lunedì 30 settembre 2013

Anni felici

1974, Roma. Guido è un giovane artista che, volendo inserirsi nel filone dell'avanguardia, vive nella convinzione di dover essere trasgressivo, scomodo. Sua moglie Serena lo ama; pure se capisce assai poco la sua arte, vuole stargli il più possibile vicino. La fanno molto soffrire i continui tradimenti del marito, che si sente come soffocato dal proprio ruolo: a tenerli uniti è una forte, reciproca attrazione erotica. Il ménage dei due, scandito da discussioni quando non furiosi litigi, trova spettatori obbligati nei due figlioletti, Dario - il più grandicello, dieci anni - e Paolo. L'insuccesso professionale di Guido, l'inquietudine esistenziale di Serena condurranno a nuovi sviluppi, fino a qualcosa che assomiglia ad una soluzione definitiva; Dario - che li filma con una cinepresa avuta in regalo, quasi a filtrar la forza delle emozioni che prova - otterrà l'attenzione che non riesce ad avere solo simulando un suicidio...

Avrebbe dovuto esser presentato a Cannes, poi era annunciato a Venezia, l'ultimo lavoro di Daniele Luchetti: infine, il regista romano ha preferito presentare "Anni felici" a Toronto. Dopo la visione, si capisce perché: si tratta di una pellicola assai peculiare che, sospesa com'è tra reale e autobiografico, può suscitare sentimenti contrastanti in chi vi assiste. Sì, perché quei genitori dolci e disastrati sono, trasfigurati nel ricordo, ispirati a quelli autentici della persona che siede dietro la macchina da presa. Cineasta di solito assai composto, pudico, lieve, qui il nostro si mostra sussultante, scabro, slabbrato nell'approccio alla materia: rischia, insomma, ma ci sembra di poter asserire che vince la scommessa.

Quel che meno persuade, diciamolo subito, è come gli anni '70 vengono resi: caratteristica, peraltro, di molto cinema italiano contemporaneo (era uno dei punti deboli, anche, del pur valido "La meglio gioventù" di Giordana). Magari era congenita a quel periodo, una certa goffaggine; fatto sta che nel film vi sono sequenze - quella della "azione artistica", ove il corpo nudo di Paolo viene ricoperto di vernice - che lasciano interdetti, fatta pure la tara all'ironia che probabilmente voleva esserci. Però il cuore del racconto, il rapporto intenso e burrascoso tra i due coniugi, è reso con una sincerità e una forza non comuni. Merito, per certo, della bravura degli interpreti (l'esito migliore è quello di una sempre più brava Micaela Ramazzotti, laddove Kim Rossi Stuart ha qualche sottolineatura grottesca
di troppo); ma, in primo luogo, di una regia attenta e sorvegliata. Che neppure rifugge l'autoironia: il Luchetti adulto che guarda se stesso bambino aver un primo successo pubblicitario è una piccola delizia, quasi la simbolizzazione dello spleen agrodolce del quale è intrisa per intiero la pellicola.
 
                                                                                                                                 Francesco Troiano

ANNI FELICI. REGIA: DANIELE LUCHETTI. INTERPRETI: KIM ROSSI STUART, MICAELA RAMAZZOTTI, MARTINA FRIEDERIKE GEDECK. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 100 MINUTI.


lunedì 23 settembre 2013

Lo sconosciuto del lago

In riva ad un lago, s'incontrano per prendere il sole dei gay: la spiaggia costituisce, per loro, un punto di ritrovo, circondata com'è da una boscaglia particolarmente adeguata a incontri sessuali. E' qui che, all'inizio dell'estate, il giovane Franck incontra Henri, un uomo di mezz'età da poco separatosi dalla moglie ed in cerca di tranquillità, di riposo. Fa, inoltre, la conoscenza di Michel, aitante nuotatore e amante assai ambito: se ne innamora da subito, ma - prima ancora d'iniziare una storia con lui - non fatica a comprendere che ha qualche cosa da nascondere. Frattanto, un cadavere emerge dal lago: con ogni probabilità, si tratta di un delitto maturato nel ristretto ambiente dei frequentatori del luogo. Un ispettore di polizia comincia ad indagare; e Franck è, ogni giorno di più, atterrito dagli avvenimenti...

