L'esistenza a Beecham House, residenza per cantanti lirici e musicisti in pensione, scorrerebbe quieta e serena, se in amministrazione non si dovesse combattere per far quadrare il bilancio: malgrado gli sforzi della dottoressa Cogan, il rischio di dover mollare si fa di giorno in giorno più concreto. Ad eccitar gli animi giunge, dipoi, la notizia che una nota diva del passato sta per aggiungersi al numero degli ospiti: si tratta di Jean Horton, un tempo sposa di Reggie Paget, col quale aveva - assieme a Wilfred Bond ed a Cecily Robson - dato vita ad un prestigioso quartetto canoro. Il pezzo forte del loro repertorio d'allora era il "Rigoletto": una riproposizione del cavallo di battaglia, in occasione del gala annuale, potrebbe rimpinguare le casse dell'istituto ed allontanare lo spettro della chiusura. Ma antiche ferite mai sanate, gelosie professionali, ripicche, invidie, scatti d'ira minano l'anelata rentrée: riusciranno i componenti ad anteporre l'interesse comune ai propri privati dissidi e alle diversità di carattere?
Di pellicole sulla vecchiaia ce ne sono parecchie, tante da rendere auspicabili ormai delle tesi di laurea sull'argomento (ci risulta, peraltro, che più di qualcheduno ci abbia già pensato). Da classici quali "Luci della ribalta" (1952) e "Il posto delle fragole" (1957) a chicche come "Harold e Maude" (1971) e "I ragazzi irresistibili" (1975), da gemme del cinema d'essai ("Providence", 1977; o il recentissimo "Amour") alle splendide variazioni eastwoodiane ("Million Dollar Baby", 2004; "Gran Torino", 2008), "l'età della pace" - l'espressione, desunta da una lettera di Sigmund Freud, è pure il titolo di un bel film sul tema, diretto nel 1974 da Fabio Carpi - ha trovato sul grande schermo raffigurazioni interessanti e alle volte peculiari (un esempio: "Vivere alla grande", firmato nel 1979 da Martin Brest, dove tre pensionati del Queens decidono di rapinare una banca di Manhattan).
In verità, si muove nel solco dell'ortodossia Dustin Hoffman, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, a settantancinque anni. Sulla difficoltà ad invecchiare delle ex-star conosciamo tutto fin dall'epoca di "Viale del tramonto" (1950), laddove le piccole crudeltà del periodo senile stavano nascoste dentro le pieghe de "Le balene d'agosto" (1987). Ma il nostro non desidera stupire, né dir cose inedite: preferisce, invece, adattare in celluloide una commedia inglese, giocando su un registro delicato, ironico, elegante. Se il nume dell'amico Pacino, insomma, è Shakespeare, il suo è indiscutibilmente Cechov: tra sontuosi interni ed impeccabili vestiti, passeggiate nella quiete campestre e piccole baruffe, il tono perseguito sta sospeso tra allegrezza e scoramento, giusto il blend dello scrittore russo. Nei limiti d'uno svolgimento a tratti lievemente stucchevole, l'intendimento può dirsi riuscito: grazie, pure, a un cast perfetto, nel quale primeggia - come d'uso - l'incantevole Maggie Smith.
Francesco Troiano
QUARTET. REGIA: DUSTIN HOFFMAN. INTERPRETI: MAGGIE SMITH, TOM COURTENAY, PAULINE COLLINS, BILLY CONNOLLY, MICHAEL GAMBON. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 98 MINUTI.
giovedì 24 gennaio 2013
lunedì 14 gennaio 2013
Flight
Alla guida di un jet partito dalla Florida, in una tranquilla mattina di metà autunno, il comandante Whip Whitaker s'appresta a vivere una giornata che immagina eguale a tante altre. Ben presto, tuttavia, egli s'imbatte in una turbolenza forte ed imprevista: dipoi, un succedersi di guasti meccanici ai quali risulta impossibile rimediare, porta l'aereo a spirale verso il basso e fuori dal controllo di chi lo conduce. A questo punto, Whip decide una manovra azzardata e ardimentosa: gira completamente il mezzo - allo scopo di farlo planare senza i motori - per poi raddrizzarlo e tentar di atterrare nel migliore dei modi. Il tutto riesce quasi perfettamente, se è vero che egli salva 96 tra le 102 persone presenti a bordo: per l'impresa, viene acclamato come un eroe. Nel corso delle indagini successive, tuttavia, nel suo sangue sono riscontrate tracce di alcool e cocaina: ciò pone il nostro in una posizione delicata, pur se egli può rivendicare che il suo stato non gli abbia impedito di fornire una prestazione d'eccellenza. Assistito da un avvocato schietto e scaltro, Hugh Lang, oltre che dal suo amico e rappresentante sindacale Charlie Anderson, Whit arriva allo snodo cruciale: prestare una testimonianza che può salvarlo, a patto di non rispettar la memoria d'una donna scomparsa e a lui cara...
