mercoledì 20 gennaio 2016

Il figlio di Saul

Ottobre 1944. Nel lager di Auschwitz-Birkenau, mentre alleati da occidente e russi da oriente stanno per invadere la Germania, c'è parecchia concitazione: il lavoro per eliminare subito quanti più "pezzi" possibile (così erano chiamati, in quella orrida fabbrica della morte, gli umani) procede senza soste, diviene addirittura frenetico, dato che migliaia d'infelici giungono di continuo, sia da altri campi sia dai ghetti. Saul Ausländer è un ebreo ungherese reclutato nei Sonderkommando, prigionieri organizzati 
e guidati da feroci kapò che avevano il compito di spingere la folla, terrorizzata e nuda, nelle camere a gas: ai condannati si diceva che avrebbero fatto la "doccia", che dopo avrebbero avuto "una zuppa calda". Dopo aver veduto lo sterminio della propria gente, a loro spettava il compito di cremare i corpi. Facendo il proprio lavoro d'automa disumanizzato, Saul s'imbatte in un cadavere che ritiene essere quello di suo figlio: da qui nasce una ossessione, un personale modo di compiere un gesto di riscatto. Ogni suo sforzo è teso a salvare il morto dalla cremazione, per avvolgerlo nudo in un lenzuolo bianco e  dargli sepoltura nella terra. Tutto avviene mentre si prepara una rivolta armata (che purtroppo fallirà), l'unica mai tentata ad Auschwitz: 250 internati periti in combattimento, 200 fucilati...

Jacques Rivette sosteneva, non a torto, che il destino delle pellicole incentrate sulla Shoah è quello di essere discusse, il rischio quello di venire contestate. Esistono almeno due articoli ("De l'abjection" di Jacques Rivette e "Le travelling de Kapo" di Serge Daney) a testimoniare la veridicità della tesi: per non dire di Claude Lanzmann, autore nell'85 del memorabile "Shoah" - l'agghiacciante documentario di racconti dei sopravvissuti - che molto criticò all'epoca della sua uscita il pluripremiato "Schindler's List" (1993) di Spielberg, ritenendo impossibile e degradante trasformare l'Olocausto in fiction spettacolare. Ebbene, proprio l'adesso novantenne Lanzmann si è espresso, invece, positivamente nei confronti di questo "Il figlio di Saul" (Gran Premio della giuria a Cannes), per l'intensità e per il rispetto della verità che, a suo dire, lo renderebbero diverso da tutti gli altri film sull'argomento.

László Nemes, regista ungherese al proprio debutto, adotta uno sguardo assai peculiare per mettere in scena il macabro "dietro le quinte" dei campi di sterminio. Sceglie l'inconsueto formato 4:3 quasi a voler "stringere" i personaggi nell'inquadratura: evita di mostrare l'atrocità della morte, preferisce tenere la macchina da presa incollata al volto ed alla nuca del protagonista, tagliando fuori tutto quanto gli sta attorno. Una scelta morale, di rigore etico, che consente di concentrarsi sul reale tema del racconto: preservare l'integrità e la sacralità del corpo d'un ragazzino defunto, ristabilire quali siano i valori veri tramite un gesto all'apparenza "piccolo", ma in un simile contesto di portata rivoluzionaria. Dalla Babele concentrazionaria, così, Saul emerge: pur perduto a se stesso, non ha ancora perso tutto. Circondato da un costante frastuono fatto di rumori incomprensibili, di grida indecifrabili, di ordini scanditi da voci gutturali, egli procede come in preda ad una autoipnosi: nulla lo tocca più, solo il pensiero della pietosa missione che si è dato lo guida. Film da ascoltare più che da vedere, "Il figlio di Saul" è diretto con una maestria che davvero sembra impossibile per un'opera prima. E il volto di Geza Rohrig (nella vita, un poeta e scrittore ungherese che vive a New York), il suo sguardo duro e vuoto, ci partecipa l'umanità e la disperazione che la cinepresa non potrebbe altrimenti restituire. 
                                                                                                                                     Francesco Troiano

IL FIGLIO DI SAUL. REGIA: LASZLO NEMES. INTERPRETI: GEZA ROHRIG, LEVENTE MOLNAR, URS RECHN, TODD CHARMONT. DISTRIBUZIONE: TEODORA FILM. DURATA: 107 MINUTI.

Nessun commento:

Posta un commento