giovedì 13 settembre 2012

Pietà

Un giovane è al servizio di un usuraio, ed il suo compito è quello di riscuotere i crediti a ogni costo.  Nelle degradate strade della Corea del sud, egli si aggira minaccioso e spietato. A quelli impossibilitati a pagare, applica una terribile punizione: dato che essi sono coperti da assicurazioni, li mutila in maniera che possano incassare il premio e dargli il denaro. La solitudine nella quale vive in un quartiere di Seul viene, ad un certo punto, interrotta dall'arrivo d'una donna misteriosa: ella afferma di essere sua madre, e di averlo abbandonato da piccolo. Dapprima respinta, la presunta genitrice pian piano s'insinua nella vita del crudele esattore, cavandone fuori - dopo essere stata respinta, picchiata, umiliata, finanche violentata - quell'umanità che lo porta ad accettarla come mamma. Ciò comporta dei cambiamenti: il nostro non è più capace di svolger la propria attività con la necessaria ferocia. Ma, proprio mentre pare che per lui inizi un'esistenza più degna ed illuminata, improvvisa come s'era palesata, la donna sparisce nel nulla...

Premiato a Venezia con un meritato Leone d'ora, "Pietà" riassume tutti i temi del cinema di Kim Ki-duk: il valore metaforico universale della violenza, la sopraffazione che colpisce più di tutti gli emarginati, il destino frutto di scelta individuale, la morte quale presenza imprescindibile ed assurda. I toni sembrano essere quelli realistici della sua prima parte di carriera, da "Crocodile" (1996) a "L'isola" (2000): il sadomasochismo dell'assunto è temperato ed inquadrato all'interno di una parabola di umano-spoglia-rinnova profondamente religiosa (c'è persino qualche punto di contatto tra il protagonista del film e l'Alex di "Arancia meccanica", solo che per il primo la violenza è lavoro, per l'altro era svago). Ugualmente il denaro, qui, pare essere più lo sterco del diavolo che la catena di trasmissione di una società capitalistica: il discorso del regista di Formosa, in definitiva, non ha molto di politico, sceglie in luogo di avere ambizioni etiche e spirituali.

C'è, poi, l'argomento vendetta, centrale nella cultura orientale (si pensi alla trilogia di Park Chan-wook iniziata con "Bad Boy", o a quasi tutto l'horror di quelle parti, infestato da fantasmi dolenti e rancorosi). Raramente, dobbiamo dire, ci è capitato di vederne una personificazione più pregnante di quella messa in scena, qui, nel personaggio della madre pentita: e mai, ci pare, la pietà di cui al titolo è riuscita a tracciarne ed evidenziarne i limiti in maniera così toccante, intensa.

Un poco appesantito dalla sua natura di film a tesi (la rappresentazione essenziale e straziante del dolore propria, ad esempio, di uno Tsai Ming-liang, non appartiene a Kim Ki-duk), "Pietà" è comunque uno degli esiti più alti d'un cineasta non sempre altrettanto convincente (la personale preferenza di chi scrive va alle cose sue più aeree e leggere, come "Ferro 3"): il taglio raffinato ed elegante delle inquadrature, la forza di alcune sequenze (c'è quella del dissotterramento di un cadavere, con quanto ne consegue, che è indimenticabile), il bellissimo finale fanno di "Pietà" un'opera che - quasi ad ossimoro - coniuga terribilità e dolcezza.
                                                                                                                                    Francesco Troiano

PIETA'. REGIA: KIM KI-DUK. INTERPRETI: LEE JUNG-JIN, CHO MIN-SOO. DISTRIBUZIONE: GOOD FILMS. DURATA: 104 MINUTI.

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