Il cinema hollywoodiano ha più volte affrontato il tema della dipendenza etilica e delle conseguenze che ne derivano, sia attraverso classici quali "Giorni perduti" (1945) e "I giorni del vino e delle rose" (1962) sia tramite riuscite minori come "Amarsi" (1994) o "Via da Las Vegas" (1995). Robert Zemeckis, al suo primo film live dopo 12 anni dedicati all'animazione, sceglie un approccio particolare al tema: "Flight" è infatti, in primo luogo, una riuscita mescolanza di generi, dal disaster movie al thriller psicologico. Qui, il regista contemporaneo "che più di ogni altro ha usato gli effetti speciali in maniera drammatica e narrativa" (David Thomson), si limita ad adoprarli da par suo nella sequenza dell'incidente aereo, forse la più realistica e coinvolgente mai girata: dipoi, si affida ad un racconto lineare e classico, in ciò sostenuto dalla magistrale prova recitativa di Denzel Washington.
Il quesito al centro del film è se l'etica - ancor più, ci pare, del mero rispetto della legge - sia qualcosa con la quale si può giungere a patti, senza tener conto degli esiti specifici del nostro comportamento. Ovviamente la risposta è no, ma risulta interessante la strada intrapresa dal regista - e dal suo ottimo sceneggiatore, John Gatins - per giungere allo scioglimento. La parabola di Whip, infatti, rispecchia l'iter dell' "umano-spoglia-rinnova" proprio delle sacre rappresentazioni: diamo all'uomo la facoltà di scegliere, ci capiterà magari d'assistere al miracolo di una decisione positiva ottenuta senza coartazioni di sorta. Questo schema d'ispirazione cristiana, da mistero medievale, s'inserisce con bella fluidità nella narrazione: il risultato è un film vigoroso e coinvolgente, asciutto e trascinante, sin d'ora ascrivibile ai risultati più convincenti del cineasta chicagoano.
Francesco Troiano
Il cinema hollywoodiano ha più volte affrontato il tema della dipendenza etilica e delle conseguenze che ne derivano, sia attraverso classici quali "Giorni perduti" (1945) e "I giorni del vino e delle rose" (1962) sia tramite riuscite minori come "Amarsi" (1994) o "Via da Las Vegas" (1995). Robert Zemeckis, al suo primo film live dopo 12 anni dedicati all'animazione, sceglie un approccio particolare al tema: "Flight" è infatti, in primo luogo, una riuscita mescolanza di generi, dal disaster movie al thriller psicologico. Qui, il regista contemporaneo "che più di ogni altro ha usato gli effetti speciali in maniera drammatica e narrativa" (David Thomson), si limita ad adoprarli da par suo nella sequenza dell'incidente aereo, forse la più realistica e coinvolgente mai girata: dipoi, si affida ad un racconto lineare e classico, in ciò sostenuto dalla magistrale prova recitativa di Denzel Washington.
Il quesito al centro del film è se l'etica - ancor più, ci pare, del mero rispetto della legge - sia qualcosa con la quale si può giungere a patti, senza tener conto degli esiti specifici del nostro comportamento. Ovviamente la risposta è no, ma risulta interessante la strada intrapresa dal regista - e dal suo ottimo sceneggiatore, John Gatins - per giungere allo scioglimento. La parabola di Whip, infatti, rispecchia l'iter dell' "umano-spoglia-rinnova" proprio delle sacre rappresentazioni: diamo all'uomo la facoltà di scegliere, ci capiterà magari d'assistere al miracolo di una decisione positiva ottenuta senza coartazioni di sorta. Questo schema d'ispirazione cristiana, da mistero medievale, s'inserisce con bella fluidità nella narrazione: il risultato è un film vigoroso e coinvolgente, asciutto e trascinante, sin d'ora ascrivibile ai risultati più convincenti del cineasta chicagoano.
Francesco Troiano
lunedì 31 dicembre 2012
La migliore offerta
Colto, solitario, Virgil Oldman esercita con speciale cura, con zelo maniacale la propria professione di antiquario: nella sua vita metodica, asettica, le emozioni paiono non aver posto alcuno. Fino a che, nel giorno del suo sessantaquattresimo compleanno, egli riceve la chiamata di una ragazza che lo incarica d'occuparsi della dismissione d'alcune opere d'arte di famiglia. Con vari pretesti, ella rifiuta di palesarsi sia all'appuntamento per il primo sopralluogo, sia nella fase d'inventario dei pezzi, e nelle successive di trasporto e restauro. Più volte tentato di chiamarsi fuori da una vicenda diventata solamente un fastidio, Virgil viene ogni volta dissuaso dalle preghiere della giovane donna, che gli dice di soffrire d'acrofobia. Pian piano, le ossessioni di Claire - questo il nome della misteriosa cliente - finiscono per avvilupparlo, assumendo le forme d'una passione senile, tanto intensa quanto proporzionata all'interminabile silenzio amoroso che ne è stato pronubo. Seguendo i consigli del suo unico amico Robert, un abile restauratore di congegni meccanici d'epoca, Virgil cerca di orientarsi nei meandri a lui ignoti dell'animo femminile...
