martedì 25 novembre 2014

Viviane

Son due lustri che Viviane Amsalem sta tentando di ottenere il divorzio da suo marito Elisha. Da diversi  mesi la donna ha lasciato il tetto coniugale ed è andata vivere da un fratello sposato; non chiede danaro (è economicamente indipendente, dato che è parrucchiera), desidera solo separare il proprio destino da quello del consorte. Ma siamo in Israele, dove soltanto una specifica autorità (il tribunale rabbinico) può concederle quanto vuole, e ad una particolare condizione: il consenso del coniuge, che in codesto caso,  purtroppo, manca. La battaglia fra i due sposi e i difensori (per lui il fratello Shimon, per lei il fascinoso avvocato Carmel) si svolge in una piccola stanza bianca, con due tavolini e quattro sedie, sulla destra il cancelliere col computer, di faccia il tavolo coi tre giudici rabbini: è in detto claustrofobico palcoscenico che, anno dopo anno, si snoda il calvario della disperazione di Viviane, con un marito tetragono a ogni apertura, finanche dopo una settimana di carcere subita per non essersi più volte presentato alle sedute...

Si prova una singolare sensazione, a recensire un'opera come "Viviane" giusto nella giornata dedicata a stigmatizzare la violenza sulle donne. Forse perché si tende ad identificare quest'ultima con le percosse, lo stalking, le minacce. Forse perché non si associa uno stato democratico (presunto, verrebbe da dire) a cotali situazioni. Fatto sta che, in maniera diversa ma non meno valida dal bellissimo "Una separazione" (2011), questo film - opera terza dell'attrice Ronit Elkabetz, inoltre pannello finale d'un trittico iniziato da "Take a Wife"(2004) e proseguito con "Shiva" (2008) - descrive una situazione ed una mentalità, partendo dall'analisi di un caso singolo, con straordinaria pregnanza. "Il tempo perduto in questi procedimenti ha valore solo per la donna che supplica - ha dichiarato la Elkabetz - di tornare a vivere. Fino a quando non ottiene il divorzio non potrà mai ricostruirsi una famiglia e i figli fuori dal matrimonio non avranno riconoscimenti giuridici. Una donna in attesa di divorzio è condannata a una sorta di prigione".

Il miracolo compiuto dall'attrice-cineasta è quello di trasformare una pellicola in cui sembra non accada alcunché in qualcosa di vivo e avvincente. Merito d'una sceneggiatura densa e palpitante (scritta ancora da lei, assieme al fratello Shlomi, pure co-regista); di un cast strepitoso, capitanato tanto per cambiare dalla nostra; ma, su tutto, dell'intensità di alcune scene, girate con mano maestra, e della bellezza nobile ma non altezzosa, austera ma non rifuggente la femminilità - indimenticabile la sua apparizione con una fiammeggiante camicia rossa, le belle gambe nude, i capelli sciolti e accarezzati: una cosa, quest'ultima, equiparabile per una donna, ad un'impudica provocazione - della protagonista. Quando, infine, il marito s'acconcia ad acconsentire al divorzio facendole cadere nelle mani il "Gett", il foglio col suo consenso, pronunciando la frase "da ora sei permessa a qualunque uomo", tutto si riavvolge come in un incubo e la situazione ritorna al punto di partenza. E' allora che Elisha perde la calma, urlando contro i rabbini "Siete senza misericordia, ma vi toglieranno il potere, tribunale di merda". Interdetta all'ingresso in un tribunale per sei mesi, l'intrepida non si arrende: solo attraverso un'ennesima umiliazione, giungerà a un risultato che sa di sconfitta malgrado l'apparenza. Sì, è assai lungo il cammino che le donne dovranno ancora percorrere per ottenere dignità senza pagar lo scotto di amare, inique lacrime.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

VIVIANE. REGIA: RONIT E SHLOMI ELKABETZ. INTERPRETI: RONIT ELKABETZ, MENASHE NOY, SIMON ABKARIAN. DISTRIBUZIONE: PARTHENOS. DURATA: 115 MINUTI.

