martedì 27 gennaio 2015

Turner

Gli ultimi venticinque anni di vita di Joseph Mallord William Turner, grande pittore inglese, tra i massimi paesaggisti dell'Ottocento: lo scorrere della vita quotidiana con il vecchio padre - forse l'unica persona a cui egli, davvero, voglia bene - e con Hanna, la matura governante malata di scrofolosi, con la quale ha, a volte, rapporti sessuali veloci ed algidi. Alla morte del genitore, vieppiù l'unica cosa a dare senso ai giorni dell'uomo è la pittura: incentrata su tempeste, naufragi, incendi, scene mitologiche, mercanti di schiavi che gettano a mare i moribondi, l'arte sua è quasi impressionista, assai più moderna di quella rarefatta dei Pre-Raffaeliti, che ne offuscheranno la fama. Affezionatosi, al tramonto dell'esistenza, alla vedova Booth, padrona di una piccola pensione a Morgate sul mare, il nostro vi si trasferisce per infine spegnervisi, nel 1851, a 74 anni.

"Questo film sembra un kolossal ma non lo è, poiché - rivela Mike Leigh - in realtà non avevamo tanti soldi. Però eravamo ossessionati dai dettagli: i costumi sono  repliche esatte del periodo, e gli attori indossano perfino copie di mutande d'epoca. Tutto è curatissimo, soprattutto il linguaggio". In effetti, l'inglese parlato in questo magnifico "Turner" non è quello odierno, bensì quello dickensiano: chi può, veda il film in originale con sottotitoli. Non foss'altro, per non perdere il sublime lavoro del protagonista Timothy Spall (premiato a Cannes), che "inventa" per il proprio personaggio una parlata costituita quasi soltanto da grugniti, borbottii, bofonchiamenti, come ad esprimere il proprio disinteresse per gli altri (in tal senso, memorabili sono gli incontri con l'incanaglita ex-consorte, dalla quale ha avuto due figliole).

Prevenuto a ragione, dopo tanti biopic tediosi e magari inattendibili, lo spettatore s'accosti stavolta con fiducia: non che Mike Leigh si preoccupi d'essere immaginifico o scoppiettante nelle immagini, in verità. Tuttavia, il ritratto ch'egli compone dell'anziano artista è difficilmente dimenticabile: sin dall'incipit, una splendida inquadratura della campagna inglese, è un succedersi d'immagini suggestive, tra nebbiosi paesaggi, selvagge campagne olandesi e cieli rossi veneziani. La ricostruzione di luoghi e costumi, poi, è sorprendente: ed il magistero registico di Leigh riesce a farci, quasi, vedere tempi e luoghi come essi apparivano a Turner. Inutile dire della variegata compagine attoriale, che si produce in caratterizzazioni superbe: il cinema inglese, sotto questo aspetto, è irraggiungibile. Magari per il cineasta di Manchester, che con tanta efficacia ha saputo riprodurre squarci di contemporaneità (si pensi a "Segreti e bugie", o a "Tutto o niente"), spiace che indulga a lavori di sia pur finissima accademia: però, di film come questi ne vorremmo tanti. Segnatamente, di fronte alla povertà espressiva di tanta cinematografia indigena...
                                                                                                                                     Francesco Troiano

TURNER. REGIA: MIKE LEIGH. INTERPRETI: TIMOTHY SPALL, DOROTHY ATKINSON, MARION BAILEY. PAUL JESSON. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 150 MINUTI.

domenica 18 gennaio 2015

Il nome del figlio

Paolo, estroverso e cialtrone agente immobiliare di successo, si reca assieme alla moglie Simona, autrice di un best-seller licenzioso, ad una cena nella casa di Betta e Sandro. La prima è la sorella di Marco, ed ambedue sono rampolli di una famiglia di sinistra ed assai benestante. Paolo, professore universitario in virtù dell'aiuto dell'influente suocero, disprezza il cognato, che vota a destra e sbandiera con sicumera la propria ignoranza. Betta insegna alle superiori, si sacrifica per tutti da sempre, pare stanca e invecchiata. Infine c'è Claudio, eccentrico musicista e storico amico di famiglia. La serata si presenta similare a tante altre, ma Simona ha un bimbo in arrivo e Paolo annuncia che lo chiamerà Benito, in omaggio - lui dice - ad un personaggio di Melville...

