martedì 4 novembre 2014

Torneranno i prati

"Mio padre aveva 19 anni quando venne chiamato alle armi. A quell'età, l'esaltazione dell'eroicità infiamma menti e cuori, soprattutto dei più giovani. Scelse l'Arma dei bersaglieri, battaglioni d'assalto, e si trovò dentro la carneficina del Carso e del Piave, che segnò la sua giovinezza e il resto della sua vita".
Non è la prima volta che Ermanno Olmi affronta il tema della guerra: già nel remoto "I recuperanti" (1970, girato anch'esso sull'Altopiano di Asiago, il medesimo luogo di questa sua ultima fatica), ad esempio, dove aveva descritto le conseguenze delle ostilità belliche su quelle genti ed il modo in cui, per paradosso, dal dolore fosse poi scaturita una fonte di sostegno. O nel bellissimo "Il mestiere delle armi" (2001), in cui il transito dall'epoca dei cavalieri a quella delle armi da fuoco in qualche modo lasciava che una guerra disumanizzata prendesse il posto di scontri contraddistinti, quanto meno, dal coraggio e dal senso dell'onore.

Mai, però, il maestro ci aveva dato un'opera dalla scaturigine tanto personale: nella dedica al papà "che, quand'ero bambino, mi raccontava della guerra dov'era stato soldato", si trova il segno di un'emozione lontana nel tempo eppur vivida, un suggerimento da non lasciar cadere soprattutto quando la vecchiaia e la salute t'incalzano nel riconsiderare l'esistenza tutta, verificandone le cose davvero importanti. Sulla scorta di una suggestione letteraria (lo splendido racconto di Federico De Roberto "La paura"), il film ci porta sul fronte Nord-Est, zona Altipiano dei Sette Comuni, in quei giorni del 1917 che precedettero la sconfitta di Caporetto.

In una trincea d'alta montagna, giunge un ordine insensato che un tenente si rifiuta di eseguire perché non vuole mandare al massacro i propri uomini. E' a questo punto che arriva un maggiore, mandato lì "per tenere alto lo spirito" e "non far poltrire nell'ozio" le truppe. Sotto l'imposizione di quest'ultimo, si va a morire: c'è chi prima si fa benedire dal cappellano e bacia la fetta di pane che porta con sé, chi decide di spararsi, chi prende un topolino nella mano per sentirne il calore vitale, chi guarda da una feritoia quasi incantato la corsa di una lepre, il muso di una volpe. C'è poi il tempo, tanto lento che pare non trascorra: qualcuno intona una canzone, "Tu ca nun chiagne" o "Fenesta ca lucive", toccando il cuore finanche del nemico. E c'è, improvviso, il succedersi delle cannonate preceduto da razzi che rischiarano la notte: corpi martoriati, feriti che non vogliono soccorso, croci che si aggiungono ad altre. Dio manca, "ma vuoi che se non ha ascoltato il figlio ascolti noi, poveri cani?".

Per mettere in scena la tragedia quotidiana della guerra, Olmi ha scelto di desaturare i colori sino ad ottenere un impasto di bianchi, neri e grigi che danno sentore di polvere e abbandono; la neve, vera protagonista, sembra aver smarrito il biancore per assumere delle tonalità plumbee; ed i corpi che cercano riparo dal gelo sotto improbabili mantelline, paiono strumenti velati dal dolore, prigionieri di filo spinato e cavalli di Frisia. Mai, ci sembra, la Grande Guerra ha trovato toni così desolati al cinema (in letteratura, magari, nelle pagine di Lussu e Jahier, di Comisso e Gadda); e solo l'immenso "Orizzonti di gloria" (1957) di Kubrick regge il confronto, per intensità e potenza, con questa pellicola di ottanta minuti. Spesi all'insegna di un'indignazione che trasmuta, nascendo, in pietas.

TORNERANNO I PRATI. REGIA: ERMANNO OLMI. INTERPRETI: CLAUDIO SANTAMARIA, ALESSANDRO SPERDUTI, FRANCESCO FORMICHETTI, ANDREA DI MARIA. DISTRIBUZIONE: 01. DURATA: 80 MINUTI.

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