Sia che egli percorra i sentieri della memoria ("Nuovo Cinema Paradiso" e "Baaria": a pensarci, gli esiti suoi più alti), sia che si avventuri nel cinema d'autore di taglio "europeo"(per far solo un esempio, "La sconosciuta"), Tornatore riconferma la propria "spiccata padronanza del mezzo espressivo, la naturale potenza visiva nella concezione e nella composizione della scena" (P. D'Agostini). I risultati, tuttavia, sovente lasciano a desiderare (i titoli più convincenti li abbiamo citati; vi aggiungeremmo l'esordio de "Il camorrista", incursione nella cinematografia di genere survoltata, sanguigna quanto stilisticamente barocca): qui in particolare, con "La migliore offerta", il cineasta di Bagheria torna a un terreno quanto mai accidentato e scivoloso, quello della metafora in forma di racconto, che già ha dimostrato di non saper padroneggiare appieno in "Una pura formalità". A detta pellicola, la recente è accomunata dalla estrema levigatezza formale che a momenti si fa accademia, da una gentilezza del tocco che asciuga le emozioni: alla fine, il rarefare conduce a incappar in uno scioglimento che ha il sapore d'un infortunio.
La prima parte del film, d'attesa e preparazione, possiede a momenti la suggestione figliata da un sentor di soprannaturale (vengono in mente, in letteratura, l'Arpino di "Anima persa" o il Milani di "Fantasma d'amore", entrambi portati sullo schermo da Dino Risi, con ben altra pregnanza): dipoi, mano a mano che le spiegazioni divengono necessarie, che si rende obbligatorio dare corpo alle ombre, "La migliore offerta" si sfarina, sfiorisce. "Giallo senza moventi, dramma senza pathos, thriller senza suspense": il giudizio implacabile di Goffredo Fofi proprio su "Una pura formalità" s'attaglia, purtroppo, in eguale misura a quest'ultima fatica del nostro.
Francesco Troiano
Sia che egli percorra i sentieri della memoria ("Nuovo Cinema Paradiso" e "Baaria": a pensarci, gli esiti suoi più alti), sia che si avventuri nel cinema d'autore di taglio "europeo"(per far solo un esempio, "La sconosciuta"), Tornatore riconferma la propria "spiccata padronanza del mezzo espressivo, la naturale potenza visiva nella concezione e nella composizione della scena" (P. D'Agostini). I risultati, tuttavia, sovente lasciano a desiderare (i titoli più convincenti li abbiamo citati; vi aggiungeremmo l'esordio de "Il camorrista", incursione nella cinematografia di genere survoltata, sanguigna quanto stilisticamente barocca): qui in particolare, con "La migliore offerta", il cineasta di Bagheria torna a un terreno quanto mai accidentato e scivoloso, quello della metafora in forma di racconto, che già ha dimostrato di non saper padroneggiare appieno in "Una pura formalità". A detta pellicola, la recente è accomunata dalla estrema levigatezza formale che a momenti si fa accademia, da una gentilezza del tocco che asciuga le emozioni: alla fine, il rarefare conduce a incappar in uno scioglimento che ha il sapore d'un infortunio.
La prima parte del film, d'attesa e preparazione, possiede a momenti la suggestione figliata da un sentor di soprannaturale (vengono in mente, in letteratura, l'Arpino di "Anima persa" o il Milani di "Fantasma d'amore", entrambi portati sullo schermo da Dino Risi, con ben altra pregnanza): dipoi, mano a mano che le spiegazioni divengono necessarie, che si rende obbligatorio dare corpo alle ombre, "La migliore offerta" si sfarina, sfiorisce. "Giallo senza moventi, dramma senza pathos, thriller senza suspense": il giudizio implacabile di Goffredo Fofi proprio su "Una pura formalità" s'attaglia, purtroppo, in eguale misura a quest'ultima fatica del nostro.
Francesco Troiano
mercoledì 26 dicembre 2012
Jack Reacher - La prova decisiva
In una cittadina americana, nel corso di una tranquilla giornata, un cecchino fa fuoco tra la gente ed ammazza cinque persone, prive di apparenti legami. Poiché lascia dietro di sé tracce evidenti, è facile risalire ad un ex-militare, già tiratore di precisione e resosi responsabile d'un episodio consimile, anni prima. Arrestato, nel corso di un serrato interrogatorio egli non fa alcuna ammissione, tranne una poco intelligibile richiesta, scarabocchiata su un bloc-notes: trovate Jack Reacher. La cosa, tuttavia, si rivela nient'affatto semplice: tanto per cominciare non si sa se l'uomo, un ex-investigatore militare, sia ancora in vita. Proprio quando pare che sia impossibile risalire a lui, egli si presenta spontaneamente in procura. Nel frattempo, vittima di un feroce pestaggio patito durante un trasferimento, l'accusato è finito in coma. Pungolato dall'avvocato difensore di quest'ultimo, la combattiva Helen Rodin, Reacher accetta di essere ingaggiato come investigatore. Non accontentandosi delle risultanze dell'analisi della scena del crimine, in breve individua una pista che lo porta a una misteriosa e spietata organizzazione, capitanata da una figura indecifrabile...