domenica 23 novembre 2014

Trash


Rafael e Gardo, due quattordicenni che sbarcano il lunario smistando rifiuti nelle favelas di Rio, trovano un giorno nella discarica un portafoglio che contiene dei soldi, una foto con alcuni numeri sul retro, un calendario con l'immagine di San Francesco ed una chiave. Subito dopo la polizia locale, per la quale i ragazzini non nutrono fiducia o simpatia, piomba sulle favelas in cerca dell'oggetto smarrito: quando è offerta una somma di danaro per il ritrovamento, i due capiscono di essere finiti in un gioco più grande di loro; ma non per questo scelgono di demordere. Coinvolto un altro loro compagno, Rato, i nostri eroi - dribblando gli sbirri corrotti e violenti, capitanati dal pericoloso Federico - risalgono al proprietario del portafoglio, Angelo; ma i guai non cessano, e le sole persone su cui il trio può fare affidamento sono il disilluso padre Julliard e la sua assistente Olivia...

Adattamento per il grande schermo del romanzo omonimo scritto da Andy Mulligan, sceneggiato da Richard Curtis ("Quattro matrimoni e un funerale", "Love Actually") e diretto da Stephen Daldry ("Billy Elliott", "The Hours"), "Trash"- presentato con successo all'ultima edizione del Festival di Roma -  è un lavoro di puro entertainment, dalla confezione formale impeccabile. La presenza quale produttore di Fernando Mereilles e del compositore Antonio Pinto aggiungono garanzie all'etnicità dell' insieme. La pellicola, inscenando lo scontro fra poliziotti venduti e giovani ladruncoli, non si allontana dalla realtà, pur presentandola attraverso lo sguardo del benessere di marca angloamericana. A mezza via tra le atmosfere realistiche di "City of God"ed il favolistico "The Millionaire", col passar dei minuti "Trash" s'adagia supinamente sul secondo modello, correndo il rischio di venir accusato di colonialismo culturale, ché il Brasile delle favelas è qui trattato in maniera assai simile all'India degli slum messa in scena da Danny Boyle.

Ciò precisato, dal punto di vista meramente cinematografico, "Trash" è un'operina assai godibile, a principiar dai tre giovanissimi protagonisti presi dalla strada: i riferimenti letterari vanno da Oliver Twist a Huck Finn, sicché le avventure picaresche, dal sapore antico, non mancano di coinvolgerci e farci trepidare per le sorti dell'improbabile terzetto. La cinepresa di Daldry compie miracoli nell'intercettarli in velocità, catturandone magistralmente gli occhi sgranati ed i sorrisi strafottenti. Il montaggio si adegua con abilità al disegno registico, che predilige - come d'uso, nel nostro - la decostruzione temporale, per mezzo d'un sapiente uso di flashback e flash forward atto ad imprimere alla vicenda un ritmo incalzante. Insomma, "Trash", s'è detto, è una vera gioia per gli occhi, a condizione di superare il disagio d'adoprar come fonte di svago la miseria delle bidonville del Terzo Mondo e l'esistenza dei "bambini spazzatura" che, nella vita vera, al posto delle peripezie mirabolanti qui inscenate corrono ogni giorno il rischio di beccarsi una pallottola vagante. Che il tutto vada visto alla stregua di una fiaba, oppure di una parabola sul potere salvifico della fede, è palese; sarebbe tuttavia meglio, più adeguato e politicamente corretto - espressione odiosa, che qui per una volta trova un suo senso - affidare operazioni di tal fatta ad una narrazione autoctona, per smarcarsi dal sospetto di una poco simpatica scaltrezza commerciale.

                                                                                                                                    Francesco Troiano

TRASH. REGIA: STEPHEN DALDRY. INTERPRETI: MARTIN SHEEN, ROONEY MARA, WAGNER MOURA, RICKSON TEVEZ, EDUARDO LUIS, GABRIEL WEINSTEIN. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 114 MINUTI

martedì 18 novembre 2014

My Old Lady

Il newyorkese Mathias si reca a Parigi per liquidare un lussuoso appartamento, sito nel quartiere del Marais, che il padre gli ha lasciato in eredità: deve farlo in fretta perché non ha un soldo e, coi denari della vendita, spera di potersi rifare una vita. Giunto nella capitale francese, l'attende però una poco gradita sorpresa: la casa è occupata da una novantenne, Mathilde, assieme alla figlia Chloé, e Mathias non potrà disporne sino alla scomparsa dell'anziana signora. A completare il quadro, egli è obbligato a corrisponderle un assegno mensile di 2.400 euro, come prima di lui aveva fatto suo padre per 40 anni. Obbligato ad ingegnarsi per dipanare la matassa, si rivolge ad un immobiliarista interessato; ma il fatto che Mathilde conosca fatti troppo intimi del defunto, gli apre nuovi squarci sull'esistenza e sul passato del medesimo, fino a rimettere in discussione le sue stesse certezze... 