Se la trama non v'è nuova, siete nel giusto. E' quella di "Cena tra amici" (2012), che i registi Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte hanno tratto da una loro pièce di speciale successo in patria: una sorta di variazione sui temi del teatro boulevardier degli equivoci, rispettosa dell'unità di tempo e luogo. La Archibugi ha deciso, dopo qualche riluttanza, di accettar di tornarci sopra un poco per interrompere il lungo silenzio professionale (l'ultimo suo film, "Questioni di cuore", risale al 2009), un poco al fine di contrastare una strisciante depressione che rischiava d'attanagliarla. Ha proceduto, la cineasta romana, nel miglior modo possibile: conservando la struttura del palcoscenico e lavorando sulla sceneggiatura di fino, a quattro mani con Francesco Piccolo. Ne ha cavato, in tal modo, un'opera personale, imparentata alla lontana con quella d'oltralpe, ma ben superiore nell'approfondimento dei caratteri e nella scioltezza del meccanismo narrativo.

E' ovvio che le ambizioni sue son quelle - pel tramite dei litigi e le rappacificazioni dei presenti, nel loro alternarsi di odio e amore degli uni per gli altri - di riprodurre in filigrana un ritratto del paese, dello stato delle cose. Ma questo ci pare l'aspetto più caduco dell'opera, che trova invece i propri atout nella vitalità che la percorre per intiero - la scena di gioiosa empatia che tutti affratella, sulle note di "Telefonami fra vent'anni" di Lucio Dalla, ne è l'esempio più pregnante - e in una magistrale direzione degli attori, mai visti tanto in palla. In particolare, Alessandro Gassmann ha la ghignante prosopopea di certi personaggi paterni, con l'aggiunta però di corrosivi elementi suoi; Papaleo, parso usurato in talune recenti prove, è un miracolo di misura e sottigliezza; finanche la Ramazzotti, che poteva andare sopra le righe, è guidata a meraviglia ad un esito convincente. Semmai, quel che difetta per fare de "Il nome del figlio" un erede degno della migliore commedia italiana, è la cattiveria propria di un Risi o, meglio, d'un Pietrangeli: qui, ciascuno si ama smisuratamente e si specchia, compiaciuto, finanche in mancanza di superfici riflettenti; e l'embrassons-nous finale suona a conferma. Poco male, il risultato è di prim'ordine, tuttavia un'ombra  di ferocia - insistiamo - avrebbe reso il tutto degno di memoria, invece che soltanto assai apprezzabile.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

IL NOME DEL FIGLIO. REGIA: FRANCESCA ARCHIBUGI. INTERPRETI: ALESSANDRO GASSMANN, VALERIA GOLINO, LUIGI LO CASCIO, ROCCO PAPALEO, MICAELA RAMAZZOTTI. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 94 MINUTI.

mercoledì 14 gennaio 2015

La teoria del tutto

Cambridge, 1963. Stephen Hawking, brillante laureando in Fisica appassionato di cosmologia ("una religione per atei intelligenti", la definisce), incontra Jane, che studia Lettere con specializzazione in francese e spagnolo. Si vedono per la prima volta ad una festa scolastica, e s'innamorano. E' l'inizio di un sentimento destinato a durare nel tempo, ma subito sottoposto ad una durissima prova: Stephen viene colpito da una grave malattia neurologica degenerativa, che gli lascia - a parere dei medici - non oltre due anni di vita. Comprensibilmente affranto, egli inizia a lasciarsi andare; ma non ha fatto i conti con la determinazione di Jane, che lo sostiene al punto da convincerlo a mettere su famiglia. Avranno due figli, a coronamento di una lunga, atipica, a tratti straziante, storia d'amore.

Non è la prima volta che la straordinaria vicenda, umana quanto professionale, di Stephen Hawking, l'astrofisico affetto da Sla e divenuto celebre per i suoi studi sui buchi neri, trova la via dello schermo: è già avvenuto in un tv movie del 2004, interpretato da Benedict Cumberbatch (che, per una singolare combinazione, quest'anno contenderà l'Oscar, con la sua formidabile personificazione del matematico Touring, proprio al grande amico Eddie Redmayne, qui protagonista). Dietro la macchina da presa, per l'occasione, c'è James Marsh, regista già premiato con l'Oscar per lo splendido documentario "Man on Wire". Diciamo subito che, nell'approccio al film, il pur dotatissimo cineasta opta per una narrazione mainstream che fa torto alla sua originalità d'autore: ne risulta una regia piatta, notarile, che sta sulle cose e si concentra sulla forza del rapporto fra Stephen e Jane, mettendo un po' fra parentesi l'aspetto accademico ed intellettuale della vita del nostro.
                                                                                                                                    