Fu Dashiell Hammett - per usare le parole di Raymond Chandler - a restituire "l'assassinio a persone che lo commettono per delle ragioni, non per fornire un cadavere". Si può dire che il noir moderno sia nato proprio dalle pagine dei due scrittori sopra citati: i loro investigatori privati si muovevano dentro mondi credibili, in situazioni assai concrete nelle motivazioni e nei fatti. Intrisi, comunque, di una sorta di romanticismo di ritorno, anche Sam Spade e Philip Marlowe, a un certo punto, furono considerati anacronistici: a rincarar le dosi di sesso e violenza, ad aggiungere un cinismo autentico alla figura del protagonista doveva arrivare Mickey Spillane, col suo Mike Hammer. Da allora, numerosi sono stati i private eye sopra le righe o fuori dai ranghi chiamati a far luce su eventi delittuosi: tra di essi, spicca il Jack Reacher creato nel 1997 da Lee Child (già regista per la televisione britannica, nel corso di quasi un ventennio), con "Zona pericolosa". Da subito bene accolto dai lettori, il personaggio ha fatto ritorno in ben 17 romanzi, venduti nel mondo in oltre 60 milioni di copie.
Ci sono voluti sette anni per trasporre sul grande schermo codesto atipico eroe: alla fine, ci è riuscito Christopher McQuarrie, che firma la sceneggiatura oltre alla regia di questo "Jack Reacher - La prova decisiva". Ispirato al nono libro della serie, il film introduce abilmente il personaggio in medias res, in una situazione che egli solo sembra capace di sbrogliare. I tratti originari della pagina scritta, quelli d'un Robin Hood contemporaneo, son stati messi in rilievo: naturalmente, il nostro persegue sempre il trionfo della giustizia, però va rudemente per le spicce in alcune situazioni, e la propensione a sostituirsi alla legge comminando pene ai criminali è vista con un'indulgenza forse eccessiva (in epoche diverse e più ideologizzate, si sarebbe parlato di coloriture reazionarie). Ciò precisato, lo spettacolo c'è tutto: non mancano spericolate sequenze d'inseguimenti automobilistici, combattimenti a mani nude, vertiginosi salvataggi all'ultimo secondo. Poco o nulla ricorrendo ad effetti speciali, la pellicola ha una gradevole patina anni '70: il plot è robusto, i dialoghi funzionano a sufficienza, la suspense tiene fino alla fine. Il cast - come d'uso in prodotti hollywoodiani di livello - risulta adeguato: ma non si può non sottolineare che a Tom Cruise difetta il carisma da protagonista che, in altre epoche, possedevano Paul Newman o Clint Eastwood; e che Rosamund Pike - nei panni della legale - inalbera un'aria di cotal stupefazione da lasciare perplessi.
Francesco Troiano
Fu Dashiell Hammett - per usare le parole di Raymond Chandler - a restituire "l'assassinio a persone che lo commettono per delle ragioni, non per fornire un cadavere". Si può dire che il noir moderno sia nato proprio dalle pagine dei due scrittori sopra citati: i loro investigatori privati si muovevano dentro mondi credibili, in situazioni assai concrete nelle motivazioni e nei fatti. Intrisi, comunque, di una sorta di romanticismo di ritorno, anche Sam Spade e Philip Marlowe, a un certo punto, furono considerati anacronistici: a rincarar le dosi di sesso e violenza, ad aggiungere un cinismo autentico alla figura del protagonista doveva arrivare Mickey Spillane, col suo Mike Hammer. Da allora, numerosi sono stati i private eye sopra le righe o fuori dai ranghi chiamati a far luce su eventi delittuosi: tra di essi, spicca il Jack Reacher creato nel 1997 da Lee Child (già regista per la televisione britannica, nel corso di quasi un ventennio), con "Zona pericolosa". Da subito bene accolto dai lettori, il personaggio ha fatto ritorno in ben 17 romanzi, venduti nel mondo in oltre 60 milioni di copie.