Per il suo esordio nella regia cinematografica, Israel Horovitz (a suo tempo, sceneggiatore di "Fragole e sangue") ha scelto di tradurre in celluloide una delle pièce per le quali egli è considerato, da gran tempo, drammaturgo tra i più apprezzati. Si inizia con un cozzo di mentalità, che vede da una parte l'usanza tutta francese del viager (il vitalizio ipotecario dell'immobile, variante della nuda proprietà) e dall'altra lo sprovveduto anglosassone, che ritiene un simile accordo incomprensibile ed inaccettabile, salvo tentare poi di volgerlo a proprio vantaggio. Lo scontro tra i due sembrerebbe inevitabile, ma c'è il personaggio di Chloé - magnificamente interpretato da Kristin Scott Thomas - che, dotato di spessore maggiore rispetto al testo d'origine, diviene, non casualmente, il link tra Mathilde e Mathias ed il punto d'equilibrio della sceneggiatura.
 
Si potrebbe ipotizzare che ciò faccia della pellicola una sorta di "Green Card" rovesciata, ma non è così: se il racconto parte sui toni della commedia brillante, ben presto assume, di contro, i tratti del dramma di psicologie. Non si finiscono, però, per battere i prevedibili sentieri del mélo; in luogo, si assiste ad una serie di confronti dove i personaggi hanno modo di mettersi a nudo, senza tuttavia indulgere a una eccessiva crudeltà. Gestito con pietas e tenerezza, l'intreccio di ricordi e risentimenti
si scioglie alla fine in una tarda primavera amorosa tra il protagonista e Chloé, che prelude ad uno scioglimento quasi nel segno della serenità. Seppur intravista per rapidi scorci, la Parigi di "My Old Lady" deve qualcosa a quella di Woody Allen e, andando ancor più indietro nel tempo, a quella di "French Kiss". Anche lì al centro della vicenda c'era Kevin Kline: qui fa un numero di sicura classe, all'altezza di quello di Maggie Smith, superba in una perfezione interpretativa che divide con poche altre "old ladies" dello schermo.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

MY OLD LADY. REGIA: ISRAEL HOROVITZ. INTERPRETI: KEVIN KLINE, MAGGIE SMITH, KRISTIN SCOTT THOMAS, DOMINIQUE PINON. DISTRIBUZIONE: EAGLE. DURATA: 107 MINUTI.:

lunedì 17 novembre 2014

Scusate se esisto!

Serena Bruno è un architetto di talento fuori dal comune. Forte d'anni di carriera e successo fuori dai confini patri, un bel giorno decide di tornare a casa, nella speranza di trovare il modo di far rilucere le proprie qualità anche in Italia. Le cose, però, non si rivelano facili: cameriera per sbarcare il lunario, ha un progetto qualificato per ammodernare un quartiere periferico romano, il Corviale; però, per vederlo accettato, è costretta a farsi passare per un uomo. Nel frattempo, ha incontrato Francesco, padrone del ristorante ove ella lavora. Bello, sensibile, dotato di fascino, pare proprio il compagno ideale: purtroppo,  a lui non piacciono le donne. I due stringono comunque un rapporto di tenerezza ed affetto, ed è giusto a lui che Serena chiede di spacciarsi per se stessa declinata al maschile...

Dopo "Il posto dell'anima" (2003), "Piano, solo" (2007) e il fortunato "Benvenuto, presidente!" (2013),   Riccardo Milani torna a dirigere sua moglie Paola Cortellesi in una commedia che la vede, oltre che nel ruolo di protagonista, pure al debutto come sceneggiatrice. "Il film - ha dichiarato il regista - racconta in chiave ironica una stortura del nostro tempo, ossia dover sempre fingere di essere qualcun altro oppure nascondere qualcosa di se stessi, per poter raggiungere i propri obiettivi". Con uno sguardo a "Tootsie" e un altro al recente "Albert Nobbs", Milani conferma di ben conoscere i ritmi della commedia un poco svalvolata, di possedere la gentilezza del tocco, di saper evitare le volgarità infinite volte presenti nelle produzioni indigene similari.

