martedì 2 settembre 2014

Il giovane favoloso

E' oramai tanto tempo - dall'epoca, almeno, della stesura di "Noi credevamo", assieme a Giancarlo De Cataldo - che Mario Martone appare pressoché immerso in libri, documenti, ambienti, palazzi, sculture e pitture riconducibili all'Ottocento nostrano. Di pari passo, il suo iter artistico ha figliato una superba riduzione teatrale delle "Operette morali" e, ora, questo "Il giovane favoloso". Che, diciamolo subito, si pone come l'ascesa più ardue fra tutte: il muoversi in modo sciolto fra Garibaldi e Mazzini, Crispi e Poerio, proprio della fatica cinematografica precedente, impallidisce a fronte del cimento di dar forma visiva all'opera d'uno tra i maggiori poeti nella tradizione indigena, Giacomo Leopardi.

Il perché è facilmente intuibile da chiunque, ragazzo, si sia accostato per obblighi scolastici alla figura del grande recanatese: in particolare, la breve vita infelice del nostro era sintetizzata in poche righe, al più una scarna paginetta, preferendosi lasciar posto alle tanto più eloquenti sue fatiche letterarie. Ecco, quanto azzardosa sia l'impresa del regista romano testimonia il fatto ch'egli - scartando da subito la via della cinebiografia più o meno ortodossa - abbia vieppiù scarnificato la magra materia, soffermandosi su due momenti dell'esistenza leopardiana: la prima giovinezza a Recanati e, poi, la fuga per Firenze che, facendo tappa a Roma, lo porterà all'approdo definitivo di Napoli. Ove si spegne, nel 1837, appena trentanovenne.

Martone individua, dentro detto percorso, alcune figure cardine. Innanzitutto quella del padre Monaldo, ritratto in modo antitradizionale come un genitore innamorato, e finanche geloso, del figliolo e del suo talento, ma non dispotico né feroce come ci viene tramandato. Ancora, Pietro Giordani: intellettuale di matrice liberale, che si reca addirittura nel "borgo natio" per prestar omaggio al talento precocissimo ed immenso del poeta. Infine, Antonio Ranieri, l'amico fedele di sette anni, sino alla morte dello sfortunato sodale. Non ultima un'epoca, quel diciannovesimo secolo abitato da una borghesia ipocrita e indolente, da classi dirigenti pedestri e corrotte, da un popolo asservito e primitivo: e non v'è chi non veda quante affinità possano scorgersi con un oggi che pare infinito prolungamento del passato.

Il nocciolo, tuttavia, della scommessa, risiede nell'ambizione di tradurre in immagini i versi magnifici. Così "L'infinito", scandito in uno scenario che può aver favorito invero l'elaborazione del testo, e poco d'altro, a seguire: "La sera del dì di festa", una citazione del "Dialogo tra un venditore di almanacchi e un passegere" e la materializzazione di Silvia, fonte primaria d'ispirazione. Sopra a tutto, "La ginestra", mentre il protagonista è agli ultimi, ravvicinato ai lapilli vesuviani ed assediato dall'irruzione del colera. La possibilità del retorico, del prevedibile, del bigino letto ad alta voce sta lì; ma vi è un attore eccelso, Elio Germano, a render credibile - e commovente - ogni cosa. Sfidando le secche del caricaturale nel rinsecchirsi e ingobbirsi del corpo, questo mirabile interprete fa del proprio personaggio l'anima ribelle che fu, mai indulgendo all'autocommiserazione, al pietismo. Nella sua raffigurazione, Giacomo diviene davvero ciò che il titolo descrive: uno spirito compresso in un corpo fragile e stortignaccolo, che riesce a eluder la propria condizione fisica pel tramite dell'ironia, l'intelligenza, l'anticonformismo, e un talento incommensurabile. Non c'è premio, neanche il più alto, che possa dar riconoscimento bastevole ad una simile prova di recitazione.

IL GIOVANE FAVOLOSO. REGIA: MARIO MARTONE. INTERPRETI: ELIO GERMANO, MICHELE RIONDINO, MASSIMO POPOLIZIO, ANNA MOUGLALIS, VALERIO BINASCO, ISABELLA RAGONESE. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 135 MINUTI.

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