"L'erotismo è la celebrazione della vita fino alla morte", sosteneva Bataille; ed è detta affermazione ad aver ispirato - per sua medesima ammissione - il regista Alain Guiraudie nel dirigere questo "Lo sconosciuto del lago". Se il genere è quello del thriller hitchcockiano, è l'approccio alla materia ad essere spiazzante. La narrazione varia di registro diverse volte, nel corso del proprio svolgimento: a toni quasi da commedia fanno seguito aperture drammatiche, sino ad una conclusione colorata dalla suspense. Fedele alla classica regola delle tre unità, il film si svolge con ritmi volutamente lenti, ha un andamento quasi ipnotico, lavora ai fianchi lo spettatore imbrogliando le piste e mescolando le carte.

Se l'identità dell'assassino viene svelata subito, quel che interessa al cineasta francese è, palesemente, studiare le dinamiche dei rapporti interpersonali dentro un ambiente circoscritto. Pur svolgendosi per intero en plein air, la pellicola veicola un senso crescente di acrofobia e, insieme, di claustrofobia: lo splendido scenario naturale diviene, poco a poco, un luogo chiuso, come se gli alberi fossero collegati da un invisibile filo spinato e l'acqua del lago potesse mutarsi in un'umida tomba. E' qua che si gioca la partita: dentro un circuito di abitudini che procedono dal parcheggiare sempre nello stesso spazio allo sdraiarsi ogni volta nel medesimo sito. Imprigionati da una ragnatela, i personaggi si avviano verso il proprio destino con un'immedesimazione che si fa via via più struggente. Alla fine, quando la luce del sole lascia il posto all'arrivo delle tenebre, gli ultimi bagliori d'un crepuscolo illuminano, fiocamente, le conseguenze del bisogno d'amore: e di disarmate, affrante solitudini.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LO SCONOSCIUTO DEL LAGO. REGIA: ALAIN GUIRAUDIE. INTERPRETI: PIERRE DELADONCHAMPS, CHRISTOPHE PAOU, PATRICK D'ASSUMCAO. DISTRIBUZIONE: TEODORA. DURATA: 97 MINUTI.

mercoledì 18 settembre 2013

The Grandmaster

Ip Man, nato da una famiglia benestante nel sud della Cina, a Foshan, dedica esistenza e passione alle arti marziali. La sanguinosa guerra cino-giapponese del 1931, che porta morte e rovina nelle province del nordest del paese, costringe alla fuga dalla Manciuria il grande maestro Gong Baesen. A Foshan, dove si rifugia, egli viene raggiunto dalla figlia Gong Er, depositaria della tecnica letale dei 64 palmi. L'incontro fra lei e Ip Man, destinato a segnare il percorso di entrambi, è il punto di partenza d'una serie di eventi che li terranno lontani per un lungo periodo, mentre la Storia procede con la cruenta occupazione giapponese del nordest. Gong Er e Ip Man si ritroveranno solo negli anni '50, a Hong Kong, in uno scenario profondamente mutato, all'insegna di vecchie alleanze, repentini tradimenti e risentimenti duri a morire...

Dopo aver parzialmente deluso le aspettative - segnatamente quelle della critica - con il suo esordio americano, "Un bacio romantico - My Blueberry Nights" (2004), Wong Kar-wai era molto atteso alla sua nuova prova indigena, "The Grandmaster". Nato da un'idea risalente addirittura al 1999, il film - partito per raccontare solo la vita di Ip Man, massimo esponente della tecnica Wing Chun oltre che maestro del leggendario Bruce Lee - si è pian piano dilatato ad un possente affresco storico, che si dipana su un arco temporale di decenni. Come di consueto, Wong Kar-wai usa il genere wuxiapian per soffermarsi su tematiche a lui care: l'amore quale rimpianto e memoria ("ho nostalgia di tutto, anche di ciò che non ho vissuto" potrebbe dire il regista, assieme a Pessoa), il sotterraneo desiderio
di farsi ricordare, la passione come impossibilità od irrealizzabilità.