Tutto bene in "Scusate se esisto!", quindi? Beh, lo spunto - come capitava nella precedente e già citata fatica di Milani, "Benvenuto, presidente!"- ci pare troppo esile per reggere la durata (oltre a tutto, di ben 106 minuti, nella fattispecie) di un lungometraggio. Certi sviluppi narrativi sono poco credibili: come si può sostenere, per un tempo così lungo, il cambio di segno sessuale senza ingenerare sospetti? Infine, dispiace verificare che talune abitudini sono dure a morire: lungi dall'essere sostenitori del politically correct ad oltranza, è proprio necessario che se c'è un personaggio omosessuale, egli sia affamato di incontri con individui caricaturati proprio nel senso delle checche che tanto fanno ridere i reazionari, rassicurandoli nei propri pregiudizi? Ciò detto, la pellicola scorre godibile ed abbastanza divertente, scansando la facile via della parolaccia e le scivolate nella beceraggine: Paola Cortellesi si conferma la migliore comedian della propria generazione e Bova, se tenuto a freno, sa svolgere il proprio compito; perfetti, infine, tutti i comprimari. Qualche cedimento in meno a certe logiche commerciali, e il gap che separa i prodotti nostrani dai migliori d'oltralpe sarà agilmente colmato.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SCUSATE SE ESISTO! REGIA: RICCARDO MILANI. INTERPRETI: PAOLA CORTELLESI, RAOUL BOVA, CORRADO FORTUNA, LUNETTA SAVINO, MARCO BOCCI, ENNIO FANTASTICHINI. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 106 MINUTI.

mercoledì 12 novembre 2014

Due giorni, una notte

Reduce da un periodo di severa depressione, che ne ha comportato il momentaneo allontanamento dal posto, al ritorno Sandra scopre sulla propria pelle come per il lavoratore "sospeso" il rientro in azienda non sia tra le cose più facili del mondo. Nella fattispecie, il titolare ritiene che la sua presenza non sia più indispensabile (sotto traccia, scorre la convinzione discriminatoria che la persona già "depressa" non sia in grado di assolvere come prima ai propri compiti): ella potrà evitare il licenziamento, tuttavia, qualora riesca a convincere i colleghi a rinunciare al bonus loro promesso; se rimarrà, essi perderanno il diritto all'emolumento aggiuntivo. Tentata dal ricadere nella morsa depressiva, Sandra trova prezioso sostegno in suo marito Manu, che la ama e combatte affinché non si arrenda: è sua l'idea di andare a trovare uno ad uno coloro che hanno votato per allontanarla, e tentare di far loro cambiare idea, esponendo le proprie motivazioni...

Le tematiche di "Due giorni, una notte" sono centrali nel cinema dei fratelli Dardenne: già per l'esordio nel lungometraggio, "La promesse" (1996), l'argomento era il lavoro clandestino; la fatica successiva,  l'indimenticabile"Rosetta" (1999), era il ritratto d'una ragazza in lotta per mantenere la madre alcolizzata e pagare l'affitto della roulotte ove vive. In realtà, ai due registi belgi interessano le contraddizioni di un capitalismo rapace e fuori controllo, che azzanna le esistenze degli individui incurante di qualunque conseguenza. Ciò che risulta di particolare interesse in questa loro ultima opera è l'aver puntato il faro sulla guerra fra poveri che corre sotterranea in tutta la vicenda: Sandra ha le migliori ragioni del mondo per difendere la propria posizione, ma pure per taluni colleghi i 1.000 euro sono manna per risolvere, o tamponare, situazioni finanziarie difficili se non disastrate.