Ci sono voluti sette anni per trasporre sul grande schermo codesto atipico eroe: alla fine, ci è riuscito Christopher McQuarrie, che firma la sceneggiatura oltre alla regia di questo "Jack Reacher - La prova decisiva". Ispirato al nono libro della serie, il film introduce abilmente il personaggio in medias res, in una situazione che egli solo sembra capace di sbrogliare. I tratti originari della pagina scritta, quelli d'un Robin Hood contemporaneo, son stati messi in rilievo: naturalmente, il nostro persegue sempre il trionfo della giustizia, però va rudemente per le spicce in alcune situazioni, e la propensione a sostituirsi alla legge comminando pene ai criminali è vista con un'indulgenza forse eccessiva (in epoche diverse e più ideologizzate, si sarebbe parlato di coloriture reazionarie). Ciò precisato, lo spettacolo c'è tutto: non mancano spericolate sequenze d'inseguimenti automobilistici, combattimenti a mani nude, vertiginosi salvataggi all'ultimo secondo. Poco o nulla ricorrendo ad effetti speciali, la pellicola ha una gradevole patina anni '70: il plot è robusto, i dialoghi funzionano a sufficienza, la suspense tiene fino alla fine. Il cast - come d'uso in prodotti hollywoodiani di livello - risulta adeguato: ma non si può non sottolineare che a Tom Cruise difetta il carisma da protagonista che, in altre epoche, possedevano Paul Newman o Clint Eastwood; e che Rosamund Pike - nei panni della legale - inalbera un'aria di cotal stupefazione da lasciare perplessi.
Francesco Troiano
lunedì 24 dicembre 2012
The Master
Usa, inizio degli anni '50. Freddie Quell è un uomo alla deriva. Lo sconvolgimento, provocato in tanti, dalla Seconda Guerra Mondiale, ha fatto di lui un individuo allo sbando, scentrato come il suo parlare quasi inintelligibile, sbilenco come la sua camminata sguincia. Codesto girare in tondo, galleggiando in un malsano quanto confortante oblio, pare doversi interrompere con l'incontro di Lancaster Dodd, capo d'uno tra i grandi gruppi spirituali alternativi che, in epoche di smarrimento collettivo, trovano terreno assai fertile. Il guru, che millanta di aver scoperto alcune inconfutabili verità su come il genere umano possa sconfiggere gli animal istincts più abietti, mette Freddie sotto la propria protezione, con il neppur troppo celato intento di farne domani il proprio successore. Freddie compensa come può la benevolenza del demagogo: pesta a sangue un giornalista che ne confuta pubblicamente le idee, mena le mani con le forze dell'ordine giunte ad arrestare Dodd per truffa. Tra atti di ribellione ed appassionati slanci di lealtà, il confronto tra i due finisce per diventare uno scontro viscerale, perfino violento, tra volontà opposte...
La drammaturgia borghese ci insegna che l'eroe - laddove esiste - non può che essere negativo. Orson Welles ha shakespearianamente condotto tale assunto all'estrema conseguenza, specificamente trattando di soli eroi del male. Ma detto eroe borghese intriso di malvagità necessita, per essere credibile, di un background sociale fortemente contrastato, significativo e - per dirlo in una parola - grandioso. Sono, tutte, caratteristiche proprie di "The Master", ultima fatica cinematografica del talentoso Paul Thomas Anderson: che pure nello stile registico, barocco e immaginifico, ripercorre le orme del geniale cineasta del Wisconsin. In particolare, questo Lancaster Dodd ben figurerebbe nella galleria di ritratti apertasi con Charles Foster Kane, proseguita con Grigory Arkadin e giunta con Hank Quinlan ad una sorta di punto d'approdo e sintesi; quanto a Freddie Quell, egli è più un consanguineo del kafkiano Josef K, personaggio finito negli ingranaggi di un meccanismo che non comprende, tuttavia non potendo egli definirsi del tutto innocente. A differenza dei wellesiani d'accatto, tuttavia, Anderson possiede il polso registico per tenere insieme i fili della storia, conferendo all'amalgama una misura d'ambiguità che si dispiega, in tutto lo spettro, nel faccia a faccia preludio allo straniante scioglimento.
Ci sono, in questo racconto zigzagante e survoltato, momenti indimenticabili: detto del denso prefinale, basti citare la sequenza in cui Fred, invitato da Lancaster a provare una moto in pieno deserto, sparisce all'orizzonte, metaforicamente sfuggendo al "padrone". Ma pure la descrizione degli Usa postbellici, nazione trionfatrice ma popolata di reduci perdenti, ciarlatani inveterati, fanciulle divise tra ambizioni e pulsioni, è perfetta, un vero saggio di storia del costume. Quanto alle psicologie, Anderson si conferma maestro nel dipingerle: qui, in verità, sostenuto nello sforzo da due attori superlativi, premiati ex-aequo giustamente all'ultima Mostra di Venezia. Joaquin Phoenix si conquista un posto di primo piano, con un ritratto in piedi di reduce degno del Dana Andrews de "I migliori anni della nostra vita" (1946) o del Brando di "Uomini"(1950); quanto a Philip Seymour Hoffman, ci sembra di poter dire che nessuno,
fra gli interpreti contemporanei, possegga altrettanta duttilità istrionica, una tale capacità di lavorar di bulino sulle figure nelle quali, di volta in volta, si cala. Agli Oscar, statene pur certi, se ne ricorderanno.
