martedì 21 maggio 2013

La grande bellezza

Re della mondanità capitolina, Jep Gambardella quasi non ricorda più - dopo decenni di permanenza in una Roma che "ti deconcentra" - di esser stato, a vent'anni, autore di un esordio nel romanzo assai acclamato, "L'apparato umano". Arrivato a sessantacinque primavere, egli si trascina con infiacchita vitalità da una festa funereamente gioiosa all'altra, tra balli accaldati e conversazioni prive di centro, intellettuali devastati dalla frustrazione e traffichini male rimpannucciati, politici di complemento e clero di complimenti, barricadere male invecchiate e amiche devastate dall'angoscia. Ormai tediato da un andazzo al quale, pure, non riesce a sottrarsi, Jep ha frettolosi convegni sessuali ("alla mia età non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare"), rivela quando costretto dolorose verità su chi lo circonda, è indulgente soltanto nella misura in cui è necessario farlo ("siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po' in giro"). Intorno, sta una città d'abbacinante bellezza, dalla visione del Gianicolo alla prospettiva del Borromini, da Piazza Navona a via Veneto, da Villa Medici a Palazzo Spada: uno scenario al quale restano indifferenti i più, perduti in un cupio dissolvi malamente dissimulato.

Ha sin dall'inizio rifiutato, Sorrentino, qualunque paragone tra questo suo "La grande bellezza" e "La dolce vita" (1960) di Fellini: pur se numerosi sono gli omaggi che egli presta al riminese, a cominciar da un personaggio principale - il citato Jep Gambardella - che pare una sorta di erede del Marcello di oltre mezzo secolo fa. Ciò detto, il talento barocco - nel senso inteso da Gadda nella prefazione a "La cognizione del dolore" - e immaginifico di Fellini ha pochi punti di contatto con quello disciplinato e raziocinante di Sorrentino, pur se li unisce l'occhio: moralisti entrambi (nel senso che in Francia si dà al termine, Moliére non Tartufo), hanno sguardo profondo ben attento a non essere giudicante, anzi a riservare una misura di pietas a ciascuno dei personaggi. 

Gli ambienti descritti da Sorrentino sono i medesimi raccontati nel capolavoro antico: sicché, una mutazione sembra avere colpito la genia dei mondani mossi allora da un fondo di vitalità, magari inficiato dall'edonismo. Qui a spiccare è, di contro, un senso di vuoto invincibile (e si rammarica,
Gambardella, di non riuscir a scrivere su detto nulla: ma se, a suo tempo, non fu capace Flaubert...). Si ha l'impressione che ciascuna delle figurette che qui si muovono come falene, riesca per miracolo
a strare in piedi: ed il senso del sacro pare richiamare - evocato dal protagonista medesimo, quasi fosse in limine mortis - la figura di una monaca ultracentenaria, che ha scelto da tempo la povertà e
si nutre esclusivamente di radici. In sede di bilancio, tuttavia, non v'è conforto se non assai irrisorio ("prima c'è stata la vita, anche se nascosta sotto il blabla"). Il magistero di Sorrentino s'inventa una geniale variazione per dar vita all'affranta ironia del suo Jep; attori bravissimi - da Carlo Verdone a Sabrina Ferilli, da Roberto Herlitzka a Massimo Popolizio - s'incaricano d'esser corifei, figure d'un affresco che, a momenti, si scompagina e frantuma, e tuttavia incide per ricchezza di temi e motivi.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

LA GRANDE BELLEZZA. REGIA: PAOLO SORRENTINO. INTERPRETI: TONI SERVILLO, CARLO VERDONE, SABRINA FERILLI, CARLO BUCCIROSSO, IAIA FORTE, PAMELA VILLORESI, GALATEA RANZI. DISTRIBUZIONE: MEDUSA. DURATA: 143 MINUTI.

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