Ecco, la grandezza dei Dardenne sta nell'evitare, appunto, ogni manicheismo. La rappresentazione che viene data del conflitto è assai sfumata, ci si sforza di comprendere il punto di vista di tutti, avendo presente che il vero problema risiede altrove: nell'assenza di una reazione collettiva, d'una forma di lotta che abbia le proprie radici nell'ormai smarrito concetto di solidarietà. Non a caso, l'azienda scelta è una di piccole dimensioni, nella quale i dipendenti non sono tanto numerosi da poter contare su di una rappresentanza sindacale. Presentato con successo a Cannes, il film trova un ulteriore punto di forza nel testo asciutto, in una mise-en-scène rigorosa e senza fronzoli: nessuno, nemmeno lo spettatore, esce indenne da una visione che genera un senso d'incolmabile angoscia. E se lo scioglimento pare essere più che in passato aperto alla speranza, ciò suona come un omaggio all'ottimismo della volontà e promana dall'espressione di una Marion Cotillard maiuscola, capace di esprimere al meglio patimenti e dignità del suo complesso personaggio.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

DUE GIORNI, UNA NOTTE. REGIA: JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE. INTERPRETI: MARION COTILLARD, FABRIZIO RONGIONE, OLIVIER GOURMET. DISTRIBUZIONE: BIM. DURATA: 95 MINUTI.

martedì 11 novembre 2014

Lo sciacallo

Louis Bloom è un vagabondo senza lavoro, un disadattato sociopatico che vive di piccoli furti e abita in uno squallido locale suburbano. Pur essendo nella realtà un reietto emarginato, non cessa di pensare in grande: arrivista, sfrontato, presuntuoso, crede nel web e ne è una sorta di maniaco, intuendo che da lì potrà spuntare qualche atout che gli consenta di emergere. Una notte, di fronte ad un incidente stradale, vede all'opera dei "serpenti della notte" (nightcrawler, come recita il titolo originale), gente che passa il  tempo ad inseguire sciagure da riprendere per poi venderle ai network locali. Non essendo egli riuscito a farsi assumere dal cameraman Joe, si procura un'attrezzatura completa di radio sintonizzata sui canali della polizia per poter accorrere il più rapidamente possibile sui luoghi dei disastri, con tanto di scanner e videocamera. Dopo aver assunto un assistente, e stabilito un rapporto preferenziale con la produttrice senza scrupoli d'un tv locale, Lou si lancia a capofitto nel business del giornalismo senza regole: sino al punto da spostare i cadaveri sull'asfalto perché vengano meglio in ripresa, da ignorare tutte le regole di soccorso ai feriti prima dell'arrivo delle forze dell'ordine, di procurare le condizioni affinché avvengano omicidi e stragi...

E' Dan Gilroy - sceneggiatore, fra l'altro, di uno dei capitoli della serie "Bourne", con Matt Damon - ad esordire dietro la macchina da presa con questo "Lo sciacallo" (ed è sua moglie, Rene Russo, a recitare  con bravura nei panni della spietata dirigente televisiva). L'argomento non è nuovo almeno dai tempi de "L'asso nella manica" (1951) di Billy Wilder, capo d'opera del genere in cui un reporter cinico sfruttava il caso di un minatore sepolto vivo per montare uno scoop e risollevare la propria carriera. Diversi sono i mezzi, ora, in epoca in cui ciascuno può improvvisarsi operatore per agire in un regime di concorrenza che non conosce remore. Il tutto in una Los Angeles notturna e solitaria: nella città degli angeli, Michael Mann aveva immaginato - nel suo splendido "Collateral" (2004) - che un coyote attraversasse la strada; qui, gli animali tanatofagi sono in tanti ed in carne e ossa, pur se metaforicamente li si potrebbe definire come delle infime "mosche del capitale".

Proveniente dalla scrittura, Gilroy disegna con efficacia il sottobosco di predatori umani che a rotta di collo si gettano sulle strade della metropoli: lo scopo, arrivare primi a catturare delle immagini shock da propinare nel corso dei notiziari ad un pubblico desideroso d'abbeverarsi di sangue e di lutti. E la trama, pur escludendo una morale differente da quella che si evince dalla mera rappresentazione, non può non stimolare delle riflessioni sull'accettazione di compromessi etici in nome del lavoro (la figura di Rick, l'accompagnatore di Lou nelle scorribande, è in tal senso emblematica). Tuttavia, l'autentica carta vincente di questa intensa pellicola di debutto è Jake Gyllenhaal, formidabile nel tratteggiare l'ambiguità di un personaggio al tempo medesimo servile e feroce, subdolo e fascinoso: messosi in luce in diversi film (da "Zodiac" di Fincher a "I segreti di Brokeback Mountain" di Ang Lee), qui si rivela un attore oramai maturo, capace di reggere un'intiera storia sulle proprie spalle. I suoi occhi da lupo affamato e ferito, la sua parlantina sciorinata ad ogni pie' sospinto sono particolari che non si dimenticano: e fanno comprendere che le interpretazioni del nostro segneranno, per certo, gli anni a venire.