Francesco Troiano
La drammaturgia borghese ci insegna che l'eroe - laddove esiste - non può che essere negativo. Orson Welles ha shakespearianamente condotto tale assunto all'estrema conseguenza, specificamente trattando di soli eroi del male. Ma detto eroe borghese intriso di malvagità necessita, per essere credibile, di un background sociale fortemente contrastato, significativo e - per dirlo in una parola - grandioso. Sono, tutte, caratteristiche proprie di "The Master", ultima fatica cinematografica del talentoso Paul Thomas Anderson: che pure nello stile registico, barocco e immaginifico, ripercorre le orme del geniale cineasta del Wisconsin. In particolare, questo Lancaster Dodd ben figurerebbe nella galleria di ritratti apertasi con Charles Foster Kane, proseguita con Grigory Arkadin e giunta con Hank Quinlan ad una sorta di punto d'approdo e sintesi; quanto a Freddie Quell, egli è più un consanguineo del kafkiano Josef K, personaggio finito negli ingranaggi di un meccanismo che non comprende, tuttavia non potendo egli definirsi del tutto innocente. A differenza dei wellesiani d'accatto, tuttavia, Anderson possiede il polso registico per tenere insieme i fili della storia, conferendo all'amalgama una misura d'ambiguità che si dispiega, in tutto lo spettro, nel faccia a faccia preludio allo straniante scioglimento.
Ci sono, in questo racconto zigzagante e survoltato, momenti indimenticabili: detto del denso prefinale, basti citare la sequenza in cui Fred, invitato da Lancaster a provare una moto in pieno deserto, sparisce all'orizzonte, metaforicamente sfuggendo al "padrone". Ma pure la descrizione degli Usa postbellici, nazione trionfatrice ma popolata di reduci perdenti, ciarlatani inveterati, fanciulle divise tra ambizioni e pulsioni, è perfetta, un vero saggio di storia del costume. Quanto alle psicologie, Anderson si conferma maestro nel dipingerle: qui, in verità, sostenuto nello sforzo da due attori superlativi, premiati ex-aequo giustamente all'ultima Mostra di Venezia. Joaquin Phoenix si conquista un posto di primo piano, con un ritratto in piedi di reduce degno del Dana Andrews de "I migliori anni della nostra vita" (1946) o del Brando di "Uomini"(1950); quanto a Philip Seymour Hoffman, ci sembra di poter dire che nessuno,
fra gli interpreti contemporanei, possegga altrettanta duttilità istrionica, una tale capacità di lavorar di bulino sulle figure nelle quali, di volta in volta, si cala. Agli Oscar, statene pur certi, se ne ricorderanno.
Francesco Troiano
mercoledì 12 dicembre 2012
La parte degli angeli
Robbie, un ragazzo di Glasgow non privo di qualità ma che, a volte, s'impiglia in delle situazioni che lo cacciano nei guai, sta per diventare padre. Di problemi, ne ha parecchi: il padre della sua ragazza gli intima brutalmente di uscire dalla vita della figlia; condannato - assieme a tre suoi amici - a 300 ore di lavori socialmente utili per aver picchiato due tizi che non volevano lasciarlo in pace (motivo, una vecchia faida familiare), è sotto tiro dei medesimi, che intendono fargliela pagare a loro modo; infine, malgrado egli abbia tutte le buone intenzioni di cambiare strada, verifica ogni giorno che non
ne esistono le condizioni, in primo luogo perché nessuno si fida tanto da offrirgli un lavoro. Mentre sta scontando la pena conosce Harry, un sorvegliante dall'indole generosa, non ignaro delle traversie che possono capitare nel corso dell'esistenza. Quasi per gioco, quest'ultimo porta i quattro ad una degustazione di whisky di malto di qualità, ove si scopre che Robbie ha un particolare talento: un palato fine, che lo rende assai abile nel riconoscere le varie marche. Da qui - e dalla ghiotta notizia dell'imminente messa in vendita, ad un prezzo stratosferico, d'una botte di un whisky d'introvabile livello - parte un piano dei quattro che pare pazzesco: spillare qualche bottiglia con l'inganno, per venderla a un ricco appassionato e ricavare, così, i quattrini per procacciarsi una seconda chance...
Due sono, com'è noto, le corna dell'arte di Ken Loach: da un lato i film d'impegno politico e sociale diretto, con connotazioni fortemente drammatiche (diciamo, per fare degli esempi, "Terra e libertà" e "Ladybird Ladybird"); dall'altro, pellicole che - pur confermando la vocazione sua per un cinema calato decisamente nel reale, con spiccata simpatia per le classi meno privilegiate - contengono degli elementi umoristici e posseggono caratteristiche di commedia (si va da "Riff-Raff" al più recente "Il mio amico Eric"). "La parte degli angeli" appartiene a questo secondo gruppo, ed è da considerare tra le più felici collaborazioni tra l'ultimo dei cineasti marxisti ed il suo sceneggiatore abituale, Paul Laverty.