La voglia di mostrare come le arti marziali non siano, necessariamente, sinonimo di violenza, bensì una filosofia di vita (che sottende rigore morale, oltre che abilità fisica e tattica), è il pensiero-guida della pellicola. Innovativo ed azzardato, come molti titoli del nostro, "The Grandmaster" coniuga al massimo livello ambizioni d'autore ed efficacia spettacolare: tra le sequenze di combattimento, tutte superbe, basti citare l'iniziale, sotto una pioggia apocalittica, e quella che vede Gong Er contrapporsi all'uomo che gli ha ucciso il padre. Quanto al romance, raggelato e straziante almeno quanto quello messo in scena nel mirabile "In The Mood For Love" (2000), viene rappresentato con la maestria e
la delicatezza che, da sempre, il cineasta di Shanghai possiede: siamo dalle parti di "C'era una volta in America" (1984), non a caso apertamente citato col tema musicale di Morricone, fra struggimento ed orgoglio. E noi spettatori di qualunque età lì, col ciglio inumidito, sperduti ancora una volta nella magia chiamata cinema.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

THE GRANDMASTER. REGIA: WONG KAR-WAI. INTERPRETI: TONY LEUNG, CHEN CHANG, ZIYI ZHANG, SONG HYE-KIO, BENSHAN ZHAO. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 123 MINUTI.

martedì 17 settembre 2013

Rush

Può parer curioso, data la sua spettacolarità, ma sul grande schermo la Formula 1 di rado ha prodotto risultati interessanti. Il film forse più famoso sull'argomento, "Grand Prix"(1966) di John Frankenheimer, si ricorda soprattutto per l'uso innovativo dello split-screen, per gli effetti speciali e sonori (giustamente premiati con l'Oscar), per le ben realizzate sequenze delle gare: però, le vicende personali dei protagonisti soggiacciono all'uso di stereotipi e danno al tutto il sapore d'una soap opera pantografata (quasi tre ore, la durata). Peggio ancora "Le 24 ore di Le Mans" (1971) di Lee H.Katzin, fortemente voluto da Steve McQueen ma banale e noioso, finanche come documentario. Alla fine, la più bella pellicola sull'argomento resta "Indianapolis pista infernale" (1969) di James Goldstone, che è tuttavia - nelle forme del melodramma - in primis la notomizzazione del problematico rapporto fra due coniugi (grandi, le prove di Paul Newman e di Joanne Woodward): alle corse vengono riservati solamente gli ultimi venti minuti, peraltro appassionanti.

Il rombo dei motori, lo stridio delle ruote sull'asfalto, insomma, si sono negli anni rivelati difficili da maneggiare, per cineasti anche talentuosi. C'era, perciò, molta attesa per "Rush" (alla lettera, "corsa precipitosa", ma anche "fretta", "eccitazione"), ove viene ricostruita minuziosamente la storia della rivalità fra due piloti, James Hunt  - morto d'infarto nel 1993 - e Niki Lauda, oggi sessantaquattrenne: si va dagli esordi in Formula 3 sino ai campionati del mondo di Formula 1, che li videro vincitori nelle stagioni 1975 (Lauda) e 1976 (Hunt). In quest'ultima annata, il primo rischiò di perire in un incidente dal quale uscì orribilmente ustionato: solo un mese dopo, col volto ancora sfigurato, risalì in macchina per cercar d'impedire al suo rivale di raggiungerlo in testa alla classifica (alla fine, quest'ultimo lo sorpassò di un punto).