LO SCIACALLO. REGIA: DAN GILROY. INTERPRETI: JAKE GYLLENHAAL, RENE RUSSO, BILL PAXTON, JENNIFER FOX, TONY GILROY. DISTRIBUZIONE: NOTORIOUS. DURATA: 117 MINUTI.

martedì 4 novembre 2014

Torneranno i prati

"Mio padre aveva 19 anni quando venne chiamato alle armi. A quell'età, l'esaltazione dell'eroicità infiamma menti e cuori, soprattutto dei più giovani. Scelse l'Arma dei bersaglieri, battaglioni d'assalto, e si trovò dentro la carneficina del Carso e del Piave, che segnò la sua giovinezza e il resto della sua vita".
Non è la prima volta che Ermanno Olmi affronta il tema della guerra: già nel remoto "I recuperanti" (1970, girato anch'esso sull'Altopiano di Asiago, il medesimo luogo di questa sua ultima fatica), ad esempio, dove aveva descritto le conseguenze delle ostilità belliche su quelle genti ed il modo in cui, per paradosso, dal dolore fosse poi scaturita una fonte di sostegno. O nel bellissimo "Il mestiere delle armi" (2001), in cui il transito dall'epoca dei cavalieri a quella delle armi da fuoco in qualche modo lasciava che una guerra disumanizzata prendesse il posto di scontri contraddistinti, quanto meno, dal coraggio e dal senso dell'onore.

Mai, però, il maestro ci aveva dato un'opera dalla scaturigine tanto personale: nella dedica al papà "che, quand'ero bambino, mi raccontava della guerra dov'era stato soldato", si trova il segno di un'emozione lontana nel tempo eppur vivida, un suggerimento da non lasciar cadere soprattutto quando la vecchiaia e la salute t'incalzano nel riconsiderare l'esistenza tutta, verificandone le cose davvero importanti. Sulla scorta di una suggestione letteraria (lo splendido racconto di Federico De Roberto "La paura"), il film ci porta sul fronte Nord-Est, zona Altipiano dei Sette Comuni, in quei giorni del 1917 che precedettero la sconfitta di Caporetto.

In una trincea d'alta montagna, giunge un ordine insensato che un tenente si rifiuta di eseguire perché non vuole mandare al massacro i propri uomini. E' a questo punto che arriva un maggiore, mandato lì "per tenere alto lo spirito" e "non far poltrire nell'ozio" le truppe. Sotto l'imposizione di quest'ultimo, si va a morire: c'è chi prima si fa benedire dal cappellano e bacia la fetta di pane che porta con sé, chi decide di spararsi, chi prende un topolino nella mano per sentirne il calore vitale, chi guarda da una feritoia quasi incantato la corsa di una lepre, il muso di una volpe. C'è poi il tempo, tanto lento che pare non trascorra: qualcuno intona una canzone, "Tu ca nun chiagne" o "Fenesta ca lucive", toccando il cuore finanche del nemico. E c'è, improvviso, il succedersi delle cannonate preceduto da razzi che rischiarano la notte: corpi martoriati, feriti che non vogliono soccorso, croci che si aggiungono ad altre. Dio manca, "ma vuoi che se non ha ascoltato il figlio ascolti noi, poveri cani?".

Per mettere in scena la tragedia quotidiana della guerra, Olmi ha scelto di desaturare i colori sino ad ottenere un impasto di bianchi, neri e grigi che danno sentore di polvere e abbandono; la neve, vera protagonista, sembra aver smarrito il biancore per assumere delle tonalità plumbee; ed i corpi che cercano riparo dal gelo sotto improbabili mantelline, paiono strumenti velati dal dolore, prigionieri di filo spinato e cavalli di Frisia. Mai, ci sembra, la Grande Guerra ha trovato toni così desolati al cinema (in letteratura, magari, nelle pagine di Lussu e Jahier, di Comisso e Gadda); e solo l'immenso "Orizzonti di gloria" (1957) di Kubrick regge il confronto, per intensità e potenza, con questa pellicola di ottanta minuti. Spesi all'insegna di un'indignazione che trasmuta, nascendo, in pietas.

