lunedì 9 marzo 2015

Blackhat

Il surriscaldamento che ha provocato l'esplosione di una centrale nucleare a Hong Kong. L'improvviso schizzare del prezzo della soia alla borsa di Chicago. Dietro a entrambi questi accadimenti c'è, di certo, un attacco informatico: lo comprendono le autorità americane e cinesi che, pur riluttanti, si convincono che è necessario collaborare per assicurare alla giustizia i responsabili. Il capitano Dawai - un ufficiale militare arrivato negli Usa assieme a sua sorella, ingegnere informatico - domanda all'FBI di liberare il super hacker Nick Hathaway, che sta scontando 15 anni di carcere, affinché scopra chi ha trasformato un codice da lui ideato tanti anni prima in un virus così pericoloso. Raggiunto l'accordo (che lo vedrà liberato ma controllato, sia a vista che elettronicamente), Nick si getta nell'impresa: per guadagnarsi la libertà, dovrà correre una serie di rischi incalcolabili...

Ad un lustro di distanza da "Nemico pubblico" (2009), Michael Mann torna alla regia con una pellicola che - dopo il caso Sony Leaks e "The Interview" - si presenta d'inquietante attualità. Lo spunto, stando a quanto egli ha dichiarato, gli è balenato studiando Stuxnet, il virus informatico creato dagli Stati Uniti per colpire una centrale nucleare iraniana. E' il suo primo film girato del tutto in digitale ("Collateral", "Miami Vice" e "Nemico pubblico" contenevano delle sequenze in 35mm), ma "al contrario di quanto molti pensano non sono un paladino ideologico del digitale contro la pellicola. Uso di volta in volta quello che ritengo sia il mezzo migliore. Dovessi rigirare oggi "L'ultimo dei Mohicani", userei di nuovo la pellicola".

Girato in soli 66 giorni, pur sciorinando 75 diverse location in 4 differenti paesi (Usa, Cina, Malesia, Indonesia), "Blackhat" è una sinfonia in cui i vuoti sopravanzano i pieni, come già annunciavano in parte "Miami Vice" e "Collateral". Al regista dell'Illinois paiono interessare sempre meno le parti di racconto tradizionale, pur se la trama del film risulta sufficientemente chiara nei suoi snodi principali. E', invece, la descrizione della metropoli ad affascinarlo, tra frotte di individui, treni e metropolitane, neon, notti popolate da luci onnipresenti. Risultano, in tal modo, tanto più sorprendenti, nella seconda parte, squarci che mostrano spazi naturali, lasciando respirare a pieni polmoni e godere degli spazi aperti. Tra questi contrasti, si muove un autore che predilige i dettagli, le pause, i tempi morti, le panoramiche, in luogo delle parti propellenti l'azione vera e propria.

E' un cinema sempre più rarefatto, quello di Mann; i suoi eroi si muovono come dèi minori, tra i buoni e i cattivi le differenze sono ridotte al minimo, semmai è l'etica a definire le distanze; la giustizia umana,  quella che condanna Hathaway a non poter avere i giorni che vorrebbe od a vivere con la donna che ama, ha tempi che non corrispondono con quelli dell'esistenza (pur se si è colpevoli, va detto, dei reati ascritti). La moralità della visione che sovrintende al tutto, con lo scorrer dei minuti, vela gli strumenti e lascia il posto ad una sottile malinconia dell'esistere, che impregna le azioni dei vari personaggi. Una tavolozza di colori freddi,  più che nei precedenti lavori del nostro, dà alla scena un sentore come di metallo; dipinge un mondo senza pietà ove si è costretti ad arrancare ed in cui, happy end o meno, la vita non è certo un dono a buon mercato.
                                                                                                                                     Francesco Troiano

BLACKHAT. REGIA: MICHAEL MANN. INTERPRETI: CHRIS HEMSWORTH, WEI TANG, VIOLA DAVIS, RITCHIE COSTER, HOLT McCALLANY. DISTRIBUZIONE: UNIVERSAL. DURATA: 135 MINUTI.

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