Favola di sinistra, infatti, si potrebbe definire l'operina. Se la scaturigine - ha dichiarato lo stesso Loach - è il preoccupante tasso di disoccupazione dei giovani in Inghilterra (nel 2011, oltre un milione), la vicenda incornicia la crudezza del dato reale in un amabile balletto che pare Capra corretto da Brecht; vivificato, inoltre, da un cast semplicemente strepitoso. Cantore degli ultimi, tuttavia descritti senza infingimenti, il regista di "Piovono pietre" si muove con l'abituale maestria
tra diversi registri, lentamente lasciando prevalere quello lieto. E se le peripezie di codesti simpatici antieroi fan pensare a quelle de "I soliti ignoti" nostrani quanto a pressappochismo e stoltezza, deve esserci pure per loro un Dio che, infine, preserva quanto basta perché i sogni non vadano sprecati.
Un Dio moderatamente etilista, magari; che, assieme agli angeli, consuma quel 2% di whisky che
ogni anno esala l'anima per evaporazione. E la dà vinta, per eccezione, a quelli votati alla sconfitta.
Francesco Troiano
ne esistono le condizioni, in primo luogo perché nessuno si fida tanto da offrirgli un lavoro. Mentre sta scontando la pena conosce Harry, un sorvegliante dall'indole generosa, non ignaro delle traversie che possono capitare nel corso dell'esistenza. Quasi per gioco, quest'ultimo porta i quattro ad una degustazione di whisky di malto di qualità, ove si scopre che Robbie ha un particolare talento: un palato fine, che lo rende assai abile nel riconoscere le varie marche. Da qui - e dalla ghiotta notizia dell'imminente messa in vendita, ad un prezzo stratosferico, d'una botte di un whisky d'introvabile livello - parte un piano dei quattro che pare pazzesco: spillare qualche bottiglia con l'inganno, per venderla a un ricco appassionato e ricavare, così, i quattrini per procacciarsi una seconda chance...
Due sono, com'è noto, le corna dell'arte di Ken Loach: da un lato i film d'impegno politico e sociale diretto, con connotazioni fortemente drammatiche (diciamo, per fare degli esempi, "Terra e libertà" e "Ladybird Ladybird"); dall'altro, pellicole che - pur confermando la vocazione sua per un cinema calato decisamente nel reale, con spiccata simpatia per le classi meno privilegiate - contengono degli elementi umoristici e posseggono caratteristiche di commedia (si va da "Riff-Raff" al più recente "Il mio amico Eric"). "La parte degli angeli" appartiene a questo secondo gruppo, ed è da considerare tra le più felici collaborazioni tra l'ultimo dei cineasti marxisti ed il suo sceneggiatore abituale, Paul Laverty.
Favola di sinistra, infatti, si potrebbe definire l'operina. Se la scaturigine - ha dichiarato lo stesso Loach - è il preoccupante tasso di disoccupazione dei giovani in Inghilterra (nel 2011, oltre un milione), la vicenda incornicia la crudezza del dato reale in un amabile balletto che pare Capra corretto da Brecht; vivificato, inoltre, da un cast semplicemente strepitoso. Cantore degli ultimi, tuttavia descritti senza infingimenti, il regista di "Piovono pietre" si muove con l'abituale maestria
tra diversi registri, lentamente lasciando prevalere quello lieto. E se le peripezie di codesti simpatici antieroi fan pensare a quelle de "I soliti ignoti" nostrani quanto a pressappochismo e stoltezza, deve esserci pure per loro un Dio che, infine, preserva quanto basta perché i sogni non vadano sprecati.
Un Dio moderatamente etilista, magari; che, assieme agli angeli, consuma quel 2% di whisky che
ogni anno esala l'anima per evaporazione. E la dà vinta, per eccezione, a quelli votati alla sconfitta.
Francesco Troiano
martedì 4 dicembre 2012
Moonrise Kingdom
New England, estate del '65. In un isoletta sull'Atlantico, a pochi chilometri dalla costa, si verifica una situazione imprevista. Dall'accampamento dei boyscout è sparito il piccolo Sam, non proprio il più popolare del suo gruppo. Alla stesso tempo, da casa Bishop scompare anche la coetanea Suzy. I vari adulti non lo sanno, ma i due - da molto amici di penna - si erano innamorati via lettera, poi premeditando e combinando la fuga insieme. Lui, un orfano dalle insospettate risorse, vuole scappare dagli arroganti compagni scout; lei - che scruta il mondo col binocolo "per vedere tutto più vicino" - dai detestati fratelli. Così si procurano una tenda, del cibo, qualche utensile e voilà, il gioco è fatto. Per nulla adusa ad accadimenti che sconvolgano l'amata routine, la piccola comunità - dai genitori della ragazzina allo sceriffo, dalla rappresentante dei servizi sociali al peculiare capo scout (fuma in faccia ai ragazzi e davanti ai fuochi artificiali) - si getta alla ricerca della coppia, che non ha invece alcuna intenzione di farsi trovare. Frattanto, si prepara nei cieli quella che sarà ricordata come una delle più spaventose tempeste mai viste...