Se regista vi era, sulla carta, adatto a una simile impresa, questi era Ron Howard, mostratosi - nel corso d'una carriera versatile come poche altre - abile a mettere in scena "la ricerca eroica d'un equilibrio nei limiti e nelle sconfitte inevitabili" (G.Manzoli). Forse memore del clima della New Hollywood nel quale egli è cresciuto come autore (e della lezione del suo antico mentore, Roger Corman), l'ex Richie di "Happy Days" licenzia un'opera fiammeggiante e survoltata: lo scontro di personalità fra i due piloti - l'effervescente inglese amante degli eccessi in corsa e nella vita, il raziocinante austriaco tutto disciplina e metodo - è reso con un'efficacia dai toni hawksiani nella sottolineatura del reciproco rispetto. Gli anni '70 rivivono coi colori e il sentimento del tempo, l'adrenalina scorre a fiumi laddove di scena sono le vetture (dalla Hesketh alla Ferrari): ma pure il racconto delle vite dei due personaggi ha un timbro che suona veritiero, si tratti degli eccessi alcolici e sessuali di Hunt o della drammatica degenza in ospedale di Lauda. E Chris Hemsworth è tanto bravo a rendere il vitalismo un poco angosciante dell'uno, quanto Daniel Bruhl la ticchettante metodicità dell'altro.
                                                                                                                                Francesco Troiano

RUSH. REGIA: RON HOWARD. INTERPRETI: CHRIS HEMSWORTH, DANIEL BRUHL, OLIVIA WILDE, PIERFRANCESCO FAVINO, NATALIE DORMER. DISTRIBUZIONE: 01.
DURATA: 123 MINUTI.


domenica 1 settembre 2013

The spirit of '45

"La Seconda Guerra Mondiale è stata una lotta, forse la più importante lotta collettiva che la Gran Bretagna abbia mai vissuto. Mentre altri popoli, come ad esempio quello russo, compivano sacrifici più grandi, la determinazione a costruire un mondo migliore era fortemente sentita nel Regno Unito come in tutti gli altri paesi. Eravamo tutti decisi a non permettere mai più che le nostre vite venissero sfregiate da povertà e disoccupazione, e dall'ascesa del fascismo... L'idea centrale era la condivisione della proprietà, in modo che ognuno potesse trarre beneficio dalla produzione e dai servizi. Nessuna élite si sarebbe arricchita a discapito di tutti gli altri. Era un'idea nobile, popolare ed acclamata dalla maggioranza della popolazione. Era lo spirito del '45. Forse, oggi, è il momento di ricordarsene".

Non c'è modo migliore, più intenso o più appassionato, di descrivere "The spirit of '45", il bellissimo documentario che - utilizzando filmati tratti dagli archivi regionali e nazionali, registrazioni sonore e interviste dell'epoca - alla propria patria alle prese con la ricostruzione del dopoguerra ha dedicato l'ultimo cineasta marxista, Ken Loach. "Lo stato sociale britannico è un'occasione persa o un progetto che può ancora essere completato?", egli si domanda. Lo fa dopo aver ricostruito con cura gli eventi di quegli anni, a iniziar da quel 1945 che vide il partito laburista ottenere la maggioranza assoluta alla camera dei Comuni. Ne nasceva un governo guidato da Clement Attlee, fondato sopra una politica di nazionalizzazioni industriali e di tutele per i lavoratori: il Welfare inglese, insomma, realizzato in un clima di concordia sociale destinato a venir sabotato solo nel 1979, con l'ascesa di Maggie Thatcher.

Ed è quasi commovente vedere il regista di tante pellicole celebrate dalla critica e premiate in tutti i più importanti festival di cinema, ritornare con umiltà alle proprie origini di cineasta, a quei lavori televisivi per la BBC che lo fecero conoscere in un ambito più ampio (citiamo solo "Cathy Come Home", del '65, sui problemi dei senzatetto; e, un decennio più tardi, "Days of Hope", un dramma in quattro parti sullo sciopero generale del 1926). L'interesse del nostro va, da mezzo secolo, nella stessa direzione, e sempre quelle sono le figure della Storia che gli stanno a cuore: i proletari, le donne, i giovani, gli emarginati, costantemente al centro delle sue vicende di ordinario dolore, con un mix di tenerezza e di rabbia oramai divenuto inconfondibile cifra stilistica. Lunga vita a Ken il Rosso.

THE SPIRIT OF '45. REGIA: KEN LOACH. CON WINSTON CHURCHILL, TONY BENN, CLEMENT ATTLEE. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 94 MINUTI.