla grande", firmato nel 1979 da Martin Brest, dove tre pensionati del Queens decidono di rapinare una banca di Manhattan).

In verità, si muove nel solco dell'ortodossia Dustin Hoffman, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, a settantancinque anni. Sulla difficoltà ad invecchiare delle ex-star conosciamo tutto fin dall'epoca di "Viale del tramonto" (1950), laddove le piccole crudeltà del periodo senile stavano nascoste dentro le pieghe de "Le balene d'agosto" (1987). Ma il nostro non desidera stupire, né dir cose inedite: preferisce, invece, adattare in celluloide una commedia inglese, giocando su un registro delicato, ironico, elegante. Se il nume dell'amico Pacino, insomma, è Shakespeare, il suo è indiscutibilmente Cechov: tra sontuosi interni ed impeccabili vestiti, passeggiate nella quiete campestre e piccole baruffe, il tono perseguito sta sospeso tra allegrezza e scoramento, giusto il blend dello scrittore russo. Nei limiti d'uno svolgimento a tratti lievemente stucchevole, l'intendimento può dirsi riuscito: grazie, pure, a un cast perfetto, nel quale primeggia - come d'uso - l'incantevole Maggie Smith.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

QUARTET. REGIA: DUSTIN HOFFMAN. INTERPRETI: MAGGIE SMITH, TOM COURTENAY, PAULINE COLLINS, BILLY CONNOLLY, MICHAEL GAMBON. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 98 MINUTI.

lunedì 14 gennaio 2013

Flight

Alla guida di un jet partito dalla Florida, in una tranquilla mattina di metà autunno, il comandante Whip Whitaker s'appresta a vivere una giornata che immagina eguale a tante altre. Ben presto, tuttavia, egli s'imbatte in una turbolenza forte ed imprevista: dipoi, un succedersi di guasti meccanici ai quali risulta impossibile rimediare, porta l'aereo a spirale verso il basso e fuori dal controllo di chi lo conduce. A questo punto, Whip decide una manovra azzardata e ardimentosa: gira completamente il mezzo - allo scopo di farlo planare senza i motori - per poi raddrizzarlo e tentar di atterrare nel migliore dei modi. Il tutto riesce quasi perfettamente, se è vero che egli salva 96 tra le 102 persone presenti a bordo: per l'impresa, viene acclamato come un eroe. Nel corso delle indagini successive, tuttavia, nel suo sangue sono riscontrate tracce di alcool e cocaina: ciò pone il nostro in una posizione delicata, pur se egli può  rivendicare che il suo stato non gli abbia impedito di fornire una prestazione d'eccellenza. Assistito da un avvocato schietto e scaltro, Hugh Lang, oltre che dal suo amico e rappresentante sindacale Charlie Anderson, Whit arriva allo snodo cruciale: prestare una testimonianza che può salvarlo, a patto di non rispettar la memoria d'una donna scomparsa e a lui cara...

Il cinema hollywoodiano ha più volte affrontato il tema della dipendenza etilica e delle conseguenze che ne derivano, sia attraverso classici quali "Giorni perduti" (1945) e "I giorni del vino e delle rose" (1962) sia tramite riuscite minori come "Amarsi" (1994) o "Via da Las Vegas" (1995). Robert Zemeckis, al suo primo film live dopo 12 anni dedicati all'animazione, sceglie un approccio particolare al tema: "Flight" è infatti, in primo luogo, una riuscita mescolanza di generi, dal disaster movie al thriller psicologico. Qui, il regista contemporaneo "che più di ogni altro ha usato gli effetti speciali in maniera drammatica e narrativa" (David Thomson), si limita ad adoprarli da par suo nella sequenza dell'incidente aereo, forse la più realistica e coinvolgente mai girata: dipoi, si affida ad un racconto lineare e classico, in ciò sostenuto dalla magistrale prova recitativa di Denzel Washington.

Il quesito al centro del film è se l'etica - ancor più, ci pare, del mero rispetto della legge - sia qualcosa con la quale si può giungere a patti, senza tener conto degli esiti specifici del nostro comportamento. Ovviamente la risposta è no, ma risulta interessante la strada intrapresa dal regista - e dal suo ottimo sceneggiatore, John Gatins - per giungere allo scioglimento. La parabola di Whip, infatti, rispecchia l'iter dell' "umano-spoglia-rinnova" proprio delle sacre rappresentazioni: diamo all'uomo la facoltà di scegliere, ci capiterà magari d'assistere al miracolo di una decisione positiva ottenuta senza coartazioni di sorta. Questo schema d'ispirazione cristiana, da mistero medievale, s'inserisce con bella fluidità nella narrazione: il risultato è un film vigoroso e coinvolgente, asciutto e trascinante, sin d'ora ascrivibile ai risultati più convincenti del cineasta chicagoano.
                                                                                                                                     Francesco Troiano