Piaccia o meno, il cinema di Wes Anderson è tra quelli inconfondibili nel panorama contemporaneo. Vivificato sin dagli inizi da una verve di lunatica e strampalata originalità, esso prende le movenze assai spesso della fiaba, mutuandone i colori pastello come l'andamento vagamente surreale. Non sempre il nostro l'azzecca, va detto ("Le avventure acquatiche di Steve Zissou", nel 2005, ne è esempio eloquente), ma il suo modo teneramente serio di raccontare improbabili vicende, di mettere in scena bizzarri personaggi, coinvolge lo spettatore, lasciandolo poi sospeso tra risata e commozione. "Moonrise Kingdom" è un esempio da manuale dell'arte sua: pur se le coordinate nelle quali va a collocarsi sono ben precise, potrebbe dirsi acronotopica questa storia dolcemente favolistica, dove i cattivi mai sono totalmente cattivi (beh, quasi tutti, almeno), i fulmini dai quali si viene colpiti non folgorano, il più inaspettato degli happy end è pronto inaspettatamente a verificarsi.
In tinte calde e solari, assistiamo al delicato passaggio dall'infanzia all'adolescenza nella convivenza fra i due protagonisti: lei legge ad alta voce, ascolta la musica di Françoise Hardy, si fa fotografare in bikini; lui, ovviamente meno maturo della sua fidanzatina, si adegua come può, ma è determinato nel considerarla addirittura sua moglie. Ed è proprio così che andrà a finire: dopo ore di tregenda segnate dalla furia degli eventi naturali, Sam è adottato dal melanconico sceriffo locale, i genitori di Suzy accettano la situazione e, addirittura, l'ineffabile duo viene fatto sposare con cerimonia scout. Il tutto straordinariamente godibile, irresistibilmente avvincente, definitivamente toccante. Insomma, anche se al cinema cercate l'impegno ad ogni costo, il brivido della suspense, l'adrenalina del film d'azione, prendetevi una pausa con Wes Anderson. Anche grazie ad un cast superlativo, non ve ne pentirete.
Francesco Troiano
MOONRISE KINGDOM. REGIA: WES ANDERSON. INTEPRETI: BRUCE WILLIS, EDWARD NORTON, BILL MURRAY, FRANCES McDORMAND, TLIDA SWINTON, JASON SCHWARTZMAN. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 94 MINUTI.
Piaccia o meno, il cinema di Wes Anderson è tra quelli inconfondibili nel panorama contemporaneo. Vivificato sin dagli inizi da una verve di lunatica e strampalata originalità, esso prende le movenze assai spesso della fiaba, mutuandone i colori pastello come l'andamento vagamente surreale. Non sempre il nostro l'azzecca, va detto ("Le avventure acquatiche di Steve Zissou", nel 2005, ne è esempio eloquente), ma il suo modo teneramente serio di raccontare improbabili vicende, di mettere in scena bizzarri personaggi, coinvolge lo spettatore, lasciandolo poi sospeso tra risata e commozione. "Moonrise Kingdom" è un esempio da manuale dell'arte sua: pur se le coordinate nelle quali va a collocarsi sono ben precise, potrebbe dirsi acronotopica questa storia dolcemente favolistica, dove i cattivi mai sono totalmente cattivi (beh, quasi tutti, almeno), i fulmini dai quali si viene colpiti non folgorano, il più inaspettato degli happy end è pronto inaspettatamente a verificarsi.
In tinte calde e solari, assistiamo al delicato passaggio dall'infanzia all'adolescenza nella convivenza fra i due protagonisti: lei legge ad alta voce, ascolta la musica di Françoise Hardy, si fa fotografare in bikini; lui, ovviamente meno maturo della sua fidanzatina, si adegua come può, ma è determinato nel considerarla addirittura sua moglie. Ed è proprio così che andrà a finire: dopo ore di tregenda segnate dalla furia degli eventi naturali, Sam è adottato dal melanconico sceriffo locale, i genitori di Suzy accettano la situazione e, addirittura, l'ineffabile duo viene fatto sposare con cerimonia scout. Il tutto straordinariamente godibile, irresistibilmente avvincente, definitivamente toccante. Insomma, anche se al cinema cercate l'impegno ad ogni costo, il brivido della suspense, l'adrenalina del film d'azione, prendetevi una pausa con Wes Anderson. Anche grazie ad un cast superlativo, non ve ne pentirete.
Francesco Troiano
MOONRISE KINGDOM. REGIA: WES ANDERSON. INTEPRETI: BRUCE WILLIS, EDWARD NORTON, BILL MURRAY, FRANCES McDORMAND, TLIDA SWINTON, JASON SCHWARTZMAN. DISTRIBUZIONE: LUCKY RED. DURATA: 94 MINUTI.
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