lunedì 24 dicembre 2012

The Master

Usa, inizio degli anni '50. Freddie Quell è un uomo alla deriva. Lo sconvolgimento, provocato in tanti, dalla Seconda Guerra Mondiale, ha fatto di lui un individuo allo sbando, scentrato come il suo parlare quasi inintelligibile, sbilenco come la sua camminata sguincia. Codesto girare in tondo, galleggiando in un malsano quanto confortante oblio, pare doversi interrompere con l'incontro di Lancaster Dodd, capo d'uno tra i grandi gruppi spirituali alternativi che, in epoche di smarrimento collettivo, trovano terreno assai fertile. Il guru, che millanta di aver scoperto alcune inconfutabili verità su come il genere umano possa sconfiggere gli animal istincts più abietti, mette Freddie sotto la propria protezione, con il neppur troppo celato intento di farne domani il proprio successore. Freddie compensa come può la benevolenza del demagogo: pesta a sangue un giornalista che ne confuta pubblicamente le idee, mena le mani con le forze dell'ordine giunte ad arrestare Dodd per truffa. Tra atti di ribellione ed appassionati slanci di lealtà, il confronto tra i due finisce per diventare uno scontro viscerale, perfino violento, tra volontà opposte...

La drammaturgia borghese ci insegna che l'eroe - laddove esiste - non può che essere negativo. Orson Welles ha shakespearianamente condotto tale assunto all'estrema conseguenza, specificamente trattando di soli eroi del male. Ma detto eroe borghese intriso di malvagità necessita, per essere credibile, di un background sociale fortemente contrastato, significativo e - per dirlo in una parola - grandioso. Sono, tutte, caratteristiche proprie di "The Master", ultima fatica cinematografica del talentoso Paul Thomas Anderson: che pure nello stile registico, barocco e immaginifico, ripercorre le orme del geniale cineasta del Wisconsin. In particolare, questo Lancaster Dodd ben figurerebbe nella galleria di ritratti apertasi  con Charles Foster Kane, proseguita con Grigory Arkadin e giunta con Hank Quinlan ad una sorta di punto d'approdo e sintesi; quanto a Freddie Quell, egli è più un consanguineo del kafkiano Josef K, personaggio finito negli ingranaggi di un meccanismo che non comprende, tuttavia non potendo egli definirsi del tutto innocente. A differenza dei wellesiani d'accatto, tuttavia, Anderson possiede il polso registico per tenere insieme i fili della storia, conferendo all'amalgama una misura d'ambiguità che si dispiega, in tutto lo spettro, nel faccia a faccia preludio allo straniante scioglimento.

Ci sono, in questo racconto zigzagante e survoltato, momenti indimenticabili: detto del denso prefinale, basti citare la sequenza in cui Fred, invitato da Lancaster a provare una moto in pieno deserto, sparisce all'orizzonte, metaforicamente sfuggendo al "padrone". Ma pure la descrizione degli Usa postbellici, nazione trionfatrice ma popolata di reduci perdenti, ciarlatani inveterati, fanciulle divise tra ambizioni e pulsioni, è perfetta, un vero saggio di storia del costume. Quanto alle psicologie, Anderson si conferma maestro nel dipingerle: qui, in verità, sostenuto nello sforzo da due attori superlativi, premiati ex-aequo giustamente all'ultima Mostra di Venezia. Joaquin Phoenix si conquista un posto di primo piano, con un ritratto in piedi di reduce degno del Dana Andrews de "I migliori anni della nostra vita" (1946) o del Brando di "Uomini"(1950); quanto a Philip Seymour Hoffman, ci sembra di poter dire che nessuno,
fra gli interpreti contemporanei, possegga altrettanta duttilità istrionica, una tale capacità di lavorar di bulino sulle figure nelle quali, di volta in volta, si cala. Agli Oscar, statene pur certi, se ne ricorderanno.
                                                                                                                                   Francesco Troiano


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