TORNERANNO I PRATI. REGIA: ERMANNO OLMI. INTERPRETI: CLAUDIO SANTAMARIA, ALESSANDRO SPERDUTI, FRANCESCO FORMICHETTI, ANDREA DI MARIA. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 80 MINUTI.

Sils Maria

Maria Enders, diva quarantenne al culmine della propria carriera internazionale, è assurta alla fama oltre quattro lustri prima interpretando a teatro il ruolo di Sigrid, giovane ambiziosa che induce al suicidio la più matura Helena, innamoratasi di lei. La scomparsa di Wilhelm Melchior, autore del dramma che tanto ha significato per il suo percorso professionale, la induce a rifare il testo, però calandosi questa volta nei panni della coprotagonista. A ricoprire il ruolo che un tempo le era appartenuto, il giovane regista della nuova versione chiama una starlet hollywoodiana, Jo-Ann Ellis, predisposta in maniera sgradevole allo scandalo. Recatasi assieme alla sua inseparabile assistente Valentine a Sils Maria, un remoto paese delle Alpi ove si preparerà per il cimento, Maria si trova ad affrontare un periglioso bilancio della propria vita giusto mentre è alle prese con un divorzio, e la paura dell'età che passa diviene più incalzante...

Entrambi all'inizio della propria vicenda artistica, Olivier Assayas e Juliette Binoche si incontrarono per la prima volta al tempo di "Rendez-vous"(1985), esordio dietro la macchina da presa di André Téchiné: lui coautore del testo, lei attrice principale, dipoi intraprendono due strade parallele e fortunate, senza però più riuscir a incrociarsi. "Sils Maria" deve, perciò, essere parso ad entrambi un'occasione da non lasciarsi sfuggire. Nato da un'idea della stessa Binoche e da un documentario di Arnold Frank, "Cloud Phenomena of Maloja" (1924), in cui viene ripreso il singolare fenomeno atmosferico del "serpente del Maloja" (vale a dire, lo scorrere autunnale di una catena di nuvole lungo tutta l'Engadina), esso ritorna su temi cari al cineasta parigino: già "Irma Vep" (1996) era la storia di un "film nel film", con la star del cinema orientale Maggie Cheung nella parte di se medesima, e un abile intrecciarsi della passione per la settima arte con l'autobiografismo.

Qui, il gioco si fa, se possibile, ancora più vertiginoso. Mentre "Kowalski" dei Primal Scream risuona rabbiosa in colonna sonora, Assayas costruisce un racconto matrioska ch'è un ininterrotto rifrangersi di specchi. Il rapporto fra Maria e Jo-Ann riproduce quello fra Helena e Sigrid, ma anche l'interazione fra Maria e Valentine scaturisce da dinamiche similari. Si tratta di un esercizio di metacinema, dove Kristen Stewart tiene botta muovendosi fra una complicità amicale ed un'ostilità da deuteragonista nei confronti di Binoche. Per cui, nelle meravigliose scene della prova del testo, Maria/Helena/Juliette si scontra e più raramente s'incontra con Valentine/Sigrid/Kristen, dando luogo a uno spettacolo recitativo d'alta classe. Il modo in cui Maria cerca di collocarsi in una zona acronotopica che prescinda dall'anagrafe è il cuore della vicenda: la modalità, di contro, è l'attenzione di chi guarda, la sua capacità di sfuggire alla pania dell'autoreferenzialità. Ed è per questo che l'evento fondamentale è una sparizione silente, che suscita un interrogarsi doloroso sull'incapacità di porsi in ascolto, di "soffermare lo sguardo solo un istante in più". Per paradosso bildungsroman, nel senso del viaggio verso il raggiungimento della maturità da parte di una donna incapace di non restar ancorata ai privilegi della giovinezza, "Sils Maria" adopera come mezzo comunicativo la parola in modo torrenziale, implacabile, staremmo per dire sfinente. Ma quanto d'attenzione, fatica, concentrazione il regista chiede allo spettatore, viene infine ripagato dalla visione di un'opera di cristallina bellezza che ha la forma di un oggetto filmico nitido, a tratti contundente, sempre ammaliante.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

SILS MARIA. REGIA: OLIVIER ASSAYAS. INTERPRETI: JULIETTE BINOCHE, KRISTEN STEWART, CHLOE GRACE MORETZ. DISTRIBUZIONE: GOOD FILMS. DURATA: 124 MINUTI.