Intendiamoci, è comprensibile aver timore di fondare una pellicola sulla decadenza fisica di un uomo, sia pur contrapposta all'eccellenza intatta della sua mente: tuttavia, preferire un modulo narrativo così convenzionale, per raccontare un'esistenza fuori dal comune, non era la sola scelta possibile. D'altro canto, di certo Marsh si è reso immediatamente conto di poter contare su una coppia d'attori superbi: la strepitosa Felicity Jones, dolcezza e carattere, tenerezza e rigore; ed Eddie Redmayne, incredibile  tanto nell'incarnare la progressiva deriva fisica di Hawking che nel rendere, segnatamente pel tramite dello sguardo, quella dolcezza sofferta e ironica che ne ha fatto un'icona internazionale. Il desiderio di vivere malgrado tutto, di seguire un proprio tragitto a scapito delle tempeste della sorte, sta al centro del suo discorso finale ed è detto senza retorica, con l'orgoglio di chi ha dimostrato, giorno per giorno, con infinito coraggio, la credibilità delle proprie parole.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA TEORIA DEL TUTTO. REGIA: JAMES MARSH. INTERPRETI: EDDIE REDMAYNE, FELICITY JONES, CHARLIE COX, EMMA WATSON. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 123 MINUTI.

lunedì 12 gennaio 2015

Hungry Hearts

New York. Mina e Jude s'incontrano nella toilette di un ristorante cinese, dove rimangono chiusi per un capriccio della sorte. Ne scaturisce una relazione, suggellata dalla nascita di un bimbo, che li induce ad unirsi in matrimonio. Dal colloquio con una veggente, Mina trae il convincimento che il suo sarà un figlio particolare, necessitante di protezione da ogni impurità. Per nutrirlo, ella si serve soltanto degli ortaggi che ha iniziato a coltivare sul terrazzo di casa e per lungo tempo non lo fa uscire, per paura che veleni esterni possano contaminarlo. Tutte queste precauzioni finiscono per andare a detrimento di una sana crescita del piccolo. Dopo qualche incertezza, Jude decide di opporsi a dette scelte, facendo visitare il   figliolo di nascosto da un medico, che non può che testimoniare la gravità della situazione venutasi a creare. Mina, però, cede solo in apparenza alle richieste del coniuge, rendendo inevitabile il conflitto...

I film di Saverio Costanzo parlano spesso di amori ossessivi, della difficoltà di trovare un equilibrio tra la mente ed il corpo: si tratti dei palestinesi di "Private", dei seminaristi di "In memoria di me" o dei giovani de "La solitudine dei numeri primi", al centro del cinema del nostro pare campeggiare sempre, o quasi, una qualche forma di disagio, di malessere esistenziale. Non sfugge alla regola "Hungry Hearts", che - traendo ispirazione dal romanzo di Marco Franzoso "Il bambino indaco" - propone una riflessione sulla genitorialità nelle forme del thriller esistenziale, magari sulla scorta di esperienze personali ("Il libro di Franzoso mi ha colpito e anche respinto, ma continuava a tornarmi in mente... Sono un padre passato attraverso una separazione molto dolorosa: forse ho cominciato a scrivere questa sceneggiatura perché avevo bisogno di perdonare me stesso e guardare con più compassione i miei sbagli").

Precoce orfana di madre, un babbo col quale da moltissimo non ha più contatti, Mina porta dentro di sé le premesse per esser un cuore affamato, giusto come il titolo suggerisce. Non si rende però conto che il suo sentimento nei confronti del figlio appartiene alla categoria dell'impossessamento, nient'affatto a  quella dell'affettività: vederla agire fa venire in mente certe riflessioni del filosofo e sociologo Zygmunt Bauman, laddove egli ci indica come la nostra sia "un'epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore, e altrettanto fanno i figli. Questi ultimi vengono desiderati perché i genitori sperano arrecheranno quel tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, quanto si vuole  raffinato ed ingegnoso, è in grado di offrire".

Venendo alla struttura della pellicola, il passaggio fra i vari registri - dalla sophisticated comedy iniziale ad un accenno di sentimentale, passando per dei toni addirittura horror e chiudendo col melodramma - non è esente da stridori e sconnessioni, che fanno di "Hungry Hearts" un esperimento coraggioso più che un esito valido. La mancanza di sviluppi narrativi della vicenda non apporta aiuto, il coinvolgimento dello spettatore è frenato dalla misura del disagio costantemente cercata (con effetti, pure, di comicità involontaria, come nel discutibile incipit), lo scioglimento è tanto prevedibile quanto forzoso. Restano le eccellenti prove d'attore di Alba Rohrwacher e di Adam Driver, giustamente premiati entrambi all'ultima Mostra di Venezia: pure loro, tuttavia, a volte disorientati nel disegno di psicologie non sufficientemente delineate in sede di sceneggiatura.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

HUNGRY HEARTS. REGIA: SAVERIO COSTANZO. INTERPRETI: ADAM DRIVER, ALBA ROHRWACHER, ROBERTA MAXWELL. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 109 MINUTI.